Fatto N.7: E’ la domanda di lavoro ad essere inadeguata, non la scuola

Premessa

[Chi avesse letto uno qualsiasi dei Fatti 1-6 salti questa premessa a piè pari e proceda direttamente al Fatto n. 7]

Quando, anni fa, discutevo con studenti, colleghi e amici dell’opportunità o meno di aprire www.scenarieconomici.com, la mia posizione su quali sarebbero stati i temi che vi avrebbero trovato spazio era molto ferma: temi di economia internazionale, reale e finanziaria, temi importanti per il governo dell’economia mondiale quali le politiche monetarie e quelle fiscali. E temi di politica economica interna italiana? No, grazie. Certamente temi da discutere con studenti, colleghi e amici, ma non nel ‘dibattito pubblico’, quello tra e sui quotidiani, gli spettacolini televisivi post prandiali, le uscite estemporanee di politici e giornalisti di cui già Giorgio Gaber ci parlava anni e anni fa. Un dibattito pubblico asfittico, tinto di ideologia come in pochi tra i paesi ad alto reddito pro capite, povero di posizioni scientificamente solide collegate alla ricerca, ricco però di luoghi comuni quali quelli che hanno portato il paese al disastro: il ‘piccolo è bello’, le virtù dell’essere ‘radicati sul territorio’, le magnifiche sorti e progressive del ‘made in Italy’,  e avanti così, il tutto mentre la globalizzazione dei mercati e delle culture avanzava trionfante (vedo i miei studenti di tanti anni sorridere mentre leggono questa mia tirata vecchia ormai di decenni!).

Arriva però un giorno, di tanto in tanto, in cui occorre fare un’eccezione e parlare di Italia in pubblico, uscendo dalla torre d’avorio per cercare di parlare (ad almeno una piccola parte) di quelle decine di milioni di concittadini per bene, che sanno quali siano i problemi veri dell’economia, un giorno in cui diventa dovere assoluto denunciare il fatto che l’uso dell’ideologia avulso da qualunque riferimento ai fatti e alla teoria economica assume il tono di campagna di disinformazione permanente. Quel giorno occorrerà dire con forza quali sono i fatti, e con ciò mostrare che il re è nudo. Come, peraltro, tutti coloro che conosco sanno e mi dicono. Anche quelli che non conoscono la teoria economica così bene, perché rimane vero che il buon senso (onesto) e la buona teoria economica sono in forte sintonia.

Questo è uno di quei giorni.

La struttura di questa pubblicazione è un po’ arzigogolata ma divertente. Ogni due settimane aggiungerò al documento base un ‘Fatto’. E ciò verrà annunciato ai lettori attraverso i soliti canali: Twitter, Linkedin, ecc. L’elenco dei Fatti su www.scenarieconomici.com sarà dunque sempre più lungo al passar del tempo. Perché il lavoro di sbugiardamento durerà molto a lungo.

Fatto  n. 7: Non è vero che la Scuola e l’Università debbono adeguarsi alla domanda di lavoro delle imprese. È vero che le imprese italiane non sono in grado di impiegare produttivamente le competenze dei giovani che escono dalle nostre (ottime) Scuole e Università

Grossomodo negli ultimi tre-quattro anni è cresciuta fortemente l’attenzione dei media verso un problema particolare: quello della disoccupazione giovanile come manifestazione del ‘mismatching’ tra giovani che offrono sul mercato del lavoro competenze acquisite dalla Scuola e dall’Università, e competenze domandate (dalle imprese). (Contrariamente al mio costume, uso qui l’espressione in lingua inglese per identificare un fenomeno pur perfettamente descrivibile anche in lingua italiana; lo faccio per enfatizzare che lo stesso identico problema viene posto dagli epigoni del libero mercato negli Stati uniti.) Qual è il problema?

1. La versione che viene messa in bocca al popolo

Nella versione ‘ad usum delphini‘, popolarizzata da quotidiani e radio (non guardo la televisione da molti anni, come sa chi mi conosce, ma dubito che la storia venga presentata in modo molto diverso), la questione viene messa in questi termini: “insomma, ma cosa vogliono questi ragazzi, occorrerà bene che si adattino, tutti abbiamo fatto dei sacrifici. Basta guardarsi attorno e si vede subito che c’è gran carenza di idraulici… Questi giovani di oggi debbono pur imparare a sporcarsi le mani!”

Nella sua semplicità questa versione della storia ci racconta molto, molto davvero. La prima cosa che impariamo è che ‘sporcarsi le mani’ sarebbe un bene. E perché? Quali virtù particolari consente di coltivare lo ‘sporcarsi le mani’ che lavori in cui le mani non ce le si sporca non consentono di coltivare? Sporcarsi le mani è forse lo strumento mediante il quale costruiamo cittadini migliori? Oppure: abbiamo sbagliato per secoli, anzi per millenni, almeno da Aristotele in avanti, a pensare che l’istruzione (‘education’ in inglese!) fosse tanto strumento di nobilitazione dell’essere umano che modo per aumentare la produttività nei processi produttivi e, dunque, profitti e retribuzioni!? (Si, lo so, la ricchezza non fa la felicità. Ma, come dice il mio amico AF, anch’egli economista, figuriamoci quanta felicità può portare la miseria!)

Se non si sostiene che ‘sporcarsi le mani’ è un bene, allora si sostiene che occorre fare di necessità virtù: ci si deve sporcare le mani non perché ciò sia un bene, ma per mancanza di alternative. In breve: basta sognare di fare l’ingegnere quando avete studiato per fare l’ingegnere, basta sognare di insegnare nelle scuole elementari per costruire giovani di valore dopo aver studiato pedagogia, basta voler fare….. Riconosciamo queste logiche, vero? Sono le stesse logiche di chi chiede sacrifici per ridurre il debito pubblico. Gli stessi austeri.

