Introduzione
Tra l’ottobre 2014 e il febbraio 2015 pubblicai su www.scenarieconomici.com una serie di dieci brevi articoli a ciascuno dei quali diedi la connotazione di ‘Fatto’. Ogni ‘Fatto’ aveva l’obiettivo di contrastare con evidenza empirica di qualità un luogo comune, una ingenuità, una cattiva correlazione tra eventi e tra grandezze, una deduzione errata o quantomeno spuria. Non voglio dire che ogni ‘Fatto’ avesse la sua battaglia personale da combattere, ma il ragionamento che sottendeva la scelta dei ‘Fatti’, il ragionamento che ne giustificava l’esistenza e che al tempo stesso possedeva una sua coerenza logica ed economica rimaneva in sottofondo, quasi che il lettore che conoscesse l’autore potesse riconoscerlo e gli altri, invece, dovessero accontentarsi di quel singolo ‘Fatto’. Il che, evidentemente, non è corretto.
Questo scritto altro non è che i dieci ‘Fatti’ ripresentati in maniera tale da costituire un ragionamento compiuto. Incompleto, come tutti i ragionamenti, ma compiuto. Ogni paragrafo è dedicato ad un ‘Fatto’, così che il lettore malizioso possa sbizzarrirsi a cercare contraddizioni tra ciò che scrivevo nell’autunno-inverno scorso e ciò che scrivo ora. La differenza è che i grafici sono aggiornati ma, ahimè, aveva ragione un giovane ricercatore quando mi disse: “Ma prof., quanto vuole sia cambiata la situazione in un anno scarso’? Poco o nulla. Ma i grafici sono aggiornati.
Infine, il metodo. Comparare un paese ad un altro è impresa ardua. Quali sono gli indicatori da usare, che cosa è importante e cosa no? Quanto pesa la storia, quanto la cultura, quanto le norme? E soprattutto, da dove si parte?
Aver scelto di confutare i luoghi comuni, le credenze, le opinioni non sostenute da evidenze empiriche ci rende la vita facile, poiché cominceremo necessariamente dal luogo comune per eccellenza: quello che dice che dalla crisi si esce con le ‘riforme strutturali’. Sono decenni che sento parlare di ‘riforme strutturali’ senza mai capire che cosa siamo, quanto costino e chi sopporterà quei costi, che benefici produrranno, a favore di chi, in quanto tempo se ne vedranno i frutti. Ma sembra che io non abbia davvero capito nulla se Presidenti di Commissioni Europee, Direttori (e Direttrici) del Fondo Monetario Internazionale, Capi di Stato e di Governo (di destra, centro e sinistra), persone tutte di gran levatura, insistono che sono proprio le riforme strutturali quelle che servono per uscire dalla crisi.
Ora, nel nostro paese abbiamo grande esperienza di riforme strutturali: la riforma del fisco, la riforma della giustizia, la riforma della scuola… sperando, ovviamente, che io ci abbia azzeccato e che questi che ho appena citato siano esempi di riforme strutturali. Coscienti tutti, ovviamente, che dobbiamo cominciare dalla riforma strutturale per eccellenza: quella del mercato del lavoro. E da questa cominciamo.
- Il problema
“E’ noto anche alle pietre”, apriva un proprio lavoro un collega nel 2013, che il problema fondamentale dell’economia italiana è quello della produttività totale dei fattori.[1] Condivido, ovviamente. Le imprese italiane sviluppano una produttività totale dei fattori (PTF) bassa rispetto a quella di altri paesi comparabili per reddito pro capite, e questa è la ragione fondamentale della loro bassa e decrescente competitività sui mercati internazionali. Una parola cautelativa prima di procedere con l’evidenza empirica. Poiché so quanto il sentimento nazionalista possa offuscare le facoltà logiche e le pulsioni razionali, laddove esistano, sarà bene chiarire che la ‘produttività del lavoro’ non è questione di ‘buona volontà dl lavoratore’, come qualche anima bella si ostina a dire: a parità di competenze, A è produttivo rispetto a B se ad A viene fornita una quantità maggiore/migliore di capitale con cui lavorare. Punto. Precisazione tanto più necessaria in quanto noi qui lavoreremo con il concetto di ‘produttività del lavoro’, cioè il numero di unità di prodotto che una unità di lavoro produce in una unità di tempo – ovviamente, data la quantità di capitale fisico che ha a disposizione, la qualità della materia prima e del semilavorato, ecc.[2]
Figura 1 mostra la comparazione dei livelli di produttività nel 2014 in un certo numero di paesi. Produttività italiana media comparabile a quelle del Regno Unito e della Spagna, in un intervallo ai cui estremi sono Polonia-Estonia da un lato e Norvegia-Lussemburgo all’altro.
Figura 1: Produttività nel 2014 misurata come rapporto tra PIL e ore lavorate, valori in dollari correnti
Fonte: OECD, agosto 2015; * il valore della produttività nel 2014 è stimato
Il sentimento nazionalista che tende ad obnubilare le facoltà razionali non deve portare a credere che, occupando una posizione ‘intermedia’, la media delle imprese del paese sia in buone condizioni. In primo luogo, si noterà che i paesi ad alto reddito pro capite sono tutti alla destra dell’Italia (si, RU escluso), il che ci lascia sospettare che ci sia una correlazione positiva e significativa tra produttività e reddito pro capite medio (per l’ordinamento dei redditi pro capite si rimanda a Figura 4); e in secondo luogo, si osservi in Figura 2 che cosa è avvenuto negli ultimi 25 anni:
Figura 2: Variazione % della produttività tra 1990 e 2014; produttività=rapporto tra PIL e ore lavorate
Fonte: OECD, agosto 2015; * il valore della produttività nel 2014 è stimato
Dunque, la posizione comparativa nel 2014 in Figura 1 è il risultato di una dinamica storica che nell’ultimo quarto di secolo è stata drammatica. Che cosa è avvenuto? Perché?
Raramente è possibile far risalire un fenomeno ad una sola causa, ma rimane legittimo chiedersi se sia possibile identificare le cause principali di questo fenomeno. Si tratta di un quesito importante, perché la tesi prevalente nel nostro paese tra le persone che Paul Krugman definisce ‘Very Serious People’ è che la responsabilità di questa perdita relativa di produttività, e dunque di competitività internazionale di prezzo, sia da ricondursi alla ‘mancanza di flessibilità del mercato del lavoro italiano’ e, di conseguenza, alla necessità di ‘riforma del mercato del lavoro’. Questa, a sua volta, sarebbe la prima delle ‘riforme strutturali’ necessarie a ‘rilanciare il sistema paese’. Per quanto non mi sia affatto chiaro in che senso la mancanza di flessibilità del mercato del lavoro incida sulla produttività, suggerisco di prendere la proposizione per buona e verificare quale sia lo stato del mercato del lavoro italiano in un’ottica comparativa.
