Si potrebbe pensare che Come finirà? sia un titolo pensato per pure ragioni di marketing. E forse è così, perché si tratta di un titolo oltremodo attraente per tutti: non vogliamo forse sapere sempre ‘come finirà’ qualunque cosa, qualunque viaggio, qualunque avventura, qualunque avvenimento piccolo o grande? Si può persino immaginare che un lettore distratto potrebbe comperare il libro avendo dato soltanto un’occhiata al sottotitolo, e quindi al contenuto ‘vero’ del volume. Comunque sia, Come finirà? è il quesito che da diversi anni economisti accademici e policy makers si pongono con angoscia crescente.
Per apprezzare appieno l’importanza di questo lavoro di Attali è utile ripercorrere brevemente la storia di questa crisi, partendo dal quesito opposto: come iniziò? Perché forse, se ricordassimo come è iniziata, se potessimo cominciare a dare una risposta aquesto quesito, allora forse potremo cominciare a formarci delle ipotesi su come potrebbe finire. E perché soltanto ricordando come essa è iniziata, e come si è cercato di contrastarla, si riuscirà a contrastare almeno in parte la marea montante dell’ideologia irrazionale che ha preso corpo in larghi strati della popolazione e degli addetti ai lavori: l’ideologia del ‘i debiti vanno pagati’, ‘i governi (canaglia?!) si sono indebitati e adesso non vogliono pagare’. Problema: chi ricorda come si è sviluppata questa crisi? E, non ricordandolo, come fa chi non ricorda ad identificare scenari di sviluppo (o sottosviluppo) dell’economia mondiale?
Il metodo che vogliamo seguire è proprio quello adottato da Attali, il cui libro, edito ora in Italia da Fazi, si apre con una ricostruzione, veloce ma illuminante, del concetto di ‘debito’ e, in particolare, di debito ‘sovrano.’ È un fatto importante questo, in un’epoca in cui le parole scivolano entro e fuori i discorsi e, con loro, i concetti che esse vorrebbero rappresentare. Primo, dunque, occorre sapere che cosa sia questo debito, da dove venga, perché esso sia ‘un male’. E, poi, come andrà a finire.
Le origini lontane della crisi
Le origini lontane della crisi hanno ormai una spiegazione ‘di consenso’, cioè largamente condivisa, sulla quale occorre spendere non più di poche parole. Sembra di poter dire che la coincidenza di almeno quattro eventi sia alla base della crisi:
- Finanziamento crescente dei disavanzi correnti del governo statunitense da parte delle economie emergenti e della Cina in particolare, circa 1994-2007 (o ‘squilibri globali’, come certa letteratura ama definire il fenomeno);
- Deregolamentazione del settore dell’intermediazione finanziaria statunitense mediante la progressiva eliminazione delle regole fissate nel 1933-35 mediante il Glass-Steagall Act (circa 1990-1999);
- L’emergere di metodologie per la distribuzione e la valutazione del rischio del tutto nuove e forse largamente incomprese, e comunque non regolamentate, dal regolatore (circa fine anni ottanta);
- La politica monetaria fortemente espansiva adottata a partire dalla cosiddetta ‘crisi delle dotcom’ e continuata per diversi anni per ragioni diverse (circa 2001-2007).
Il manifestarsi della crisi
Le difficoltà in cui si trovavano nella prima parte del 2007 tanto le banche commerciali che quelle di investimento vennero poste all’attenzione del grande pubblico all’inizio di agosto di quell’anno, quando una grande banca annunciò pubblicamente che alcuni suoi fondi comuni di investimento trovavano difficoltà a far fronte ai rimborsi di quote richiesti dai loro sottoscrittori.
Quando chi scrive sosteneva, già nell’inverno 2007-2008, che la crisi che al tempo i più chiamavano ‘dei mutui subprime’ avrebbe generato effetti durissimi su crescita e occupazione in tutti i paesi ad alto reddito pro capite, veniva guardato con forte scetticismo.[1] In fondo, si trattava di una voce fuori dal coro, un coro i cui cantori magnificavano la potenza ‘dei mercati’ e la loro capacità di restituire al mondo equilibrio e crescita in tempi rapidi.
