di Fabio Sdogati e Yiwen Zhou
La crisi attuale dura ormai da cinque anni, e sta peggiorando. Negli ultimi tre anni i governi dei paesi maggiormente colpiti dalla recessione si sono rifiutati, e continuano ad evitare, di compiere l’unica azione che invertirebbe questa evoluzione drammatica: ovvero, stimolare la domanda aggregata.
Ma non è stato sempre così. C’è stato un tempo, non molto addietro, in cui gli stimoli fiscali da parte dei governi non erano considerati un peccato.
Alcuni ricorderanno che, nel novembre 2008, il governo cinese fu il primo ad adottare misure fiscali espansive finanziate in disavanzo per l’ingente somma di 576 miliardi di dollari, pari ad un impressionante 16% del PIL. Ed il mondo intero gliene fu grato. Fu poi la volta del Congresso USA, il quale approvò nel febbraio 2009 un deficit per l’anno fiscale allora in corso pari a 787 miliardi di dollari, in parte dovuto a minori entrate ed in parte a maggiori spese – un massiccio 5.6% del PIL statunitense.
Ma, nell’ottobre 2009, Fitch scioccò il mondo declassando il debito pubblico del governo greco. Da tre anni a questa parte la recessione si sta aggravando, la disoccupazione continua a salire, e nessuno dei quattro motori della crescita sta funzionando: i redditi disponibili delle famiglie sono in calo, le imprese non spendono in beni d’investimento produttivo date le aspettative negative sull’economia, le esportazioni crescono ad un ritmo molto lento e certamente non come le importazioni, ed ai governi va bene così, tanto che non fanno altro che premere per una più forte recessione – che essi chiamano ‘austerità’.
Il quesito è: da dove verrà la domanda? Nuovamente dalla Cina, come accaduto nel 2008? Le economie emergenti hanno davvero intenzione di aiutare a moderare tale recessione e, col tempo, capovolgere questa situazione? Qualora lo volessero, il modo più efficiente sarebbe quello di stimolare la propria domanda aggregata interna, reindirizzare la propria produzione dai mercati esteri a quello interno, incrementare il ritmo al quale essi importano dall’Europa così come dal resto degli attuali paesi ad alto reddito pro-capite.
Diamo un’occhiata alla Cina per valutare se esista qualche segnale che vada nella direzione di quanto appena descritto. Ci sono tre livelli sui quali dobbiamo cercare evidenza: il dibattito politico, la bilancia commerciale, il tasso di cambio del Renminbi.
1. Il dibattito politico
In Cina, le linee guida della politica economica sono riportate nel piano quinquennale. Come indicato nella sezione ‘Compiti e principali obiettivi del dodicesimo piano quinquennale valido per il periodo 2011-2015’, il Consiglio di Stato ha approvato la proposta del primo ministro Wen Jiabao, secondo cui il governo dovrà focalizzarsi ampiamente su questioni sociali, assegnando la priorità all’istruzione e incrementando, costantemente, il livello di istruzione delle persone. In secondo luogo, l’impegno del governo sarà rivolto al miglioramento del sistema sanitario, così da elevare gli standard di vita, e del sistema di welfare sociale attraverso il rafforzamento delle strutture pubbliche per l’assistenza degli anziani e, contemporaneamente, lo sviluppo di strutture infermieristiche per la cura delle persone anziane.
In questo piano quinquennale, il Consiglio di Stato ha proposto l’adozione di un modello di crescita economica più bilanciato, dando la medesima rilevanza a importazioni ed esportazioni, all’attrazione di investimenti diretti dall’estero e a quelli verso l’estero.
Considerando l’impatto delle fluttuazioni del tasso di cambio, è stato dichiarato che il governo dovrà gestire il sistema a tassi di cambio flessibili basandosi sulla domanda e sull’offerta sul mercato, così da ampliare l’utilizzo dello Yuan nel commercio internazionale e sostenere la convertibilità del conto capitale del paese.
Qual è l’entità dei cambiamenti nei dati sul commercio internazionale e sulle dinamiche del tasso di cambio Renminbi/US$ a cui stiamo assistendo?