2. La versione che propagandano i cantori del libero mercato

I cantori del libero mercato più sofisticati non parlano come sub 1, ovviamente. Nel loro caso, i ‘mismatches‘ sono un problema eliminabile facilmente: ad esempio, mediante le ‘agenzie per il lavoro’, gli ‘osservatori del mercato del lavoro’,……e via contandola fino ai jobsacts. Tutte queste istituzioni e/o norme servono ad ‘eliminare le frizioni sul mercato del lavoro’. (Perché non ci siano riusciti ancora dopo decenni di agenzie e osservatori, e come mai le cose siano andate anzi peggiorando, ce lo spiegheranno sicuramente alla prima occasione.)

3. I fatti

Ma quali ‘frizioni’? Bastano due soli numeri a rendere chiaro che non di ‘frizioni’ si tratta, ma di qualcosa di molto più grave: 13% di disoccupazione complessiva, 23% di disoccupazione giovanile. Questi sono numeri (del governo, non i nostri) paurosi: qui non si tratta di produrre diecimila idraulici in più e diciottomila insegnanti in meno. Le ‘frizioni’ esistono necessariamente sempre, e tanto più quando la crescita di un settore è tumultuosa e quel settore ha difficoltà a trovare giovani (e non) portatori di competenze che gli sono necessarie ma o occupate in altri settori o talmente nuove che la scuola ne sta formando in quantità scarse e/o in ritardo. Ma dove sono questi settori in crescita tumultuosa? Qui manca domanda di lavoro, qui le imprese non assumono. E quando le imprese non assumono, i giovani votano. Con i piedi, come diceva il mio bravissimo professore di storia economica quando ci presentava modelli di fuga degli schiavi dal sud cotoniero degli Stati uniti: emigrano. Che è quel che ci dice Figura 1, la quale riporta l’andamento dello stock di italiani residenti all’estero tra il 1995 e il 2013.

Figura 1. Italiani residenti all’estero, Maggio 1995 – Giugno 2013

2015 01 04 Fatto 7 - Figura 1.png

Fonte: Anagrafe degli italiani all’estero (A.I.R.E.), Ministero dell’Interno

Figure 2 e 3 insieme consentono di rispondere contemporaneamente a più quesiti: 1. Sono emigrate più persone nel 2007 (subito prima dell’inizio della grande recessione) o nel 2013? E poi: 2. come è cambiata la composizione del gruppo di emigrati da un anno all’altro in termini di titolo di studio posseduto?

Figura 2. Cittadini italiani di 25 anni e più iscritti e cancellati per e dall’estero, per titolo di studio, Anno 2013, valori assoluti

2015 01 04 Fatto 7 - Figura 2

Fonte: Istat

 Figura 3. Cittadini italiani di 25 anni e più iscritti e cancellati per e dall’estero, per titolo di studio. Anno 2007, valori assoluti

2015 01 04 Fatto 7 - Figura 3.png

Fonte: Istat

Le Figure 2 e 3 raccontano una storia molto triste:

  1. Nel 2013 sono emigrate più persone rispetto al 2007;
  2. In particolare, l’aumento maggiore (in termini percentuali) si è registrato per le persone in possesso di un laurea;
  3. Il numero di immigrati è diminuito sensibilmente tra 2007 e 2013.

È bene notare che le Figure 2 e 3 mostrano il fenomeno della migrazione in termini di persone iscritte a e cancellate dall’Anagrafe Italiani Residenti all’Estero (A.I.R.E.), il cui aggiornamento dipende dalla segnalazione delle persone interessate. Ai lettori più attenti apparirà evidente che queste figure sottostimano il fenomeno della migrazione principalmente perché la residenza potrebbe non essere cambiata per: 1. non perdere alcuni diritti del paese da cui emigrano (ad esempio, diritti sanitari); e/o 2. timore che l’esperienza estera non coincida con le aspettative iniziali.

E per coloro che non hanno il tempo di riflettere a lungo sulle Figure 2 e 3, la Figura 4 mostra che la componente dei laureati è aumentata fortemente dal 2004 e poi ha subito una nuova, forte accelerazione dal 2009. Il che racconta una storia molto brutta: la domanda di lavoro in Italia spinge ad emigrare con maggior forza coloro che detengono il patrimonio di competenze potenzialmente più ricco. La teoria economica suggerisce che aumentare la dotazione di capitale umano, cioè persone formate (‘Educated’, in inglese), a disposizione di un’impresa permetta di aumentarne la produttività e, quindi, i profitti. Non solo: in un mondo crescentemente globalizzato [1] la specializzazione produttiva di un paese dipende da quali attività saprà svolgere relativamente meglio rispetto ad altri paesi. I lettori più attenti potranno facilmente intuire quali attività produttive potrà svolgere un paese (l’Italia) se, contemporaneamente si perdono laureati e non si attrae capitale umano dall’estero. Non va bene.

Figura 4. Crescita dei cittadini italiani di 25 anni e più cancellati dall’anagrafica nazionale per iscriversi all’anagrafe di un paese estero, per titolo di studio. Anni 2002-2013 (base 2002=100)

2015 01 04 Fatto 7 - Figura 4

Fonte: Istat

E siamo dunque finalmente finiti nella trappola del ‘brain drain’: formiamo i giovani, il cui costo viene caricato in gran parte sulla fiscalità generale, giovani che le nostre imprese non hanno interesse ad assumere. Giovani bravi, tanto è vero che dall’estero li cercano e li accolgono. Giovani che vanno a produrre valore aggiunto altrove. E a pagarvi tasse e tributi. Non va bene.

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