Premessa
[Chi avesse letto il Fatto n. 1 e il Fatto n. 2 la salti a piè pari e vada sotto, a il Fatto n. 3]
Quando, anni fa, discutevo con studenti, colleghi e amici dell’opportunità o meno di aprire www.scenarieconomici.com, la mia posizione su quali sarebbero stati i temi che avrebbero trovato spazio era molto ferma: temi di economia internazionale, reale e finanziaria, temi importanti per il governo dell’economia mondiale quali le politiche monetarie e quelle fiscali. E temi di politica economica interna italiana? No, grazie. Certamente temi da discutere con studenti, colleghi e amici, ma non nel ‘dibattito pubblico’, quello tra e sui quotidiani, gli spettacolini televisivi post prandiali, le uscite estemporanee di politici e giornalisti di cui già Giorgio Gaber ci parlava anni e anni fa. Un dibattito pubblico asfittico, tinto di ideologia come in pochi tra i paesi ad alto reddito pro capite, povero di posizioni scientificamente solide collegate alla ricerca, ricco però di luoghi comuni quali quelli che hanno portato il paese al disastro: il ‘piccolo è bello’, le virtù dell’essere ‘radicati sul territorio’, le magnifiche sorti e progressive del ‘made in Italy’, e avanti così, il tutto mentre la globalizzazione dei mercati e delle culture avanzava trionfante (vedo i miei studenti di tanti anni sorridere mentre leggono questa mia tirata vecchia ormai di decenni!).
Arriva però un giorno, di tanto in tanto, in cui occorre fare un’eccezione e parlare di Italia in pubblico, uscendo dalla torre d’avorio per cercare di parlare (ad almeno una piccola parte) di quelle decine di milioni di concittadini per bene, che sanno quali siano i problemi veri dell’economia, un giorno in cui diventa dovere assoluto denunciare il fatto che l’uso dell’ideologia avulso da qualunque riferimento ai fatti e alla teoria economica assume il tono di campagna di disinformazione permanente. Quel giorno occorrerà dire con forza quali sono i fatti, e con ciò mostrare che il re è nudo. Come, peraltro, tutti coloro che conosco sanno e mi dicono. Anche quelli che non conoscono la teoria economica così bene, perché rimane vero che il buon senso (onesto) e la buona teoria economica sono in forte sintonia.
Questo è uno di quei giorni.
La struttura di questa pubblicazione è un po’ arzigogolata ma divertente. Ogni due settimane aggiungerò al documento base un ‘fatto’. E ciò verrà annunciato ai lettori mediante Twitter e LinkedIn. I lettori interessati troveranno dunque su www.scenarieconomici.com un elenco di ‘fatti’ sempre più lungo. Perché il lavoro di sbugiardamento durerà molto a lungo.
Fatto n. 3: È vero che in Italia il ‘mercato del lavoro’ è molto frammentato. E allora? Chi ha voluto un’espansione del lavoro precario che non ha eguali in alcun paese ad alto reddito pro capite? Chi lavora!? E poi: guardiamo ai dati, se ‘contratti atipici=flessibilità’ allora……
Provo a ragionare su questo tema come ragionerebbe qualunque persona in buona fede. I primi quesiti che vengono in mente sono: A chi conviene una situazione di (forte) frammentazione del mercato del lavoro? Chi l’ha voluta? E poi: Quali sono gli effetti di una (forte) ‘frammentazione’ del mercato del lavoro?
1. A chi conviene una situazione di (forte) frammentazione del mercato del lavoro? Chi l’ha voluta?
La teoria economica elementare ci aiuta a rispondere a questo quesito in maniera non ambigua. Il ‘mercato del lavoro’, pur non essendo il mercato del pesce che molti vorrebbero fosse, è un sistema di due equazioni in due incognite, che chiamiamo rispettivamente ‘domanda di lavoro’ e ‘offerta di lavoro’. Contrariamente a quanto appare sulla pagina degli annunci economici di molti quotidiani, le imprese domandano lavoro, noi lo offriamo. (Curiosità: gli annunci del tipo ‘Automunito offresi’ compaiono sotto la colonna intestata ‘domande di lavoro’. Mistero. O meglio: l’automunito sa di essere offerta di lavoro, il giornale no.)