Venne poi la crisi del credito e, a seguire, la ‘Grande Recessione’, espressione molto usata nella pubblicistica anglosassone ma poco da noi dove, si sosteneva e si continua a sostenere, la disoccupazione misurata in percento delle forze di lavoro è più bassa che altrove, dove le banche hanno avuto il buonsenso di non detenere in portafoglio titoli tossici (ma qualcuno ha sottoposto alla considerazione pubblica anche un’altra ipotesi, che definisce ‘maligna’), dove la resilienza della famosa ‘piccola e media impresa’ mette tutti al riparo dagli scatafasci che colpiscono il resto del mondo. Al momento in cui questa recensione viene scritta, le agenzie battono novità che vanno proprio in senso opposto: disoccupazione in aumento, tanto negli Stai Uniti che in Italia.
Le reazioni delle autorità di politica economica: la politica monetaria
La reazione delle autorità di politica economica fu repentina e, agli occhi di chi scrive, sostanzialmente corretta: sostanzialmente perché anch’esse sottovalutarono la dimensione e le implicazioni sistemiche della crisi in atto. A reagire per prima fu la Banca Centrale Europea, seguita poche ore più tardi da quella statunitense: correttamente, ad una crisi di natura finanziaria e di liquidità si doveva reagire fornendo agli intermediari finanziari liquidità. Si poteva discutere, e si discusse, sulla quantità, sulle forme, sul costo: ma la sostanza dell’intervento non venne mai veramente messa in discussione se non, in maniera anche massiccia, negli Stati uniti, dove si andava sviluppando un movimento d’opinione che riusciva a trovar udienza in Congresso e che sosteneva che ‘salvare le banche’ non era la sola strategia possibile, e che almeno un’altra ne esisteva: ‘salvare i mutuatari’ e, con loro, l’economia reale.
Nella prima fase della crisi, quella cioè in cui, giusto o sbagliato che fosse, si scelse di salvare il sistema finanziario, la risposta della politica economica non poteva che essere di tipo (prevalentemente) monetario. Questo intervento prese inizialmente la forma di iniezioni di liquidità di dimensioni inaudite nel sistema bancario mondiale: erano poche le vestali dell’ortodossia monetaria che, di fronte al pericolo di un crollo puro e semplice del sistema bancario e finanziario, si preoccupavano dei potenziali effetti inflazionistici dell’espansione monetaria. Lo stesso “Financial Times”, tradizionalmente guardiano attento dell’ortodossia, abbandonava le posizioni tradizionali. Del resto, sarà bene ripeterlo ancora, inflazione non se ne vedeva. Né se ne vede.
Le reazioni delle autorità di politica economica: i salvataggi
Che la politica monetaria sarebbe stata sufficiente, forse, a salvare il sistema finanziario, era possibile; ma era chiaro a tutti che la Grande Recessione andava affrontata con i mezzi tipici della politica fiscale antirecessiva. Questo passaggio dalla politica monetaria avvenne gradualmente.
Inizialmente, a partire dalla primavera del 2008, il mix di politica economica si veniva arricchendo con dosi crescenti di interventi dell’autorità fiscale. Ma si trattava di un intervento fiscale di tipo particolare, niente affatto mirato allo stimolo della domanda di beni e servizi, cioè ad una azione anticiclica di stampo ortodossamente keynesiano. Piuttosto, si trattava di spesa pubblica per l’acquisto, il salvataggio, l’erogazione di sussidi a, e/o la nazionalizzazione di, imprese finanziarie in difficoltà che, per ragioni ancora largamente dibattute, vennero in parte ‘salvate’ ed in parte no.