- La flessibilità, o meno, del mercato del lavoro italiano
Si, dopo anni di tentennamenti, attese, scaramucce, affondi e ritirate strategiche, attorno al 2011 il problema è stato posto in maniera esplicita nel nostro paese: i lavoratori italiani sono troppo protetti. Come lo so? Beh, se uno parla di flessibilità che manca, l’implicazione è che lo scambio della merce lavoro (da cui ‘mercato del lavoro’) non avviene in maniera fluida, vi sono ‘lacci e lacciuoli’ (si, parlano così quelli delle riforme strutturali) che impediscono il fluido incontrarsi della domanda e dell’offerta. Le ‘rigidità sul mercato del lavoro’. Il mercato del lavoro italiano è rigido, dovrebbe essere più flessibile. E chi esattamente, chiedo io, è rigido: la domanda o l’offerta di lavoro? Entrambe, forse? Quesito retorico, ovviamente: chi parla di non-flessibilità del mercato del lavoro italiano parla dell’offerta, cioè di chi lavora.
E come fa chi lavora ad essere inflessibile? Quesito importante, questo, perché a sentire chi lavora sembrerebbe che tanto inflessibile chi lavora non possa essere: tra turni, mansioni, mobilità territoriale, e soprattutto la minaccia di una disoccupazione mai vista da mezzo secolo a questa parte, tanto spazio per imporre flessibilità chi lavora non sembra averne. O così dicono quelli che lavorano. Ma non importa: accettiamo la tesi di chi non lavora, e andiamo ad accertare la inflessibilità dell’offerta di lavoro.
Ora, come si fa a decidere se l’offerta del lavoro è flessibile o meno? Non è facile, esistono dimensioni politiche, sociali, culturali, ideologiche che contribuiscono a dare forma alle relazioni tra domanda e offerta di lavoro; ed è dunque errato immaginare che esista una relazione lineare univoca tra ciascuna di queste variabili e la flessibilità del mercato del lavoro. I campioni del libero mercato, invece, avrebbero la risposta pronta: eliminare il sindacato, eliminare le norme a garanzia dei posti di lavoro e i contratti a tempo indeterminato: dopodiché si vedrà. Ma, purtroppo per i suddetti campioni, nessuna di queste condizioni è in essere in paesi che pure, essi campioni liberisti, prendono ad esempio di efficienza e di economia di mercato. Eliminiamo subito una possibile fonte di incertezze: il Lavoro va protetto. Chi lo dice? Lo dice questo istogramma: Francia, Olanda, Belgio e Germania, paesi assai simili al nostro anche se il loro reddito pro capite è assai più alto del nostro, tutti proteggono i propri lavoratori più di quanto non avvenga da noi.
Figura 3: Protezione dei lavoratori a tempo indeterminato contro i licenziamenti individuali e collettivi, 2013*
Fonte: OECD Employment Outlook, ottobre 2014; * I dati si riferiscono al 2013 per i paesi OCSE e la Lettonia, 2012 per gli altri paesi. La figura presenta il contributo dell’indicatore di regolamento per contratti standard a tempo determinato (EPFTC) e l’indicatore di regolamento per l’occupazione TWA (EPTWA) alla all’indicatore della regolamentazione sui contratti a tempo determinato (EPT). L’altezza della barra rappresenta il valore dell’indicatore EPT
Figura 4: Reddito pro capite, prezzi correnti, 2014
Fonte: Eurostat, agosto 2015; * i valori si riferiscono al 2013
Ma allora la Germania dovrebbe essere nel bel mezzo della crisi più drammatica mai vista, i loro investimenti nelle imprese produttive dovrebbero languire per paura che i lavoratori, trovandosi protetti, scatenino chissà quale lotte rivendicative, chissà quali Settimane Rosse! E invece, come vedremo in seguito, in Germania le imprese investono. Molto. E in Italia no. E i salari tedeschi sono alti. E quelli italiani no.
Figura 5: Correlazione tra reddito pro capite e costo unitario del lavoro, prezzi correnti, 2013
Fonte: Eurostat, agosto 2015
Figura 6: Correlazione tra reddito pro capite e indice di protezione dei lavoratori a tempo indeterminato contro i licenziamenti individuali e collettivi, 2013
Fonte: Eurostat; OCSE, agosto 2015
- La frammentazione dei ‘mercati del lavoro’
Ma la inflessibilità del mercato del lavoro che forme concrete assume? A meno che per ‘inflessibilità’ non si intenda l’assenza di liberta di licenziare, cosa che almeno le più pudiche tra le VSP evitano di dire, allora viene da pensare che il mercato del lavoro sia stato ridotto in condizioni tale per cui esiste in realtà una molteplicità di mercati del lavoro, il passaggio tra i quali è costoso in gradi diversi e talvolta lo è fino all’impossibilità.
Proviamo allora a ragionare su questo tema come ragionerebbe qualunque persona in buona fede. I primi quesiti che vengono in mente sono: A chi conviene una situazione di (forte) frammentazione del mercato del lavoro? Chi l’ha voluta? E poi: Quali sono gli effetti di una (forte) ‘frammentazione’ del mercato del lavoro?
- A chi conviene una situazione di (forte) frammentazione del mercato del lavoro? Chi l’ha voluta?
La teoria economica elementare ci aiuta a rispondere a questo quesito in maniera non ambigua. Il ‘mercato del lavoro’, pur non essendo il mercato del pesce che molti vorrebbero fosse, è un sistema di due equazioni in due incognite, che chiamiamo rispettivamente ‘domanda di lavoro’ e ‘offerta di lavoro’. Contrariamente a quanto appare sulla pagina degli annunci economici di molti quotidiani, le imprese domandano lavoro, noi lo offriamo. (Gli annunci del tipo ‘Automunito offresi’ compaiono sotto la colonna intestata ‘domande di lavoro’. Morale? L’automunito sa di essere offerta di lavoro, il giornale no.)
Ora, il ‘mercato’ non è mai semplicemente l’atto dello scambio; esso è il luogo in cui domanda ed offerta di lavoro vorrebbero incontrarsi entro un quadro normativo di riferimento dato: invertendo l’ordine degli addendi, è l’insieme delle regole entro cui domanda e offerta cercano di incontrarsi. Se questo incontro avviene, entro quel determinato sistema di regole, avremo un ‘salario di equilibrio’ e una ‘occupazione di equilibrio’, e l’attività produttiva può cominciare perché la quantità domandata dalle imprese e quella offerta dai lavoratori coincide. Bene.
