La settimana iniziata il 23 maggio è stata caratterizzata da due importanti eventi che meritano attenzione e commento. Ovviamente, entrambi hanno a che fare con la cosiddetta ‘crisi greca’.
Il primo evento riguarda quella che i greci chiamano ‘la troika’, cioè la combinazione di istituzioni internazionali– il Fondo Monetario Internazionale, sovranazionali – la Banca Centrale Europea, e di quell’organo esecutivo prigioniero di ventisette governi nazionali europei– la Commissione. La settimana scorsa esse hanno inasprito la propria posizione, hanno messo in dubbio la rilevanza del processo di privatizzazione lanciato dal governo greco, hanno lasciato che perfino la competenza di quest’ultimo a gestire il processo di privatizzazione venisse messa in dubbio da commentatori privati e pubblici.
Queste istituzioni hanno la responsabilità di aver lanciato l’economia greca in una recessione violenta, dalla quale il paese non potrà riprendersi, se lasciato a se stesso, che in tempi biblici. La logica che viene usata nell’affrontare la crisi ‘greca’ è risibile, e se la situazione non fosse drammatica si dovrebbe ridere. Che la recessione vi sarebbe stata, e sarebbe stata lunga e dolorosa, lo si sapeva da tempo (io ne scrissi, usando gli stessi aggettivi, alla fine del 2009). Così come si sa da tempo immemorabile che se si vuole che un governo ripaghi i propri debiti, deve poter prelevare le proprie entrate fiscali da un’economia che cresce, nella quale cioè il reddito imponibile aumenta (a parità di pressione fiscale, ovviamente). Ma come si conciliano le due cose? Come si può chiedere alla Grecia di vedere il proprio prodotto interno lordo diminuire e al suo governo di aumentare il prelievo? Ovviamente non si può.
Si può però immaginare che il finanziamento extra-mercato al governo greco possa essere accompagnato da un progetto di rilancio dell’economia greca mediante un supporto sostanziale a progetti produttivi localizzati in quel paese. In chiaro: la recessione richiesta dalla troika c’è, ed è forte. Se il ragionamento con cui la si giustifica è che essa dovrebbe rendere l’economia ‘più competitiva’ –bene, competitiva lo è diventata: i salari sono ormai ben al di sotto della media europea (e lo erano già prima della crisi!), e continuano a cadere; la forzalavoro disoccupata è molta e in aumento per tutti i livelli di qualifica e scolarizzazione; le infrastrutture ci sono (anche se ovviamente non dovunque sono ai livelli, ad esempio, del portodel Pireo). Dunque, perché? O le vestali dell’ortodossia fiscale ci risponderanno che è compito dei soli imprenditori greci allargare la base produttiva del paese (e con essa elevare la probabilità di un rimborso ordinato e graduale del debito)?
ll secondo accadimento importante della settimana scorsa è l’emissione di titoli ‘europei’ destinati a finanziare il supporto al governo portoghese. Si tratta della terza emissione da gennaio ad oggi, e tutte e tre sono state un successo. Quest’ultima collocazione, per €4,75 miliardi di titoli decennali, ha ricevuto una domanda talmente elevata chel’offerta è stata assorbita in meno di due ore. Un segnale molto forte questo, di fiducia veramente solida nell’emittente ‘Europa’, ma purtroppo un segnale che non ha ricevuto la stessa attenzione che ricevono le cosiddette ‘agenzie di rating’ e i loro attacchi sistematici all’euro e alla sua solidità.
Ciò che rende ancora più importante questo avvenimento è l’interesse che ha attratto da parte degli investitori dell’estremo oriente. Molti ricorderanno la visita del primo ministro cinese ad Atene e Lisbona lo scorso ottobre, e le parole di simpatia e di incoraggiamento che egli pronunciò in quell’occasione: non una promessa di comprare titoli del debito greco e portoghese, quella no, ma promesse di acquisto un capo di governo non ne fa. Oggi vediamo che anche le emissioni della European Financial Stability Facility attraggono attenzione degli investitori asiatici.
Ci sono dunque le condizioni perché l’Unione Europea, e l’area euro, escano da questa crisi senza uccidere le economie dei suoi paesi in difficoltà: occorre comperare titoli emessi da quei governi e allo stesso tempo favorire gli investimenti e la ripresa economica. Quanto al primo punto, negli anni scorsi la banca centrale statunitense ha comperato ogni sorta di titoli tossici per salvare il proprio sistema bancario: che cosa impedisce alla Banca Centrale Europea di fare altrettanto? Il problema, si presume, non può essere lasciato in mano al governo cinese e al suo desiderio di diversificare i propri impieghi in valuta. Quanto al secondo punto, e cioè un piano di investimenti produttivi nei paesi in difficoltà, è così difficile da capire? Non si tratta forse dello stesso tipo di intervento che ha segnato gli anni d’oro dell’integrazione e dell’allargamento, con il quale fu ‘facilitato’ il passaggio da paese esterno a paese membro per tanti dei 27? Grazie al quale l’UE ha contribuito alla ricostruzione delle economie disastrate dell’Europa centro-orientale, Germania orientale inclusa?