In quel periodo la coppia Bernanke (Banca Centrale) – Paulson (Tesoro) sembrava inseparabile; insieme, il presidente della Banca Centrale e il ministro del Tesoro venivano delineando misure di intervento sempre più originali, caratterizzate da interventi non ortodossi tanto del Tesoro che della Banca Centrale. Assistemmo a cose fino ad allora inimmaginabili: la vendita di Bear Sterns e di Merrill Lynch, il rifiuto delle autorità di politica economica statunitense di adottare la stessa soluzione per Lehman Brothers, la fine delle banche di investimento, la nazionalizzazione di AIG, l’acquisto da parte della Banca Centrale di titoli tossici.
L’ultima speranza: spesa pubblica in disavanzo e riduzione dell’imposizione fiscale
Ma le misure ‘di salvataggio’ mostravano un’efficacia drammaticamente bassa quanto al tentativo di fermare, se non invertire, il processo che stava costruendo la Grande Recessione. E nel novembre 2008 il Governo cinese, uno dei primi tra i governi G20, deliberava una spesa straordinaria di 586 miliardi di dollari, da finanziarsi in disavanzo e indirizzata in prevalenza al potenziamento delle infrastrutture. Nel febbraio 2009 il Congresso degli Stati Uniti approvava un aumento del deficit federale per 787 miliardi di dollari, parte destinata alla riduzione del carico fiscale sulle famiglie e sulle imprese, parte destinata a finanziare spesa per la sanità, le infrastrutture, le energie rinnovabili. Anche in questo caso, pochissimi erano coloro che se la sentivano di mantenere posizioni da ‘bilancio in pareggio’ che pure avevano mantenuto per anni. Di nuovo, il “Financial Times” titolava che prima o poi si sarebbe dovuto tornare a politiche di bilancio più tradizionali ma, please, non ancora, o si sarebbe rischiato di schiacciare la ripresa nascente.
L’origine dei debiti pubblici ‘esplosivi’
Le prime due fasi della crisi si erano dunque svolte secondo copione: banche centrali e governi di tutto il mondo si erano impegnati in una battaglia senza precedenti per salvare le banche prima, e poi per ridare al sistema reale, quello della produzione, del consumo, degli investimenti, quegli stimoli che le banche avevano azzerato quando preferivano depositare in banca centrale la liquidità presa a prestito piuttosto che fornirla, con profitto, si intende, al sistema produttivo.
Sapevamo che lo stimolo fiscale cui quasi tutti i governi al mondo contribuirono per rallentare e, sperabilmente, bloccare la Grande Recessione, era di dimensioni nuove e inaudite. Di conseguenza, chi scrive riteneva che la ripresa ci sarebbe stata: lenta, ineguale, spumeggiante nei paesi emergenti e molto più debole in molti paesi ad alto reddito pro capite, senza inflazione, con tassi di disoccupazione ostinati e sostanzialmente fermi ai livelli del 2009 per molto tempo ancora. Ciò che chi scrive non aveva previsto, invece, era l’attacco contro l’euro che si sarebbe scatenato a partire dall’autunno del 2009.
Come diretta conseguenza dei programmi di stimolo alla produzione mediante spesa in disavanzo, la dimensione dei disavanzi correnti di quasi tutti i paesi al mondo nel 2009 (e nel 2010, e nel 2011, e nel 2012…) cresceva fino a livelli mai toccati prima. A mò di esempio: si ricorderà che nel 1992 il governo italiano esibiva un disavanzo corrente del 10,6% rispetto al prodotto interno lordo, e che questo numero veniva considerato il segno di un quasi-crollo: tanto è vero che la lira si svalutò in un batter d’occhi del 30% contro il marco tedesco, mentre il nostro governo (giustamente) e (non capirò mai perché) il nostro paese, venivano additati al pubblico ludibrio. Oggi, un rapporto deficit/Pil assai simile vale per il governo degli Stati uniti. Dov’è l’attacco al governo statunitense?