Ma stiamo parlando di UN mercato del lavoro, di UN insieme di regole. Ma se il legislatore introducesse un nuovo insieme di regole che avesse valore per, diciamo, coloro che entrano sul mercato del lavoro per la prima volta, ma non per coloro che occupati già erano, allora quel legislatore creerebbe un SECONDO mercato del lavoro. Inoltre, il legislatore può decidere che le nuove regole siano obbligatorie per tutte le imprese, così che TUTTI i nuovi entranti siano assunti con le nuove regole; o potrebbe lasciar la libertà alle imprese di usare le vecchie regole o le nuove; in un caso come nell’altro esisterebbero due mercati del lavoro. Un discorso molto schematico, ma speriamo comprensibile.
Appare evidente come i lavoratori e le loro organizzazioni saranno contrari all’esistenza di due mercati del lavoro, poiché le nuove regole sull’ingresso frammentano gli interessi degli uni e degli altri, in quanto indeboliscono tanto i nuovi entranti che i già occupati. E si tratta di un indebolimento tanto più pronunciato quanto più il legislatore avrà lasciato alle imprese la libertà di decidere sotto quale dei due insiemi di regole potranno assumere, il vecchio e il nuovo. La risposta al primo quesito è dunque ovvia: il legislatore ha agito a favore delle imprese. Si noti che non l’ha fatto abolendo l’Articolo 18, che è sempre stato al suo posto fino a tempi assai recenti, e quindi garantendo alle imprese la tanto desiderata libertà di licenziare: l’ha fatto, in soldoni, abbassando il costo del lavoro dei nuovi assunti! Per evitare di perdere tempo: l’intenzione annunciata dal governo in carica mentre scrivo di abolire i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro dimostra da sola quanto sto dicendo: si vuole più frammentazione, non meno!
Se, come appare perfettamente accettabile, prendiamo l’evoluzione nel tempo dei contratti a tempo determinato come prima approssimazione del fenomeno, le Figure 7 e 7.bis ci mostrano che le imprese italiane hanno approfittato dell’introduzione di quelle regole (cioè legislazione) in maniera unica tra i paesi ad alto reddito pro-capite.
Figura 7: Quota di lavoratori dipendenti con contratto a termine, 1999 – 2014
Fonte: OCSE, agosto 2015
Figura 7.bis: Quota di lavoratori dipendenti con contratto a termine, 1999 – 2014
Fonte: OCSE, agosto 2015
In maggior dettaglio, la Figura 7 mostra come l’Italia non sembri proprio essere il paese con un mercato del lavoro ‘rigido’: la quota di dipendenti con contratti a tempo determinato sta per tutto il periodo al di sopra di quella della media OECD e al di sotto di quella prevalente in Spagna e Portogallo, in entrambi i casi come Francia e Germania. La Figura 7 ci insegna almeno due cose: che la straordinaria (=fuori dall’ordinario) precarietà prevalente sul mercato del lavoro spagnolo non ha affatto salvato quel paese dagli effetti della Grande Recessione iniziata nel 2007; e che i primi a pagare in tutto il periodo post crisi sono stati i lavoratori con contratti a tempo determinato! Bene: la Spagna ci insegna che un’economia fatta di imprese che vogliono chiudere è un’economia il cui legislatore deve incentivare l’uso di contratti ‘atipici’. Questo è stato fatto in Italia.
Figura 8: Crescita del numero di lavoratori dipendenti a termine, 1999 – 2014, 1999 = 100
Fonte: OCSE, agosto 2015
Il commento alla Figura 8 è presto fatto: in Italia dal 1999 al 2014 la crescita della numero di dipendenti con contratto a tempo determinato è stata di gran lunga superiore alla crescita media dei paesi OCSE. Infatti, la quota in Italia è passata dal 10% al 13%, cioè da sotto a sopra la media OECD calcolata su tutti i paesi membri, e da quinta di sei paesi riportati in figura a seconda. Bene: qualcuno ha visto la crescita della domanda di lavoro in questi anni? In chiaro: le imprese hanno finalmente cominciato ad assumere, ora che la ‘flessibilità’ cominciava ad affermarsi in maniera tanto diffusa?
Niente di diverso da quanto presentato in Figura 7, dunque, ma la forma dell’esposizione ci consente di vedere come sia proprio l’Italia il paese in cui, nel periodo 2003-2014, quella quota è cresciuta a velocità media maggiore tra tutti i paesi considerati e rispetto alla media dei paesi OECD. Si noti come nel 2008-2009 questa quota cade relativamente poco rispetto a quella spagnola: forse che in Italia la perdita del posto di lavoro abbia colpito in proporzioni assai simili lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato? Ma se così è, allora dove stava (o sta) la pretesa iperprotezione dei lavoratori a tempo indeterminato, i ‘privilegiati’? Che i lavoratori italiani NON siano iperprotetti è ampiamente confermato.
- Quali sono (alcuni degli) effetti di una (forte) ‘frammentazione’ del mercato del lavoro?
La Figura 9 riporta l’andamento della proporzione dei dipendenti a tempo determinato sul totale dei dipendenti per la classe di età 15-24 anni nel periodo 1999-2014. Un’osservazione e una considerazione. Osservazione: la quota dell’Italia è cresciuta quanto nessuna di quelle degli altri paesi. Considerazione: ma non è l’Italia, dopo Grecia, Spagna e Portogallo, ovviamente, il paese con la più alta disoccupazione proprio in questa classe di età!? E se sommassimo 15-24enni con contratti a tempo determinato ai 15-24enni disoccupati, cosa otterremmo? Una gioventù destinata a…….?? [Ciascuno può riempire lo spazio vuoto a proprio piacimento]
Figura 9: Quota di lavoratori dipendenti 15-24 anni, con contratto a termine, 1999 – 2014
Fonte: OCSE, agosto 2015
E la Figura 9.bis mostra, forse con maggior chiarezza di quanto non faccia la Figura 9, che anche per i 15-24enni….
Figura 9.bis: Crescita del numero di lavoratori dipendenti con contratto a termine, 15-24 anni, 1999 – 2014, 1999=100
Fonte: OCSE, agosto 2015
Infine, le Figure 10 e 10.bis riportano l’andamento del numero di contratti di durata inferiore ai 12 mesi per tutte le classi di età nello stesso periodo. Al solito, la 10 riporta l’andamento delle quote, la 10.bis le variazioni delle stesse nel periodo 1999-2014, con base 1999=100.
Figura 10: Quota di contratti a tempo determinato di durata inferiore ai 12 mesi, 1999 – 2014
Fonte: Eurostat, agosto 2015
Figura 10.bis: Crescita dei contratti a tempo determinato di durata inferiore ai 12 mesi, 1999 – 2014, 1999 = 100
Fonte: Eurostat, agosto 2015
Qui è dove sorgono preoccupazioni drammatiche sul futuro dei giovani (e dei meno giovani), poiché quelli che stiamo osservando sono gli andamenti dei contratti di durata inferiore ai dodici mesi, il precariato ad uno stato veramente molto spinto. E su questo terreno facciamo peggio solo della Spagna in termini di quote (Figura 10), e peggio di nessun altro in Europa in termini di tasso di imbarbarimento (Figura 10.bis).
