di Daniele Langiu, Francesco Morello e Fabio Sdogati
Molti si sono chiesti, negli ultimi anni, perché gli economisti non abbiano previsto la crisi attuale. Tra le molte risposte possibili, e probabilmente corrette, quella che preferiamo è che la professione non si occupa più, in generale, dell’economia nel suo complesso, della sociologia dei rapporti economici, delle implicazioni economiche di cambiamenti nella normativa: di quel metodo, cioè, che pure era dei classici, quando ciò che oggi chiamiamo “economia” era chiamato “filosofia morale”.
In questo lavoro cerchiamo, nei nostri limiti, di recuperare quel metodo per studiare il modificarsi nel tempo del ruolo delle banche in un contesto di finanziarizzazione dell’economia mondiale e frammentazione internazionale della produzione.
La tesi che sosteniamo in questo lavoro non è del tutto facile da dimostrare, ma è sufficientemente semplice da formulare. Quando gli effetti espansivi della più grande politica di stimolo all’economia mondiale mai conosciuta dall’umanità, la seconda guerra mondiale, cominciarono ad esaurirsi, la profittabilità dell’investimento industriale cominciò a diminuire. Due forze vennero messe in movimento per, quantomeno, rallentare questa caduta: da un lato la ricerca di minori costi di produzione unitari mediante il ricorso alla frammentazione internazionale della produzione, il che avvenne gradualmente a partire dai settori produttivi in cui il basso costo del lavoro non qualificato costituisce una quota importante dei costi – abbigliamento, calzature e pellami, arredamento. Negli Stati Uniti si osservavano fenomeni importanti di frammentazione internazionale della produzione già a partire dall’inizio degli anni settanta. Parallelamente, e quasi contemporaneamente, viene prodotta, nelle università statunitensi, la teoria poi nota come shareholder value revolution, cioè un nuovo approccio teorico che reclama quote crescenti di profitti distribuiti agli azionisti a parità di valore aggiunto e, di conseguenza, quote decrescenti destinate agli investimenti e al miglioramento delle condizioni di lavoro, salariali o meno. Gli azionisti industriali diventarono così liberi di destinare la propria quota di valore aggiunto a qualsivoglia attività d’investimento, e il settore finanziario si rese presto conto che era possibile catturare quote crescenti di quella liquidità offrendo rendimenti superiori a quelli offerti dal ‘vecchio’ settore industriale. Nasceva qui l’ingegneria finanziaria che, nelle nuove condizioni in cui si sarebbe trovata ad operare l’economia dalla metà circa degli anni novanta, avrebbe generato la crisi finanziaria all’origine di questa recessione feroce.