La vergogna del governo debitore
Come ho argomentato già nel febbraio 2010[2], la terza fase della crisi venne scatenata da un’azione della famosa agenzia di valutazione Fitch la quale, il 22 ottobre 2009, declassava il debito sovrano greco. Feci notare a quel tempo che i tempi dell’operazione erano quanto mai sospetti: soltanto il 5 ottobre il presidente del Governo uscente aveva ammesso la vittoria della controparte, e il nuovo Governo non aveva avuto neanche il tempo materiale di porre mano alla verifica dello stato dei conti pubblici. Da quel momento, il dibattito ha preso una direzione che ha dell’incredibile: quella della necessità che il Governo sovrano greco adottasse politiche fiscali disumanamente restrittive; che Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna dovessero seguire rapidamente la stessa strategia, o perché i loro disavanzi correnti, o i loro debiti, o entrambi, erano ‘eccessivi,’ o perché si riteneva che lo sarebbero stati in un futuro non troppo lontano.
L’uso del termine ‘dibattito’ è forse fuorviante: un ‘dibattito’ prevede una qualche sorta di equilibrio tra le voci in campo, se non per dimensione, almeno per dignità dei dibattenti agli occhi di chi ascolta. La tesi che veniva imposta da media e professionisti di varie estrazioni è banalmente quella che le vestali dell’ortodossia erano venute sostenendo per decenni prima della crisi: un governo con un deficit corrente e/o un debito alto rispetto al prodotto interno lordo del paese che governa deve rapidamente ‘rimettere ordine’ nei propri conti, pena la perdita di credibilità del proprio ruolo di debitore e il dover sottostare a una domanda in caduta libera dei propri titoli di debito. In assenza di misure di risanamento efficaci e credibili, prezzi bassi per il debito sovrano, rendimenti crescenti, deficit secondario fuori controllo, necessità di ridurre il deficit primario, ergo tagli alla spesa e/o aumento del prelievo.
Ma perché? Chi scrive è tra coloro che approvarono la famosa manovra da 170.000 miliardi di lire adottata dal primo Governo Prodi, il cui scopo era ovviamente di creare le condizioni perché l’Italia potesse entrare a far parte dell’area euro. Scopo nobile, dunque, i cui benefici non è il caso di riassumere qui oggi, ma il cui costo non poteva essere, e non fu, nascosto: una recessione feroce. Ma perché applicare la stessa ricettaoggi, quando le condizioni sono cambiate drammaticamente e ciò cha andava bene 13 anni or sono oggi non va più bene? Oggi quel paese non è più lo stesso: esso appartiene ad un’area monetaria comune, e quindi non esiste più la possibilità che l’attacco speculativo contro il suo governo possa automaticamente generare un deprezzamento della valuta nazionale. Questo è la Grecia. Come l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna…. (e, per timore, occorre fermasi qui.) Tutti paesi appartenenti all’area euro.
Come finirà?
La posizione assunta dai governi europei è semplicemente sbalorditiva. Per almeno due ragioni. La prima è che non capisco per quale ragione fosse necessario indurre una recessione drammatica in Grecia, quando i mercati non la chiedevano e che comunque e sicuramente non avrebbe mai indotto quell’aumento di reddito necessario a generare base imponibile sufficiente a riequilibrare il bilancio di quel governo. E poi perché chiunque può immaginare che, adottando la linea della ‘austerità’ (quanto sa di virtuoso, di equilibrato, di ‘giusto’ questa parola!) si sarebbe accettato il terreno di scontro voluto dalla speculazione, quello della credibilità del debitore, appunto. Ma in che senso si può far ‘pagare il conto’ ad un debitore che non possiede più un a propria valuta? Perché lo sappiamo, la svalutazione è la sola forma di penalità che fino ad ora abbiamo visto può essere imposta al debitore!
Come finirà, allora? Forse così.