- Il costo del lavoro
Il ‘dibattito’ sulla ‘riforma del mercato del lavoro’ è straordinariamente falso. Esso viene ripetuto sempre uguale a se stesso, guidato interamente dall’ideologia, senza che vengano esibiti fondamenti fattuali quali, ad esempio, una comparazione tipo quella proposta qui.
Per dimostrarlo abbiamo prima di tutto eliminato nel paragrafo precedente le ‘ragioni’ di coloro che si occupano di ‘flessibilità di mercato del lavoro’, coloro che vogliono dar da intendere che sia questo il problema delle imprese italiane. E abbiamo visto che esso non lo è, e che i governi dei paesi ad alto reddito pro capite proteggono i propri lavoratori. Più di quanto non avvenga da noi. Più in generale, abbiamo portato evidenza statistica del fatto che il grado di protezione di chi lavora in Italia è più basso del grado di protezione di cui gode chi lavora nel resto d’Europa (occidentale).
La seconda proposizione che ricorre ossessivamente nel ‘dibattito’ è che il costo del lavoro nel nostro paese sia alto. La Figura 11 mostra che ciò è falso.
Figura 11: Costo orario del lavoro nel settore industriale, delle costruzioni e dei servizi (ad eccezione di pubblica amministrazione, difesa, assicurazione sociale obbligatoria) nel 2014
Fonte: Eurostat, agosto 2015; * per la Grecia è riportata la somma tra salari e stipendi e contributi sociali e altri costi del lavoro pagati dal datore di lavoro
Figura 5: Correlazione tra reddito pro capite e costo unitario del lavoro, prezzi correnti, 2013
Fonte: Eurostat, agosto 2015
Si vede agevolmente che il costo del lavoro orario in Italia è appena sotto quello irlandese e appena sopra quello nel Regno Unito (e appena sopra la media nei 28 paesi membri dell’UE). Per quanto mi addolori fare certe comparazioni, si noterà come il costo del lavoro orario vada diminuendo da quello della Norvegia a quello della Bulgaria, passando per la Germania, l’Italia e, poi, la Slovacchia. Lascio al lettore le osservazioni, corrette, che però mi addolora fare, sull’ordinamento di questi paesi per qualità della vita, tassi di disoccupazione e, ancora una volta, reddito pro capite.
Dobbiamo essere duri con i sostenitori e i grandi teorici della ‘moderazione salariale’ e pretendere una risposta a questo quesito: dove vogliono vedere il paese su questa scala in Figura 11 tra dieci anni? Ci risponderanno (non è vero, non ci risponderanno) che il problema non è il costo del lavoro in sé ma il cuneo fiscale; oppure che il problema è che occorre che chi lavora si sacrifichi per il rilancio della competitività internazionale del sistema Italia (sic!); o, ancora, che….
Poniamo noi il quesito vero: il costo del lavoro è alto? Alto rispetto a che cosa? Se si tratta di trovare una metrica, a quale metrica dobbiamo fare riferimento? Alla media del costo del lavoro dei paesi in cui esso è al di sotto della media dell’UE-28? Al Pakistan? Alla Nuova Zelanda? Beh, se il problema andasse posto in termini di metrica, ovviamente dovremmo fare riferimento al costo del lavoro più basso possibile. Cioè quello che comporta un salario da fame.
- La competitività
Ma noi siamo certi che i nostri austeri non vogliono un paese alla fame. E allora perché vogliono ridurre il costo del lavoro? La mia risposta è inequivocabile: perché le imprese italiane non sono (in media) in grado di sviluppare competitività attraverso produttività e innovazione crescenti. E per non essere spazzate via dal mercato cercano questa competitività appunto nella riduzione dei costi. E del costo del lavoro in primis.
Il costo del lavoro, infatti, non è la sola determinante della competitività internazionale di un’impresa. Tanto è vero che diciamo che, a parità di tutte le altre condizioni, una misura corretta della competitività è il costo del lavoro per unità di prodotto. Non il costo del lavoro, ma il costo del lavoro pesato dalla produttività. Ad evitare ambiguità: chi è incapace di intervenire dal lato della produttività facendola crescere, cerca competitività mediante i tagli al costo del lavoro. Con ciò affamando il paese. Ma chi volesse, e ne fosse capace, potrebbe lavorare invece dal lato della produttività, o no? Perché, invece di impegnarsi tanto a parlare di ‘riforme strutturali’ (non ne posso più) non si impegnano in una campagna di finanziamento di ricerca e sviluppo, di formazione del personale aziendale, di progetti e procedure per l’aumento della produttività, per il rinnovamento della base produttiva del paese, per una ri-specializzazione produttiva e commerciale che porti al superamento di quel ‘made in Italy’ fatto di settori tradizionali che, avvertivamo già anni fa, ci avrebbe portato a competere con paesi a costo del lavoro basso?
Mentre la tesi dei cantori dell’austerità è che la competitività delle imprese italiane è relativamente bassa perché c’è lo Stato burocratico e il sindacato blocca le riforme, quel che si sostiene qui parte dalla considerazione che sono gli investimenti a generare aumenti della produttività del lavoro, e dunque della competitività. Ma le imprese italiane non investono. In altre parole, fermo restando che l’ambiente esterno all’impresa può essere più o meno ‘amichevole’ allo svolgersi dell’attività produttiva, la produttività in senso proprio è un fatto aziendale. E dipende dunque fortemente dagli investimenti. Che possono essere in macchinari, in automazione, in attività di sviluppo e di innovazione.
Per enfatizzare le differenze tra imprese italiane e imprese tedesche, Figura 12 riporta l’andamento dell’investimento fisso lordo in Germania e in Italia nel periodo 1999-2014.
Figura 12: Investimenti lordi in capitale fisso, dati annuali, 1999-2014
Fonte: Eurostat, agosto 2015
Per ragioni puramente dimensionali delle due economie, la curva relativa alla Germania giace ‘ovviamente’ al di sopra di quella relativa all’Italia. La differenza interessante sta nel modo in cui le imprese delle due economie hanno reagito alla Grande Recessione annunciata nel 2007 ed iniziata nel 2008: le imprese tedesche investendo di più, quelle italiane investendo di meno. Punto.
Certo, una rondine non fa primavera: che le imprese tedesche facciano meglio di quelle italiane è comprensibile; ma quelle degli altri paesi europei? Figura 13 offre una comparazione degli andamenti della formazione di capitale fisso netto a prezzi correnti nel settore privato dal 1999 al 2014. Imprese italiane? Riga rossa.
