La non-crescita dei salari: produttività, investimenti, e “confidence fairy”

di Luca Macedoni e  Andrea Rongone

Lo stipendio medio annuo di un lavoratore dipendente impiegato in un impresa italiana è pari a 23,406€. A dircelo è Eurostat, che il 24 febbraio ha pubblicato le statistiche relative all’anno 2009 di tutti i paesi dell’Unione Europea. Meno dell’Irlanda, meno della Spagna, meno di Cipro, poco più del poverissimo Portogallo. Ma noi non ne siamo stupiti.

E allora qual è il problema dell’Italia, o meglio, delle imprese che operano nel nostro paese? Secondo il ministro Fornero, i lavoratori dipendenti sono così tutelati, così protetti e coccolati dall’articolo 18, al punto che le imprese non possono licenziare i dipendenti poco volenterosi, e la produttività delle imprese diminuisce. Il merito del neo-ministro, se ve n’è uno rispetto ai governi precedenti, è quello di avere un’opinione sul tema, dopo anni di falsi proclami, strizzate d’occhio a Confidustria e sindacati, e continui “nulla di fatto”. Che l’Italia abbia un problema di produttività è palese. Il nostro paese, unico tra quelli ad alto reddito pro-capite, ha visto la produttività del lavoro diminuire dal 2000 ad oggi.

Tabella 1 – Produttività del lavoro (prodotti finali all’ora per unità di lavoro, 2002=100)

Year 1970 1980 1990 2000 2003 2007 2008 2009
United States 31,9 41,7 58,1 88,8 108,2 135,2 135,7 146,2
France 29,0 42,9 63,6 94,0 104,5 116,2 115,1 106,8
Germany 36,7 54,5 69,8 96,5 103,6 122,7 122,4 111,0
Italy 30,0 56,8 78,1 100,9 97,9 103,1 99,4 93,5
Japan 28,4 47,9 70,9 98,5 106,8 127,6 127,9 113,3
Korea NA NA 33,3 90,8 106,8 156,1 157,2 160,1
Spain NA 57,9 80,0 97,4 102,5 110,9 109,3 108,4
Taiwan NA 28,6 52,5 85,6 107,2 143,2 145,5 152,4
United Kingdom 35,5 44,7 70,1 93,5 104,3 123,8 124,0 119,8

Fonte: Beaureau of Labor Statistics

La teoria economica ci insegna che un dipendente che produce dieci unità di prodotto guadagnerà, all’incirca, il doppio di chi ne produce cinque. Se la produttività del lavoro aumenta, a parità di tutto il resto, i salari medi possono aumentare.
Quindi non ci stupisce affatto che l’Italia sia un paese il cui salario medio è relativamente basso rispetto a quello di altri paesi europei. Piuttosto, ci stupisce la reazione del ministro, e la non-reazione di Confidustria, e delle parti sociali. In Germania, che ha una struttura produttiva e una dimensione comparabile al nostro paese, il valore dello stipendio medio annuo è di 41,100€. È possibile spiegare una differenza di 18,000€ nel salario medio con un’inefficienza di mercato? Davvero gli operai tedeschi guadagnano quasi il doppio degli italiani perché hanno più voglia di lavorare? O perché sono minacciati dalla possibilità di essere licenziati in caso di inefficienza? Noi ci sentiamo di rispondere “no, no, e ancora no” a tutte queste domande.
Il problema delle imprese italiane non è quello di trovare il modo di licenziare le mele marce. Anzi, quegli strumenti esistono già, e sono anche ben normati. Noi crediamo che la produttività del lavoro diminuisca per la mancanza di investimenti, ed in particolare per la mancanza di investimenti in capitale fisico ed umano. Torniamo all’esempio precedente, e ammettiamo che al lavoratore che produceva cinque pezzi all’ora sia data una macchina che gli permette di produrne trenta. Ammettiamo pure che non abbia troppa voglia di lavorare, e che invece di trenta pezzi ne produca venti. Il suo stipendio sarà comunque il doppio del lavoratore che produceva dieci pezzi! Quindi in Italia abbiamo una mancanza atavica di investimenti, non dipendenti poco volenterosi. Perché non investiamo, perché non innoviamo? Perché, prima di tutto, le nostre imprese non crescono. Un tessuto produttivo cresciuto auspicando di rimanere piccoli, occupando le nicchie di mercato, basato su distretti industriali di micro-imprese si è rivelato dannoso nel lungo periodo. E qualcuno ha iniziato ad accorgersene.