Ora, il ‘mercato’ non è mai semplicemente l’atto dello scambio; esso è il luogo in cui domanda ed offerta di lavoro vorrebbero incontrarsi entro un quadro normativo di riferimento dato: invertendo l’ordine degli addendi, è l’insieme delle regole entro cui domanda e offerta cercano di incontrarsi. Se questo incontro avviene, entro quel determinato sistema di regole, avremo un ‘salario di equilibrio’ e una ‘occupazione di equilibrio’, e l’attività produttiva può cominciare perché la quantità domandata dalle imprese e quella offerta dai lavoratori coincide. Bene.
Ma stiamo parlando di UN mercato del lavoro, di UN insieme di regole. Ma se il legislatore introducesse un nuovo insieme di regole che avesse valore per, diciamo, coloro che entrano sul mercato del lavoro per la prima volta, ma non per coloro che occupati già erano, allora quel legislatore creerebbe un SECONDO mercato del lavoro. Inoltre, il legislatore può decidere che le nuove regole siano obbligatorie per tutte le imprese, così che TUTTI i nuovi entranti siano assunti con le nuove regole; o potrebbe lasciar la libertà alle imprese di usare le vecchie regole o le nuove a seconda della propria scelta; in un caso come nell’altro esisterebbero due mercati del lavoro. Un discorso molto schematico, ma speriamo comprensibile.
Appare evidente come i lavoratori e le loro organizzazioni saranno contrari a che esistano due mercati del lavoro, poiché le nuove regole sull’ingresso frammentano gli interessi degli uni e degli altri, in quanto indeboliscono tanto i nuovi entranti che i già occupati. E si tratta di un indebolimento tanto più pronunciato quanto più il legislatore avrà lasciato alle imprese la libertà di decidere sotto quale dei due insiemi di regole potranno assumere, il vecchio e il nuovo. La risposta al primo quesito è dunque ovvia: il legislatore ha agito a favore delle imprese. Si noti che non l’ha fatto abolendo l’Articolo 18, che è sempre stato al suo posto fino a tempi assai recenti, e quindi garantendo alle imprese la tanto desiderata libertà di licenziare: l’ha fatto, in soldoni, abbassando il costo del lavoro dei nuovi assunti!
Se, come appare perfettamente accettabile, prendiamo l’evoluzione nel tempo dei contratti a tempo determinato come prima approssimazione del fenomeno, le Figure 1.A e1A.bis ci mostrano che le imprese italiane hanno approfittato dell’introduzione di quelle regole (cioè legislazione) in maniera unica tra i paesi ad alto reddito pro-capite.
Figura 1.A: Quota di lavoratori dipendenti con contratto a tempo determinato, 2000 – 2013
Fonte: OCSE, novembre 2014
In maggior dettaglio, la Figura 1.A mostra come l’Italia non sembri proprio essere il paese con un mercato del lavoro ‘rigido’: la quota di dipendenti con contratti a tempo determinato sta per tutto il periodo al di sopra di quella del Regno Unito e al di sotto di quella prevalente in Spagna, in entrambi i casi come tutti i paesi considerati. Ma gli andamenti di molti paesi sono ‘schiacciati’ nel grafico a causa del valore molto alto del mercato del lavoro spagnolo, e quindi nella Figura 1.A.bis riportiamo gli andamenti riportati in 1.A ad esclusione della Spagna. Per intanto, però, la Figura 1.A ci insegna almeno due cose: che la straordinaria (=fuori dall’ordinario) precarietà prevalente sul mercato del lavoro spagnolo non ha affatto salvato quel paese dagli effetti della Grande Recessione iniziata nel 2007; e che i primi a pagare in tutto il periodo post crisi sono stati i lavoratori con contratti a tempo determinato! Bene: la Spagna ci insegna che un’economia fatta di imprese che vogliono chiudere è un’economia il cui legislatore deve incentivare l’uso di contratti ‘atipici’.