Figura 13: Investimenti lordi in capitale fisso in percentuale del pil, dati annuali, 1999-2014
Fonte: Eurostat, agosto 2015
C’è fatalmente poco da discutere. Ma forse occorre attirare l’attenzione sul fatto che la ‘ripresa degli investimenti’ prevista per il 2014, 2015 e 2016 non si è realizzata e non si realizzerà, certamente non per quanto riguarda gli investimenti del settore privato dell’economia. (Il lettore è invitato a prendere nota di questa proposizione e verificarla nella primavera del 2017.)
La responsabilità delle imprese italiane è immensa.
- Il miraggio degli Investimenti Diretti dall’Estero
Come è noto, nel nostro paese il dibattito sugli Investimenti Diretti dall’Estero (IDE, d’ora in avanti), o meglio sulla loro drammatica scarsità, è molto sentito. Perché, ci si sente chiedere, non riceviamo investimenti diretti dall’estero? Perché il capitale globale non apprezza le imprese italiane, perché il ‘made in Italy’ non attiva attenzione – e di conseguenza non attiva flussi di capitale in entrata? Io sostengo che, scontate le banalità, la risposta è essenzialmente una: che le imprese del nostro paese sono in gran parte specializzate nella produzione di beni ad alta intensità di lavoro non qualificato, e che gli investitori esteri preferiscono, se interessati a produrre quelle merci, farlo in paesi in cui il costo del lavoro è drammaticamente più basso di quanto non sia in Europa (nonostante il costo del lavoro in Italia sia già più basso di quello di paesi europei ad alto reddito pro capite, cfr. sopra). E ovviamente trovo divertente il lamento di chi vorrebbe più investimenti dall’estero, ma non investe egli stesso.
Che cosa intendo quando dico ‘scontate le banalità’? Molti ricorderanno che anni fa la ragione offerta dalle imprese e dalle loro associazioni per spiegare la scarsità di IDE era centrata sulle famose ‘tasse’. Non attiriamo capitali dall’estero, dicevano allora, perché in Italia le tasse sono troppo alte. E chiedevano a gran voce qualcosa di chiaro, netto, che avrebbe dovuto essere ovvio a tutti: la ‘flat tax’. Magari al 19%. E si portava l’esempio della Bulgaria. Ovviamente, chi scrive irrideva a questa spiegazione, e portava (e continua a portare) l’esempio di un paese in cui le aliquote marginali d’imposta su individui e profitti distribuiti sono feroci ma, curiosità, la cui capacità di attrazione di investimento diretto dall’estero era ed è tra le più alte al mondo (e forse la più alta). La Svezia. Le tasse, dunque, scoraggiano gli IDE? Mah.
In seguito si passò a far discutere al pubblico generale la tesi secondo cui di IDE non ne arrivano perché il costo del lavoro è troppo alto; e poi che c’è il cuneo fiscale che in Italia è troppo alto, e poi che non c’è la flessibilità del lavoro…. Bene, sulle questioni del mercato del lavoro italiano ci siamo espressi con chiarezza in quel che precede. Favole. Nel dicembre 2014, ad un dibattito pubblico sul ‘Jobs Act’, ne ho sentita una veramente bella: IDE non ne arrivano perché le ‘multinazionali’ sono spaventate dall’Articolo 18.
A queste posizioni ufficiali delle associazioni imprenditoriali, e di gran parte degli imprenditori, associati o meno, la sinistra ha reagito con argomentazioni (quasi) altrettanto risibili: le multinazionali stanno alla larga da noi perché qui ci sono mafia e corruzione.
Il lettore avrà notato che tanto per la destra (ovviamente) che per la sinistra (per questa un pò meno, ovviamente) la colpa è sempre ‘di qualcun altro’: le tasse, il cuneo fiscale, l’iper-protezione di cui godono i lavoratori italiani, la mafia, la camorra… ah, dimenticavo, la burocrazia! Come possiamo dimenticare la burocrazia italiana!? In breve, mai una volta che vengano nominate le caratteristiche di ciò che si vorrebbe venisse comprato: le caratteristiche delle imprese italiane. Perché non proviamo a vedere come sono queste imprese italiane –in media, ovviamente? Proviamo a chiederci perché un investitore estero dovrebbe acquisire quote di imprese italiane. Non è forse questo il quesito appropriato? Un investitore estero non compra quote di ‘sistema Italia’, giusto? Certo, chiunque capisce che a parità di tutte le altre condizioni sarà meno rischioso investire laddove non vi è mafia anziché laddove vi è, laddove non vi è burocrazia invece che laddove ve ne è, laddove…. Ma, tolte di mezzo le banalità, vogliamo porci il quesito serio, e cioè: investire in che cosa? In quale tipo di impresa? In quale settore merceologico? In breve, quali sono le caratteristiche d’impresa che attraggono, e quali quelle che respingono, l’investitore? Perché, lasciate che mi ripeta, l’investitore compra anzitutto imprese e non gli Uffizi –nonostante siano anch’essi, immagino, parte del famoso ‘sistema Italia’.
La Figura 14 riporta il livello di spese per investimenti delle imprese di un certo numero di paesi, per occupato, nel 2012. Un commento dettagliato sarebbe superfluo: perché un residente estero, persona fisica o giuridica, dovrebbe investire in Italia quando gli italiani non lo fanno!? Perché investire in imprese i cui dipendenti non sembrano proprio essere dotati di capitale fisico arricchito da nuovi, sostanziali investimenti?
Figura 14: Investimenti per occupato nel settore manifatturiero (migliaia di € per occupato), 2012
Fonte: Eurostat, agosto 2015; per la Francia il dato si riferisce al 2011
Imprese, quelle italiane, che investono poco non solo in capitale fisico, ma anche in capitale umano. Drammaticamente poco. Imprese nelle quali la combinazione di scarso investimento in capitale fisico e scarsissimo investimento in capitale umano garantisce livelli di profitti bassi perché garantisce bassi livelli di produttività. Punto.
Bassi livelli degli investimenti in capitale fisico per addetto, scarsa presenza di dipendenti laureati (Figura 15) – dove ovviamente la laurea è una proxy per misurare il capitale umano, il possesso di conoscenze e competenze – si materializzano necessariamente in quanto ci dice la Figura 16: l’incidenza percentuale delle esportazioni italiane di merci ad alto contenuto tecnologico sul totale delle esportazioni è risibile rispetto a quella degli altri paesi ad alto reddito pro-capite.
Il che va dimostrare quanto si diceva in apertura: il nostro apparato produttivo vuole soddisfare domanda mondiale di prodotti a basso contenuto di lavoro qualificato e di competenze. Ad altri produrre, ed esportare, prodotti ad alto contenuto tecnologico, alti profitti, alti salari.
