Premessa
[Chi avesse letto uno qualsiasi dei Fatti 1, 2, 3, 4 o 5 salti questa premessa a piè pari e vada sotto a il Fatto n. 6]
Quando, anni fa, discutevo con studenti, colleghi e amici dell’opportunità o meno di aprire www.scenarieconomici.com, la mia posizione su quali sarebbero stati i temi che vi avrebbero trovato spazio era molto ferma: temi di economia internazionale, reale e finanziaria, temi importanti per il governo dell’economia mondiale quali le politiche monetarie e quelle fiscali. E temi di politica economica interna italiana? No, grazie. Certamente temi da discutere con studenti, colleghi e amici, ma non nel ‘dibattito pubblico’, quello tra e sui quotidiani, gli spettacolini televisivi post prandiali, le uscite estemporanee di politici e giornalisti di cui già Giorgio Gaber ci parlava anni e anni fa. Un dibattito pubblico asfittico, tinto di ideologia come in pochi tra i paesi ad alto reddito pro capite, povero di posizioni scientificamente solide collegate alla ricerca, ricco però di luoghi comuni quali quelli che hanno portato il paese al disastro: il ‘piccolo è bello’, le virtù dell’essere ‘radicati sul territorio’, le magnifiche sorti e progressive del ‘made in Italy’, e avanti così, il tutto mentre la globalizzazione dei mercati e delle culture avanzava trionfante (vedo i miei studenti di tanti anni sorridere mentre leggono questa mia tirata vecchia ormai di decenni!).
Arriva però un giorno, di tanto in tanto, in cui occorre fare un’eccezione e parlare di Italia in pubblico, uscendo dalla torre d’avorio per cercare di parlare (ad almeno una piccola parte) di quelle decine di milioni di concittadini per bene, che sanno quali siano i problemi veri dell’economia, un giorno in cui diventa dovere assoluto denunciare il fatto che l’uso dell’ideologia avulso da qualunque riferimento ai fatti e alla teoria economica assume il tono di campagna di disinformazione permanente. Quel giorno occorrerà dire con forza quali sono i fatti, e con ciò mostrare che il re è nudo. Come, peraltro, tutti coloro che conosco sanno e mi dicono. Anche quelli che non conoscono la teoria economica così bene, perché rimane vero che il buon senso (onesto) e la buona teoria economica sono in forte sintonia.
Questo è uno di quei giorni.
La struttura di questa pubblicazione è un po’ arzigogolata ma divertente. Ogni due settimane aggiungerò al documento base un ‘Fatto’. E ciò verrà annunciato ai lettori attraverso i soliti canali: Twitter, Linkedin, ecc. L’elenco dei Fatti su www.scenarieconomici.com sarà dunque sempre più lungo al passar del tempo. Perché il lavoro di sbugiardamento durerà molto a lungo.
Fatto n. 6: La produttività delle imprese, e di conseguenza la loro competitività internazionale, dipende dalla qualità del contributo umano e dalla qualità e quantità degli investimenti. Le imprese italiane investono poco in capitale (Fatto n. 5) e poco in formazione. In particolare le tanto osannate piccole e medie imprese.
Nei modelli tradizionali di teoria del commercio internazionale, vuoi di tradizione classica che di tradizione neoclassica, si assume che tanto la dotazione di capitale fisico che la qualità del contributo del lavoro siano date. In breve, sono modelli statici. Ma la scoperta che lo Stato può avere un ruolo cruciale nel processo di crescita della competitività ha indotto a pensare a modelli dinamici o, semplicemente, a modelli in cui dotazione di capitale fisico e qualità della forza lavoro possano essere modificati nel tempo grazie a quella che oggi chiamiamo ‘politica industriale’.
Di governo e delle sue responsabilità parleremo in ‘Fatti’ successivi. Qui parliamo di imprese e di ciò che esse fanno per nobilitare le conoscenze, le competenze, le potenzialità delle proprie risorse umane una volta che queste siano state acquisite (un altro problema è quello della qualità e delle potenzialità delle persone attratte dall’impresa).
