Premessa
[Chi avesse letto il Fatto n. 1 la salti a piè pari e vada sotto a il Fatto n. 2]
Quando, anni fa, discutevo con studenti, colleghi e amici dell’opportunità o meno di aprire www.scenarieconomici.com, la mia posizione su quali sarebbero stati i temi che avrebbero trovato spazio era molto ferma: temi di economia internazionale, reale e finanziaria, temi importanti per il governo dell’economia mondiale quali le politiche monetarie e quelle fiscali. E temi di politica economica interna italiana? No, grazie. Certamente temi da discutere con studenti, colleghi e amici, ma non nel ‘dibattito pubblico’, quello tra e sui quotidiani, gli spettacolini televisivi post prandiali, le uscite estemporanee di politici e giornalisti di cui già Giorgio Gaber ci parlava anni e anni fa. Un dibattito pubblico asfittico, tinto di ideologia come in pochi tra i paesi ad alto reddito pro capite, povero di posizioni scientificamente solide collegate alla ricerca, ricco però di luoghi comuni quali quelli che hanno portato il paese al disastro: il ‘piccolo è bello’, le virtù dell’essere ‘radicati sul territorio’, le magnifiche sorti e progressive del ‘made in Italy’, e avanti così, il tutto mentre la globalizzazione dei mercati e delle culture avanzava trionfante (vedo i miei studenti di tanti anni sorridere mentre leggono questa mia tirata vecchia ormai di decenni!).
Arriva però un giorno, di tanto in tanto, in cui occorre fare un’eccezione e parlare di Italia in pubblico, uscendo dalla torre d’avorio per cercare di parlare (ad almeno una piccola parte) di quelle decine di milioni di concittadini per bene, che sanno quali siano i problemi veri dell’economia, un giorno in cui diventa dovere assoluto denunciare il fatto che l’uso dell’ideologia avulso da qualunque riferimento ai fatti e alla teoria economica assume il tono di campagna di disinformazione permanente. Quel giorno occorrerà dire con forza quali sono i fatti, e con ciò mostrare che il re è nudo. Come, peraltro, tutti coloro che conosco sanno e mi dicono. Anche quelli che non conoscono la teoria economica così bene, perché rimane vero che il buon senso (onesto) e la buona teoria economica sono in forte sintonia.
Questo è uno di quei giorni.
La struttura di questa pubblicazione è un po’ arzigogolata ma divertente. Ogni settimana aggiungerò al documento base un ‘fatto’. E ciò verrà annunciato ai lettori. Che troveranno su www.scenarieconomici.com un elenco di ‘fatti’ sempre più lungo. Perché il lavoro di sbugiardamento durerà molto a lungo.
Ed eccoci al fatto n. 2.
Fatto n. 2 Non è vero che il costo del lavoro in Italia sia troppo alto. E poi, ‘alto’ rispetto a che cosa?
Il ‘dibattito’ sull’articolo 18 e sulla ‘riforma del mercato del lavoro’ è straordinariamente falso. Esso viene ripetuto sempre uguale a se stesso, senza che vengano esibiti fondamenti fattuali, guidato interamente dall’ideologia.
Per dimostrarlo abbiamo prima di tutto eliminato dal terreno coloro che si occupano di articolo 18, coloro che vogliono dar da intendere che sia questo il problema delle imprese italiane. E abbiamo visto con il Fatto n. 1 che esso non lo è, e che i lavoratori dei paesi ad alto reddito pro capite proteggono i propri lavoratori. Più di quanto non avvenga da noi. Più in generale, abbiamo portato evidenza statistica del fatto che il grado di protezione di chi lavora cade al cadere del reddito pro capite del paese sotto osservazione.
La seconda proposizione che ricorre ossessivamente nel ‘dibattito’ è che il costo del lavoro nel nostro paese sia alto. La Figura 1 mostra che ciòè falso.
Figura 1: Hourly labour cost in industry, construction and services (except public administration, defense, compulsory social security) in 2013
Fonte: Eurostat, ottobre 2014
Si vede agevolmente che Il costo del lavoro orario in Italia è appena sotto quello in Irlanda e appena sopra quello nel Regno Unito (e appena sopra la media nei 28 paesi membri dell’UE). Per quanto mi addolori fare certe comparazioni, si noterà come il costo del lavoro orario vada diminuendo da quello della Norvegia a quello della Bulgaria, passando per la Germania, l’Italia e, poi, la Slovacchia. Lascio al lettore le osservazioni, corrette, che però mi addolora fare, sull’ordinamento di questi paesi per qualità della vita, tassi di disoccupazione, ecc.
Dobbiamo essere duri con i sostenitori e i grandi teorici della ‘moderazione salariale’ e pretendere una risposta a questo quesito: dove vogliono il paese su questa scala in Figura 1 tra dieci anni?
Ci risponderanno (non è vero, non ci risponderanno) che il problema non è il costo del lavoro in sé ma il cuneo fiscale; oppure che il problema è che occorre che chi lavora si sacrifichi per il rilancio della competitività internazionale del sistema Italia (sic!); o, ancora, che….
Poniamo noi il quesito vero: il costo del lavoro è alto? Alto rispetto a che cosa? Se si tratta di trovare una metrica, a quale metrica dobbiamo fare riferimento? Alla media del costo del lavoro dei paesi dove esso è al di sotto della media dell’UE-28? Al Pakistan? Alla Nuova Zelanda? Beh, se il problema andasse posto in termini di metrica, ovviamente dovremmo fare riferimento al costo del lavoro più basso possibile. Cioè quello che comporta un salario da fame.
Ma noi siamo certi che i nostri austeri non vogliono un paese alla fame. E allora perché vogliono ridurre il costo del lavoro? Una risposta piuttosto convincente ci viene dalla teoria economica: perché gli austeri vogliono mascherare la mancata crescita della produttività delle imprese, determinante della loro competitività internazionale. E per non essere spazzati via dal mercato cercano questa competitività appunto nella riduzione dei costi. E del costo del lavoro in primis. Punto.
Il costo del lavoro, infatti, non è la sola determinante della competitività internazionale di un’impresa. Tanto è vero che diciamo che, a parità di tutte le altre condizioni, una misura corretta della competitività è il costo del lavoro per unità di prodotto, Non il costo del lavoro, ma il costo del lavoro pesato dalla produttività. È solo chi è incapace di intervenire dal lato della produttività facendola crescere che cerca competitività mediante i tagli al costo del lavoro. Con ciò affamando il paese. Ma chi volesse, e ne fosse capace, potrebbe lavorare invece dal lato della produttività, o no? Perché, invece di impegnarsi tanto a parlare di ‘riforme strutturali’ (non ne posso più) non si impegnano in una campagna di finanziamento di ricerca e sviluppo, di formazione del personale aziendale, di progetti e procedure per l’aumento della produttività, per il rinnovamento della base produttiva del paese, per una ri-specializzazione produttiva e commerciale che porti al superamento di quel ‘made in Italy’ fatto di settori tradizionali che, avvertivamo già anni fa, ci avrebbe portato a competere con paesi a costo del lavoro basso?
Questioni che discuteremo con i prossimi ‘Fatti’.