Figura 15: Quota di occupati con livello di istruzione terziario o superiore (ISCED levels 5-8) sul totale degli occupati
Fonte: Eurostat, agosto 2015
Figura 16: Esportazioni ad alto contenuto tecnologico (% del totale dei beni manufatti esportati), 2004 – 2012
Fonte: World Bank, agosto 2015; Le esportazioni ad alto contenuto tecnologico comprendono beni manufatti ad alto contenuto di ricerca e sviluppo, come aerospazio, computer, farmaceutico, strumentazione scientifica, macchinari elettrici e non, chimica, armamenti.
- Il contributo umano alla produttività e alla competitività
La produttività delle imprese, e di conseguenza la loro competitività internazionale dipende, oltre che dalla qualità e quantità degli investimenti in capitale fisso, anche dalla qualità del contributo umano. La dotazione di competenze, specializzazioni, saper fare di cui un’impresa dispone è funzione tanto del livello di formazione del personale che essa assume, quanto della spesa per la formazione continua di quel personale, formazione che dovrebbe andare di pari passo con la crescente sofisticazione dei processi al suo interno. Ebbene, le imprese italiane investono poco in capitale, come già visto, e poco in formazione. In particolare investono poco le tanto osannate piccole e medie imprese.
Nei modelli tradizionali di teoria del commercio internazionale, vuoi di tradizione classica che di tradizione neoclassica, si assume che tanto la dotazione di capitale fisico che la qualità del contributo del lavoro siano date. In breve, sono modelli statici. Ma la scoperta che lo Stato può avere un ruolo cruciale nel processo di crescita della competitività ha indotto a pensare a modelli dinamici o, semplicemente, a modelli in cui dotazione di capitale fisico e qualità della forza lavoro possano essere modificati nel tempo grazie a quella che oggi chiamiamo ‘politica industriale’.
Di governo e delle sue responsabilità parliamo in seguito. Qui parliamo di imprese e di ciò che esse fanno per nobilitare le conoscenze, le competenze, le potenzialità delle proprie risorse umane una volta che queste siano state acquisite (un altro problema è quello della qualità e delle potenzialità delle persone attratte dall’impresa).
Parliamo dunque di formazione. Figura 17 riporta la comparazione tra i 28 paesi UE in termini di quante imprese residenti in ciascun paese hanno realizzato nel 2010 formazione per le proprie risorse umane. Bene: lo hanno fatto quasi tutte le imprese in Norvegia, lo ha fatto un 60% scarso in Italia. Ventesimi su ventotto. Sotto la media.
Figura 17: Percentuale di imprese con 10 o più addetti che hanno realizzato attività formativa per i propri addetti nel 2010 in Europa
Fonte: Eurostat CVTS4
La Figura 18 ci dice quante imprese effettivamente programmano la formazione in ciascun paese in rapporto al totale delle imprese ivi localizzate. Si tratta, evidentemente, di un indicatore utile a verificare quanto la formazione ‘stia a cuore’ al management e alla proprietà, quanto essa sia pensata, programmata, inserita in un progetto strutturato: poiché, infine, ciò che conta davvero per l’impresa viene messo a bilancio, no? Bene: 66% in Francia, 30% in Italia. Ancora sotto la media UE28.
Figura 18: Percentuale di imprese che hanno un programma di formazione e/o una voce di bilancio specifica per le risorse dedicate alla formazione (2010)
Fonte: Eurostat CVTS4
A questo punto il lettore acuto osserverà che esiste anche il problema di quanto un’impresa che fa formazione spenda per la stessa: avere tante imprese che fanno formazione spendendo poco non è come… Osservazione legittima. Figura 19 riporta il costo medio della formazione per dipendente. Questo costo viene valutato da Eurostat ‘a parità di potere di acquisto’, un metodo utilizzato per rendere quanto più confrontabili possibile i costi in paesi diversi (in breve: presumibilmente, il costo di un’ora di formazione in un paese ad alto reddito pro capite sarà più alto del costo della stessa ora di formazione in un paese a basso reddito pro capite). Bene: circa €1100 per dipendente in Belgio, circa €420 in Italia. Ancora sotto la media UE28.
Figura 19: Costo medio per occupato per la formazione professionale continua nel 2010 calcolato a parità di potere di acquisto, tutte le imprese, nel 2010
Fonte: Eurostat CVTS4
Non va bene. La formazione è strumento per la nobilitazione delle competenze esistenti e per l’acquisizione di nuove e, in quanto tale, è strumento essenziale per migliorare la qualità del lavoro, per la crescita della produttività e della competitività. Non investire in formazione equivale a chiedere di rimanere quel che si è, cioè a diventare obsoleti. Non va bene.
A questo punto il lettore acuto, un’altra volta, potrà osservare che le imprese non sono tutte uguali. Bene. Consideriamo quante imprese offrono formazione distinguendole per numero di occupati. Da questa analisi (Figura 20.a) emerge che la quota di imprese ‘grandi’ (con 250 o più dipendenti) che offre formazione alle proprie risorse umane non varia tra i paesi europei (l’Italia si colloca al di sotto della media europea, 91% contro 93%). Ma per le imprese medie’ (tra i 50 e i 249 dipendenti) e, ancor più, per le imprese ‘piccole’ (tra i 10 e 49 dipendenti), si nota una crescente discrepanza tra i paesi, in termini di formazione offerta (rispettivamente, Figura 20.b e Figura 20.c). Solo la quota di imprese ‘medie’ e ‘piccole’ che offre formazione di pochi paesi (Norvegia, Danimarca, Austria e Svezia) è sempre relativamente elevata – superiore all’80% per le imprese ‘medie’ e superiore al 95% per le imprese ‘piccole’. Per le imprese di altri paesi è evidente il divario di investimenti in capitale umano ‘odierni’ e, quindi, di ‘produttività’ di domani. E quante piccole-medie imprese italiane investono in formazione? Poche rispetto alla media europea! Soprattutto evidente la difficoltà delle imprese ‘piccole’: il 50% di queste imprese non investe in formazione e, quindi, in crescita della produttività. Non va bene.
Figura 20.a: Percentuale di imprese con 250 o più dipendenti che nel 2010 ha offerto formazione
Fonte: Eurostat CVTS4
Figura 20.b: Percentuale di imprese con un numero di dipendenti tra i 50 e i 249 che nel 2010 ha offerto formazione
Fonte: Eurostat CVTS4
Figura 20.c: Percentuale di imprese con un numero di dipendenti tra i 10 e i 49 che nel 2010 ha offerto formazione
Fonte: Eurostat CVTS4
- Scuola e Università
In buona compagnia di mafia, camorra, burocrazia, sindacato, anche scuole di ogni ordine e grado contribuiscono allo sfascio nazionale. Tesi cara a tanti, i quali sostengono che il nostro sistema di istruzione dota i nostri giovani di competenze irrilevanti, inutili.