Parliamo dunque di formazione. Figura 1 riporta la comparazione tra i 28 paesi UE in termini di quante imprese residenti in ciascun paese hanno realizzato nel 2010 formazione per le proprie risorse umane. Bene: lo hanno fatto quasi tutte le imprese in Norvegia, lo ha fatto un 60% scarso in Italia. Ventesimi su ventotto. Sotto la media.
Figura 1. Percentuale di imprese con 10 o più addetti che hanno realizzato attività formativa per i propri addetti nel 2010 in Europa
Fonte: Eurostat CVTS4
La Figura 2 ci dice quante imprese effettivamente ‘programmano’ la formazione in ciascun paese in rapporto al totale delle imprese ivi localizzate. Si tratta, evidentemente, di un indicatore utile a verificare quanto la formazione ‘stia a cuore’ al management e alla proprietà, quanto essa sia pensata, programmata, inserita in un progetto strutturato: poiché, infine, ciò che conta davvero per l’impresa viene messo a bilancio, no? Bene: 66% in Francia, 30% in Italia. Ancora sotto la media UE28.
Figura 2. Percentuale di imprese che hanno un programma di formazione e/o una voce di bilancio specifica per le risorse dedicate alla formazione (2010)
Fonte: Eurostat CVTS4
A questo punto il lettore acuto osserverà che esiste anche il problema di quanto un’impresa che fa formazione spenda per la stessa: avere tante imprese che fanno formazione spendendo poco non è come….. Osservazione legittima. Figura 3 riporta il costo medio della formazione per dipendente. Questo costo viene valutato da Eurostat ‘a parità di potere di acquisto’, un metodo utilizzato per rendere quanto più confrontabili possibile i costi in paesi diversi (in breve: presumibilmente, il costo di un’ora di formazione in un paese ad alto reddito pro capite sarà più alto del costo della stessa ora di formazione in un paese a basso reddito pro capite).
Figura 3. Costo medio per occupato per la formazione professionale continua nel 2010 calcolato a parità di potere di acquisto, tutte le imprese, nel 2010
Bene: circa €1100 per dipendente in Belgio, circa €420 in Italia. Ancora sotto la media UE28.
Non va bene. La formazione è strumento per la nobilitazione delle competenze esistenti e per l’acquisizione di nuove e, in quanto tale, è strumento essenziale per migliorare la qualità del lavoro, per la crescita della produttività e della competitività. Non investire in formazione equivale a chiedere di rimanere quel che si è, cioè a diventare obsoleti. Non va bene.
A questo punto il lettore acuto, un’altra volta, potrà osservare che le imprese non sono tutte uguali. Bene. Consideriamo quante imprese offrono formazione distinguendole per numero di occupati. Da questa analisi (Figura 4-a) emerge che la quota di imprese ‘grandi’ (con 250 o più dipendenti) che offre formazione alle proprie risorse umane non varia tra i paesi europei (l’Italia si colloca al di sotto della media europea, 91% contro 93). Ma per le imprese medie’ (tra i 50 e i 249 dipendenti) e, ancor più, per le imprese ‘piccole’ (tra i 10 e 49 dipendenti), si nota una crescente discrepanza tra i paesi, in termini di formazione offerta (rispettivamente, Figura 4-b e Figura 4-c). Solo la quota di imprese ‘medie’ e ‘piccole’ che offre formazione di pochi paesi (Norvegia, Danimarca, Austria e Svezia) è sempre relativamente elevata – superiore all’80% per le imprese ‘medie’ e superiore al 95% per le imprese ‘piccole’. Per le imprese di altri paesi è evidente il divario di investimenti in capitale umano ‘odierni’ e, quindi, di ‘produttività’ di domani. E quante piccole-medie imprese italiane investono in formazione? Poche rispetto alla media europea! Soprattutto evidente la difficoltà delle imprese ‘piccole’: il 50% di queste imprese non investe in formazione e, quindi, in crescita della produttività. Non va bene!