Figura 1.A.bis: Quota di lavoratori dipendenti con contratto a tempo determinato, 2000 – 2013
Fonte: OCSE, novembre 2014
Il commento alla Figura 1.A.bis è presto fatto: dal 2000 al 2013 la quota in Italia è passata dal 10% al 13%, cioè da sotto a sopra la media OECD calcolata su tutti i paesi membri, e da quinta di sei paesi riportati in figura a seconda. Bene: qualcuno ha visto la crescita della domanda di lavoro in questi anni? In chiaro: le imprese hanno finalmente cominciato ad assumere, ora che la ‘flessibilità’ cominciava ad affermarsi in maniera tanto diffusa?
Lo scopo della Figura 1.B, qui di seguito, è semplicemente rendere agevole l’analisi della velocità differenziale con cui la quota di dipendenti a tempo determinato sul totale dei dipendenti è venuta crescendo nel periodo in ciascun paese.
Figura 1.B: Crescita del numero di lavoratori dipendenti a tempo determinato, 2000 – 2013, 2000 = 100
Fonte: OCSE, novembre 2014
Niente di diverso da quanto presentato in Figura 1.A, dunque, ma la forma dell’esposizione ci consente di vedere come sia proprio l’Italia il paese in cui, nel periodo 2003-2013, quella quota è cresciuta a velocità media maggiore tra tutti i paesi considerati e rispetto alla media dei paesi OCSE. Si noti come nel 2008-2009 questa quota cade relativamente poco rispetto a quella spagnola: forse che in Italia la perdita del posto di lavoro abbia colpito in proporzioni assai simili lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato? Ma se così è, allora dove stava (o sta) la pretesa iperprotezione dei lavoratori a tempo indeterminato, i ‘privilegiati’? il Fatto N. 1, e cioè che i lavoratori italiani NON sono iperprotetti è ampiamente confermato.
2. Quali sono (alcuni degli) effetti di una (forte) ‘frammentazione’ del mercato del lavoro?
La Figura 2.A riporta l’andamento della proporzione dei dipendenti a tempo determinato sul totale dei dipendenti per la classe di età 15-24 anni nel periodo 2000- 2013. Un’osservazione e una considerazione. Osservazione: la quota dell’Italia è cresciuta da quanto nessuna di quelle degli altri paesi. Considerazione: ma non è l’Italia, dopo Grecia, Spagna e Portogallo, ovviamente, il paese con la più alta disoccupazione proprio in questa classe di età!? E se sommassimo 15-24enni con contratti a tempo determinato ai 15-24enni disoccupati, cosa otterremmo? Una gioventù destinata a…….?? [Ciascuno può riempire lo spazio vuoto a proprio piacimento]
Figura 2.A: Quota di lavoratori dipendenti con contratto a tempo determinato, 15-24 anni, 2000 – 2013
Fonte: OCSE, novembre 2014
E la Figura 2.B mostra, forse con maggior chiarezza di quanto non faccia la 2.A, che anche per i 15-24enni….
Figura 2.B: Crescita del numero di lavoratori dipendenti con contratto a tempo determinato, 15-24 anni, 2000 – 2013, 2000=100
Fonte: OCSE, novembre 2014
Infine, le Figure 3.A e 3.B riportano l’andamento del numero di contratti di durata inferiore ai 12 mesi per tutte le classi di età nello stesso periodo. Al solito, la 3.A riporta l’andamento delle quote, la 3.B le variazioni delle stesse nel periodo 2000-2013, con base 2000=100.
Figura 3.A: Quota di contratti a tempo determinato di durata inferiore ai 12 mesi, 2000 – 2013
Fonte: Eurostat, novembre 2014
Figura 3.B: Crescita dei contratti a tempo determinato di durata inferiore ai 12 mesi, 2000 = 100
Fonte: Eurostat, novembre 2014
Qui è dove sorgono preoccupazioni drammatiche sul futuro dei giovani (e dei meno giovani), poiché quelli che stiamo osservando sono gli andamenti dei contratti di durata inferiore ai dodici mesi, il precariato ad uno stato veramente molto spinto. E su questo terreno facciamo peggio solo della Spagna in termini di quote (Figura 3.A), e peggio di nessun altro in Europa in termini di tasso di imbarbarimento (Figura 3.B).
Chi dovrebbe riflettere, rifletta.