Il nanismo industriale italiano ha origini lontane: Marcello de Cecco individua nello sciopero degli investimenti degli anni ’60 il primo fattore che ha modificato la struttura produttiva del bel paese, rendendola enormemente diversa da quella delle altre potenze industriali europee e dal Giappone. L’assenza di investimenti nel decennio 1963-1973 ha portato l’Italia a soffrire di una cronica assenza di competitività, all’alba degli shock petroliferi. La via italiana alla competitività è quella delle svalutazioni competitive, che diventano, per vent’anni, il principale strumento di politica economica. Le svalutazioni della lira, le tutele ai lavoratori garantite solo alle imprese di grandi dimensioni, e un “decentramento produttivo” che trasformava medie e grandi imprese in microaziende invisibili al fisco, non generano certo gli incentivi necessari agli investimenti e alla produttività. E al tempo stesso, generano una domanda strutturale di lavoro a bassa qualificazione tecnologica: gli imprenditori non hanno bisogno né di nuovi macchinari, né di dipendenti qualificati, formati, o laureati[1].

Una recente analisi dell’Economist ha mostrato la correlazione negativa tra dimensione delle imprese e crescita della produttività. Come ci aspettavamo, più un paese impiega i suoi lavoratori in microimprese e più la produttività rimane bassa. Non è un caso che più del 90% dei lavoratori tedeschi sia impiegato in medie e grandi imprese, mentre la più grande diffusione di piccole imprese si registri in Grecia, Spagna, Portogallo e Italia.

Tabella 2 – Investimenti lordi per capita (€), prezzi correnti (1995-2008)

La non-crescita dei salari_produttività, investimenti, e confidence fairy.png  Fonte: Eurostat

Con la fine delle svalutazioni competitive negli anni ’90, i nodi vengono al pettine. Quindi la fuga dei cervelli, la produttività calante, e i salari bloccati. La crisi del 2007 non ha fatto altro che esacerbare i problemi: il crollo della domanda mondiale accelera le pressioni competitive tra imprese e le prime a soccombere sono quelle che non hanno investito negli ultimi anni.

Come risolviamo il problema? C’è chi auspica di modificare le norme che regolano l’uscita dal mercato del lavoro. Tocchiamo l’articolo 18, e le imprese verranno a investire in Italia – dicono – perché troveranno condizioni di investimento migliori. Non regolamentate, appunto, quasi “cinesi”. Come se ci fosse una “confidence fairy”[2] che spinga le imprese a investire laddove il costo del lavoro è più basso, laddove il mercato è liberalizzato, laddove il sindacato diminuisce le proprie richieste. Ma potremo mai competere con la Cina, con il Vietnam, con il Bangladesh se percorriamo questa strada? Insomma, davvero si può pensare che togliere tutele al lavoro genererà investimenti e produttività?

Sarebbe meglio, forse, incentivare la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese per vedere i nostri salari e i nostri redditi crescere, e, per uscire da questa crisi, stimolare l’investimento privato aumentando la domanda del settore pubblico. Domanda che potrebbe essere rivolta verso quel lavoro qualificato raramente richiesto dalle imprese italiane e che cerca fortuna e salari migliori all’estero.

Ma, anche stanotte, aspetteremo la nostra fatina.

Tabella 3 – Salario medio pro-capite (€), 2005 – 2009

Paese/Anno

2005

2009

Totale Uomini Donne Totale Uomini Donne
Belgio

36,673

37,822

32,715

40,698

41,471

37,350

Bulgaria

1,978

2,199

1,697

4,085

4,475

3,540

Rep. Ceca

7,405

8,285

5,925

10,663

11,939

8,576

Danimarca

47,529

50,676

40,884

56,044

59,608

48,891

Germania

38,700

41,200

31,500

41,100

43,400

33,900

Irlanda

40,462

43,478

33,726

39,858

42,965

32,768

Grecia

29,160

31,233

25,291

Spagna

20,333

21,772

17,187

26,316

28,059

22,761

Francia

30,521

32,316

26,586

33,574

35,501

29,456

Italia

22,657

23,406

Cipro

20,549

23,726

15,887

24,773

29,283

20,049

Lettonia

4,246

4,700

3,674

8,727

9,653

7,648

Lituania

4,770

5,176

4,205

7,406

8,130

6,504

Fonte: Eurostat

 


[1] Marcello de Cecco, L’Italia grande potenza: la realtà del mito;  Storia Economica d’Italia, Banca Intesa Laterza – 2004.

De Cecco, Le privatizzazioni nell’industria manifatturiera italiana, Donzelli Editore, 2000.


[2] L’espressione, coniata dal premio Nobel per l’economia Paul Krugman in The Conscience of a Liberal, 2009, è utilizzata per spiegare inesistenti prospettive d’investimento.

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