1. Le banche
Queste stanno lucrando in maniera fantastica. Il rischio che corrono è tutto da un solo lato, quello dell’acquisto di titoli dei governi sotto attacco. Con una ulteriore garanzia: che se mai i titoli del debito pubblico in loro possesso dovessero deprezzarsi troppo, ci sarebbe comunque sempre la Banca Centrale a sollevarle dalla perdita. Lo chiamiamo ‘moral hazard.’
2. I governi europei
I gruppi politici dirigenti europei stanno dando prova di un antieuropeismo raramente visto prima. Per salvare sé stessi e mettersi al riparo dalle reazioni di elettori che essi stessi aizzano contro l’euro, fanno finta di non vedere (o non vedono, il che non sarebbe poi tanto meglio) che è arrivato il momento di fare un altro salto storico nel processo di integrazione dell’Europa: il passaggio da sedici autorità fiscali nazionali (diciassette dal primo gennaio) ad una sola agenzia europea, cui si consenta di emettere debito europeo. Se questo salto non verrà compiuto, i governi europei perderanno molto di credibilità di fronte al mondo e, con essi, purtroppo anche l’euro e l’idea di Europa.
3. Il governo Usa
Mano a mano che si rende del tutto inappetibile alle banche il governo dei paesi ‘periferici’ dell’area euro, il capitale finanziario così liberato non potrà che migrare verso i paesi ‘non periferici’ dell’area euro, verso il debito statunitense, verso il debito emesso dalle imprese. Già oggi un gran numero di imprese paga rendimenti sulle proprie obbligazioni di gran lunga inferiori da quelli pagati dai governi periferici. Inutile sottolineare che tanto più l’attacco ai governi sovrani dell’area euro si radicalizza, tanto più il capitale così liberato cercherà debito denominato in altre valute. Il ‘privilegio esorbitante’ che Charles De Gaulle identificò nel 1968 come il punto di forza dell’egemonia statunitense è ancora vivo e vegeto.
4. Le imprese private
Di queste si è già detto sub 3. C’è solo da aggiungere che le imprese Usa beneficeranno della crisi dei debiti sovrani più di quelle europee per via della fuga da titoli denominati in euro verso titoli denominati in dollari.
5. L’euro
L’euro è sotto un attacco durissimo. Il ripetersi degli attacchi ai governi nazionali ormai da quattordici mesi ha messo la valuta europea in gravi difficoltà, poiché un deprezzamento dell’euro dovuto a queste cause non può essere salutato con il solito commento trito e ormai, nella nuova strutturazione delle catene produttive mondiali, anche errato, secondo cui un euro debole fa bene alle esportazioni. Il deprezzamento è segno della debolezza della risposta politica all’attacco dei mercati, ed è proprio quella debolezza che sta a fondamento di ogni nuovo, più virulento attacco.
Orientarsi in questa crisi non è semplice. Dire come finirà è difficilissimo. Sono a confronto interessi economici immensi e ideologie altrettanto importanti. I sostenitori del potere taumaturgico dei mercati tremano all’idea che la politica (economica, ovviamente) rifiuti di pagare con il crollo del progetto europeo questa crisi iniziata sui mercati finanziari, degenerata in recessione, curata con i soldi pubblici. Attali cade in parte in questa trappola, dando forse troppo credito all’ideologia del debito come peccato mortale. Ma gli dobbiamo un libro in cui si riflette sulle questioni fondamentali del ruolo del debito pubblico nella crescita dell’economia e del benessere. E aiutare a riflettere, oggi, non è poco.
[1] Chi volesse seguire le posizioni di chi scrive sulle problematiche relative a crescita, commercio internazionale e crisi dei debiti sovrani può accedere liberamente a http://www.scenarieconomici.com
[2] ‘Greece 2010 is not Italy 1992 (but the UK may very well be)’, http://www.scenarieconomici.com, 23 febbraio 2010. Questa tesi ha trovato la sua prima presentazione pubblica, al di fuori di un’aula universitaria, il 21 dicembre 2009. Si veda<http://www.youtube.com/watch?v=vrt3NtuRrxA>