Rispondo a questa tesi con due osservazioni. La prima è che nella mia esperienza personale latino, storia e matematica sono state le cose più belle da studiare e quelle più utili nella vita, professionale e non. Generalizzando, che cosa vuol dire ‘utile’? ‘Utile’ a che cosa, per chi, a quale fine, in che contesto? E passo allora alla seconda osservazione: quando si dice che le competenze che scuola e università trasmettono ai giovani sono irrilevanti e inutili, si vuol forse dire che non sono quelle domandate dalle imprese e dall’apparato produttivo in genere? Se questa è l’interpretazione da dare all’aggettivo ‘inutili’, allora sono completamente d’accordo. Ma attenzione, perché ciò non implica che la Scuola e l’Università debbano adeguarsi alla domanda di lavoro delle imprese. È invece vero che le imprese italiane non sono in grado di impiegare produttivamente le competenze dei giovani che escono dalle nostre (ottime) Scuole e Università. Ben altra storia!
Grossomodo negli ultimi tre-quattro anni è cresciuta fortemente l’attenzione dei media verso un problema particolare: quello della disoccupazione giovanile come manifestazione del mismatching tra giovani che offrono sul mercato del lavoro competenze acquisite dalla Scuola e dall’Università, e competenze domandate (dalle imprese). (Contrariamente al mio costume, uso qui l’espressione in lingua inglese per identificare un fenomeno pur perfettamente descrivibile anche in lingua italiana; lo faccio per enfatizzare che lo stesso identico problema viene posto dagli epigoni del libero mercato negli Stati uniti.) Qual è il problema?
- La versione che viene messa in bocca al popolo
Nella versione ad usum delphini, popolarizzata da quotidiani e radio (non guardo la televisione da molti anni, come sa chi mi conosce, ma dubito che la storia venga presentata in modo molto diverso), la questione viene messa in questi termini: insomma, ma cosa vogliono questi ragazzi, occorrerà bene che si adattino, tutti abbiamo fatto dei sacrifici. Basta guardarsi attorno e si vede subito che c’è gran carenza di idraulici… Questi giovani di oggi debbono pur imparare a sporcarsi le mani!
Nella sua semplicità questa versione della storia ci racconta molto, molto davvero. La prima cosa che impariamo è che ‘sporcarsi le mani’ sarebbe un bene. E perché? Quali virtù particolari consente di coltivare lo ‘sporcarsi le mani’ che invece lavori in cui le mani non ce le si sporca non consentono di coltivare? Sporcarsi le mani è forse lo strumento mediante il quale costruiamo cittadini migliori? Oppure: abbiamo sbagliato per secoli, anzi per millenni, almeno da Aristotele in avanti, a pensare che l’istruzione (education in inglese!) fosse tanto strumento di nobilitazione dell’essere umano che modo per aumentare la produttività nei processi produttivi e, dunque, profitti e retribuzioni!? (Si, lo so, la ricchezza non fa la felicità. Ma, come dice il mio amico AF, anch’egli economista, figuriamoci quanta felicità può portare la miseria!)
Se non si sostiene che ‘sporcarsi le mani’ è un bene, allora si sostiene che occorre fare di necessità virtù: ci si deve sporcare le mani non perché ciò sia un bene, ma per mancanza di alternative. In breve: basta sognare di fare l’ingegnere quando avete studiato per fare l’ingegnere, basta sognare di insegnare nelle scuole elementari per costruire giovani di valore dopo aver studiato pedagogia, basta voler fare….. Riconosciamo queste logiche, vero? Sono le stesse logiche di chi chiede sacrifici per ridurre il debito pubblico. Gli stessi austeri.
- La versione che propagandano i cantori del libero mercato
I cantori del libero mercato più sofisticati non parlano come sub 1, ovviamente. Nel loro caso, i mismatches sono un problema eliminabile facilmente: ad esempio, mediante le ‘agenzie per il lavoro’, gli ‘osservatori del mercato del lavoro’,……e via contandola fino ai jobs acts. Tutte queste istituzioni e/o norme servono ad ‘eliminare le frizioni sul mercato del lavoro’. (Perché non ci siano riusciti ancora dopo decenni di agenzie e osservatori, e come mai le cose siano andate anzi peggiorando, ce lo spiegheranno sicuramente alla prima occasione.)
- I fatti
Ma quali ‘frizioni’? Bastano due soli numeri a rendere chiaro che non di ‘frizioni’ si tratta, ma di qualcosa di molto più grave: 13% di disoccupazione complessiva, 44% di disoccupazione giovanile (a luglio 2015)!. Questi sono numeri (del governo, non i nostri) paurosi: qui non si tratta di produrre diecimila idraulici in più e diciottomila insegnanti in meno. Le ‘frizioni’ esistono necessariamente sempre, e tanto più quando la crescita di un settore è tumultuosa e quel settore ha difficoltà a trovare giovani (e non) portatori di competenze che gli sono necessarie ma o occupate in altri settori o talmente nuove che la scuola ne sta formando in quantità scarse e/o in ritardo. Ma dove sono questi settori in crescita tumultuosa? Qui manca domanda di lavoro, qui le imprese non assumono. E quando le imprese non assumono, i giovani votano. Con i piedi, come diceva il mio bravissimo professore di storia economica quando ci presentava modelli di fuga degli schiavi dal sud cotoniero degli Stati Uniti: emigrano. Che è quel che ci dice Figura 21, la quale riporta l’andamento dello stock di italiani che hanno cancellato la propria residenza in Italia e l’hanno aperta formalmente all’estero tra il 1992 e il 2014.
Figura 21: Italiani iscritti all’anagrafe estera, 1992 – 2014
Fonte: Anagrafe degli italiani all’estero (A.I.R.E.), Ministero dell’Interno; * il dato 2014 si riferisce al numero di italiani emigrati all’estero
Figure 22 e 23 insieme consentono di rispondere contemporaneamente a più quesiti: 1. Sono emigrate più persone nel 2007 (subito prima dell’inizio della grande recessione) o nel 2013? E poi: 2. come è cambiata la composizione del gruppo di emigrati da un anno all’altro in termini di titolo di studio posseduto?
Figura 22: Cittadini italiani di 25 anni e più iscritti e cancellati per e dall’estero, per titolo di studio, Anno 2013, valori assoluti
Fonte: Istat, agosto 2015
Figura 23: Cittadini italiani di 25 anni e più iscritti e cancellati per e dall’estero, per titolo di studio. Anno 2007, valori assoluti
Fonte: Istat, agosto 2015
Le Figure 22 e 23 raccontano una storia molto triste:
- Nel 2013 sono emigrate più persone rispetto al 2007;
- In particolare, l’aumento maggiore (in termini percentuali) si è registrato per le persone in possesso di laurea;
- Il numero di immigrati è diminuito sensibilmente tra 2007 e 2013.
