Ed ecco che torniamo alle politiche keynesiane

Il pezzo pubblicato su questo sito il 7 marzo scorso chiedeva esplicitamente “Più Europa, non meno; e più spesa pubblica, non meno.” Dopo poco più di sei mesi la nostra previsione si sta avverando.
Certo non avevamo previsto le forme precise che la crisi del credito avrebbe assunto, né i tempi, e tantomeno la sua gravità. Ma avevamo chiaramente percepito i segni della stagnazione, e mettevamo in guardia contro le tentazioni nazionaliste entro l’Unione Economica e Monetaria.

Più spesa pubblica, non meno. E’ ben noto che il cosiddetto piano Paulson per il salvataggio delle banche statunitensi prevedeva originariamente l’acquisto da parte del governo di titoli tossici presenti nei portafogli delle banche. Obiettivo di tale acquisto era ripulire i portafogli delle banche e restituire loro in questo modo una appetibilità perduta. Ma al di là dei tecnicismi di questo tipo di operazione, pure importanti,  ciò che veramente conta è che il piano si è rapidissimamente trasformato in acquisto puro e semplice di banche da parte del governo: nove, giganti della finanza, riporta il Wall Street Journal Europe del 15 ottobre, tra cui mostri sacri della finanza mondiale. Certo, una forma nuova e inusitata di politica  keynesiana di spesa in disavanzo per quanto riguarda l’oggetto dell’acquisto, ma niente affatto nuova nella sua natura.
Tale sostituzione degli obiettivi del TARP in corso d’opera è da ricondursi all’iniziativa del primo ministro inglese, il quale adottava la politica di acquisizione pubblica di capitale bancario tin Inghilterra mentre negli Stati uniti il Congresso trovava difficoltà a trovare per il TARP una forma che potesse essere votata da una maggioranza consistente e, possibilmente, con il contributo sia di democratici che di repubblicani. Ironia della sorte, è il labour inglese che ha segnato la via ai free marketeers statunitensi.
Né sembra probabile che la spinta all’adozione di politiche di espansione fiscale si fermi qui. Il Congressional Budget Office prevede che il debito pubblico statunitense continuerà a crescere fino al 2013, e questo al netto di qualunque ulteriore stimolo di natura espansiva il governo di quel paese riterrà di imprimere all’economia nazionale a fronte della previsione di un peggioramento fortissimo delle aspettative delle famiglie e, quindi, della loro spesa per consumi.

Più Europa, non meno. Il trattato di Maastricht (1992) e il patto di stabilità di Amsterdam (1998) sono stati gli strumenti mediante i quali l’Europa si è data degli obiettivi comuni e una disciplina comune per raggiungerli. L’obiettivo iniziale di deficit nazionali che non superassero il 3% del pil e, in seguito, quello dell’azzeramento di tali deficit era, ed è, condivisibile. Ma due aspetti di questo processo di azzeramento dei deficit nazionali creano delle difficoltà logiche. Se, infatti, i deficit nazionali possono soltanto scendere (in proporzione al pil), quali strumenti di stabilizzazione economica restano all’autorità di politica fiscale? In altre parole, è evidente che le politiche adottabili possono avere soltanto di natura restrittiva. Ma quando l’economia ristagna, o si muove addirittura verso la recessione, è proprio allora che l’autorità di politica fiscale rimane disarmata?
Per quanto ci riguarda, che le autorità nazionali dovessero essere messe gradualmente in difficoltà nella gestione del ciclo economico è perfettamente coerente con una visione dell’Europa che procede sul cammino dell’integrazione; ma che ci volesse una crisi creditizia e, assai presto, dell’economia reale, tanto grave perché le èlites politiche nazionali fossero disposte a prendere in considerazione il passo successivo del processo di integrazione ci sembra sorprendente. Leggiamo in questi giorni che i governi di alcuni paesi aderenti all’UEM potrebbero ricevere presto l’autorizzazione a “piccoli sforamenti del tetto del 3% .” Si tratta duna politica del tutto inaccettabile dal punto di vista del processo di integrazione europea: esiste la necessità impellente di adottare politiche fiscali espansive, ma queste vanno adottate a livello centrale nell’area dell’euro mediante un processo decisionale centralizzato e condiviso, e soprattutto mediante indebitamento non dei governi dei singoli paesi membri.
Certo, non abbiamo un ‘governo europeo’ che possa indebitarsi, come detterebbe il modello dello stato-azione cui siamo abituati. Ma si tratta di un problema del secondo ordine di grandezza di fronte alla vastità della crisi e alla sua durezza: i mezzi tecnici esistono, come colleghi di rilievo hanno argomentato e continuano ad argomentare in Italia e nel resto d’Europa.
Che si sia arrivati impreparati ad affrontare la situazione di stagnazione in cui ormai l’Europa si trova è ormai evidente; che non si colga l’opportunità per cominciare a muoversi ‘da Europa’ sarebbe imperdonabile

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