2. Dalle dichiarazioni politiche all’evidenza empirica: la bilancia commerciale
In Figura 1 sono riportati i valori mensili delle esportazioni e delle importazioni cinesi, in dollari correnti. Osserviamo che le esportazioni hanno superato le importazioni per gran parte del periodo pre-2012 e che, successivamente, questo andamento non sembra essersi invertito. L’evidenza empirica preliminare sembra dunque indicare un’aderenza imperfetta al dictum del dodicesimo piano quinquennale, almeno fino a quando si fa riferimento a dati aggregati del commercio internazionale.
Ma neache i dati riportati in Figura 2 sembrano lasciar prevedere un imminente cambio di direzione nella variazione delle esportazioni nette cinesi. Qui abbiamo calcolato le variazioni percentuali su base annua (cioè, la variazione percentuale tra ogni valore assunto in un dato mese e il valore assunto nel medesimo mese dell’anno precedente) sia per le esportazioni sia per le importazioni. Se osservassimo un’accelerazione delle importazioni relativamente alle esportazioni, allora potremmo affermare, almeno in via preliminare, che la Cina sta iniziando realmente ad importare più di quanto esporti. Purtroppo non è così. Anzi, durante l’ultimo trimestre le esportazioni sembrano essere cresciute più rapidamente delle importazioni.
Al fine di valutare se sia in corso una improvvisa e recentissima accelerazione delle importazioni contemporaneamente a una decelerazione delle esportazioni, nella Figura 3 abbiamo calcolato il tasso di variazione dei flussi commerciali rispetto al mese precedente. Si può vedere che dall’inizio dell’estate non vi è alcuna differenza apprezzabile tra i due tassi.
Infine, la Figura 4 riassume tutte le informazioni raccolte in precedenza, mostrando il modo in cui la bilancia commerciale della Cina si sia evoluta nel tempo. Anche in questo caso, non ci sono evidenze rilevanti di un declino del surplus commerciale nei confronti del resto del mondo.
3. Dalle dichiarazioni politiche all’evidenza empirica: il tasso di cambio nominale
La dinamica del tasso di cambio nominale può rappresentare un buon indicatore della politica commerciale di un paese. La Figura 5 mostra come le autorità cinesi abbiano permesso l’apprezzamento del Renminbi a partire dall’inizio dell’estate 2010, da 6,8 RMB/US$ a poco più di 6,3 RMB/US$. Come suggerisce la teoria tradizionale, una valuta che si apprezza dovrebbe ridurre il saldo di bilancia commerciale. In questo caso, tuttavia, la teoria tradizionale sembra non trovare riscontro, a meno che questa apparente non correlazione tra il tasso di cambio nominale e il saldo di bilancia commerciale non possa essere spiegata da un aumento della produttività cinese, il quale ha compensato l’apprezzamento del Renminbi. Questa è però un’ipotesi che richiede ulteriori ricerche.
4. Conclusioni
Di fronte alla crisi finanziaria globale, la Cina ha annunciato un cambiamento nel suo modello di sviluppo: da economia orientata alle esportazioni ad economia sempre più tirata dalla domanda interna. Allo stesso tempo ha permesso l’apprezzamento del Renminbi. I documenti ufficiali affermano che l’espansione dei consumi interni rappresenta una delle priorità fondamentali per gli anni a venire. Il benessere sociale e lo sviluppo sostenibile dal punto di vista ambientale sono stati posti al centro dell’attenzione, insieme alla riduzione delle imposte e agli aumenti di spesa.
Dal punto di vista dei paesi ad alto reddito pro-capite, tutto ciò si traduce in una semplice domanda: possono questi aspettarsi che la domanda di importazioni dalla Cina aumenti effettivamente fino a un punto sufficiente a compensare, almeno in parte, gli effetti delle politiche recessive nazionali? L’evidenza preliminare presentata qui sembra sostenere l’ipotesi che tali effetti virtuosi non si stanno ancora verificando. O, in altre parole: volevate una recessione, e l’avete ottenuta. La Cina non può essere il salvatore del mondo. Quanto meno, non nell’immediato.