È bene notare che le Figure 22 e 23 mostrano il fenomeno della migrazione in termini di persone iscritte a e cancellate dall’Anagrafe Italiani Residenti all’Estero (A.I.R.E.), il cui aggiornamento dipende dalla segnalazione delle persone interessate. Ai lettori più attenti apparirà evidente che queste figure sottostimano il fenomeno della migrazione principalmente perché la residenza potrebbe non essere cambiata per: 1. non perdere alcuni diritti del paese da cui emigrano (ad esempio, diritti sanitari); e/o 2. timore che l’esperienza estera non coincida con le aspettative iniziali.
E per coloro che non hanno il tempo di riflettere a lungo sulle Figure 22 e 23, la Figura 24 mostra che la componente dei laureati è aumentata fortemente dal 2004 e poi ha subito una nuova, forte accelerazione dal 2009. Il che racconta una storia molto brutta: la domanda di lavoro in Italia spinge ad emigrare con maggior forza coloro che detengono il patrimonio di competenze potenzialmente più ricco. La teoria economica suggerisce che aumentare la dotazione di capitale umano, cioè persone formate (‘Educated’, in inglese), a disposizione di un’impresa permetta di aumentarne la produttività e, quindi, i profitti. Non solo: in un mondo crescentemente globalizzato[3] la specializzazione produttiva di un paese dipende da quali attività saprà svolgere relativamente meglio rispetto ad altri paesi. I lettori più attenti potranno facilmente intuire quali attività produttive potrà svolgere un paese (l’Italia) se, contemporaneamente, si perdono laureati e non si attrae capitale umano dall’estero. Non va bene, perché siamo finiti nella trappola del ‘brain drain’: formiamo i giovani, il cui costo viene caricato in gran parte sulla fiscalità generale, giovani che le nostre imprese non hanno interesse ad assumere. Giovani bravi, tanto è vero che dall’estero li cercano e li accolgono. Giovani che vanno a produrre valore aggiunto altrove. E a pagarvi tasse e tributi. Non va bene.
Figura 24: Crescita dei cittadini italiani di 25 anni e più cancellati dall’anagrafica nazionale per iscriversi all’anagrafe di un paese estero, per titolo di studio. Anni 2002-2013 (base 2002=100)
Fonte: Istat, agosto 2015
- Il ruolo del governo nel sostegno alla produttività e alla competitività
Difficile, in questo nostro paese, parlare di economia. O parlare di futuro. O parlare di destino dei nostri giovani. Lo scorso gennaio ero davanti ai rappresentanti di una quarantina di imprese, tutti i settori, tutte le dimensioni. Bella situazione. E il mio intervento di apertura è di quelli dirompenti: il ‘made in’, annuncio, non è più motore di crescita e di sviluppo. Old hat, direbbero quelli che conoscono le lingue, lo sappiamo da trent’anni. Applausi, moltissimi sono contenti, le imprese si ritrovano in questo modo di ragionare. Poi arrivano confezionisti e calzaturieri, e apriti cielo: “Lei [io, Sdogati, ndr] non capisce che il made in Italy è qualità”, “Lei non sa che noi abbiamo una bilancia commerciale in attivo”, “Il made in Italy è riconosciuto nel mondo”, e via cantandosela.
Prova a far notare a gente che ragiona così che non c’è un laureato in azienda, che avranno pure il saldo commerciale positivo, che saranno tanto bravi, ma che al censimento del 1991 avevano quasi un milione di dipendenti e ora ne hanno duecentocinquantamila. Vagli a spiegare la divisione internazionale del lavoro, vagli a dire che la farmaceutica italiana è esclusivamente manifattura bruta e che la ricerca si fa in Svizzera e in Olanda, dove i nostri giovani emigrano perché trovano domanda di lavoro adatta alla loro preparazione e alle loro (legittime) aspirazioni. Vagli a dire…Non serve. Il futuro è in una bella cravatta. O in una bella giacca. Le più belle del mondo.
[Parentesi. Capiamoci: dobbiamo essere grati, e lo siamo, a tutti coloro che hanno contribuito a portare il paese fuori dalla miseria, ai lavoratori, agli imprenditori, ai funzionari statali e ai dirigenti industriali. A tutti quelli che hanno dato dignità a chi non ne aveva, e a molti se non a tutti un pollo sulla tavola ogni domenica.]
Solo che adesso è finita. Il ‘made in’ non è più il modo in cui funzionano i processi produttivi, che sono integrati globalmente (per favore, non ho detto ‘il made in Italy’, ho detto il ‘made in’). Ora la competitività la si trova nella capacità di far capire alle catene globali di produzione che cosa si sa fare meglio, e ciò non tanto nel senso del prodotto che si sa fare meglio, quanto nella fase di processo produttivo che si sa fare meglio, nelle competenze che si possiede, in quello che si sa fare meglio di chiunque altro. Perché lì è il valore aggiunto, lì sono i profitti e le retribuzioni ricchi. Da lì vengono le pensioni dignitose.
Il quesito di oggi è: ce la fa il settore privato, il ‘mercato’, a generare tutto questo da solo? Figura 25 dice: no. Figura 25 dice che in tutti i paesi ad alto reddito pro capite il governo spende in ricerca e sviluppo una proporzione più alta del reddito del paese di quanto non spendano i governi di paesi a pil più basso. Punto. Sorpresa! Che ci sia una correlazione?
Figura 25: Stanziamenti finanziari e spesa dei governi per la ricerca e sviluppo (in percentuale al PIL), 2013
Fonte: Eurostat, agosto, 2015; gli stanziamenti finanziari e la spesa dei governi in ricerca e sviluppo misura il sostegno del governo alla ricerca e sviluppo (R&S); *i dati si riferiscono al 2012
C’è. Lo mostra Figura 26, la quale mette in relazione la produttività del lavoro con la quota di pil che il governo spende in sostegno alla ricerca e allo sviluppo. E l’evidenza è incontrovertibile: più ricerca e sviluppo in rapporto al pil, più produttività. Cioè più ricchezza per unità di lavoro nell’unità di tempo. Buon senso, no? Alla faccia di coloro cui l’intervento del governo in cose economiche dà il mal di pancia.
Figura 26: Produttività e Spesa Pubblica per Ricerca e Sviluppo, 2010 o ultimo anno disponibile
Fonte: Calcoli dell’autore su dati OECD
Conclusione? Da decenni i governi italiani spendono in ricerca e sviluppo meno di quanto spendano i governi degli altri paesi ad alto reddito pro-capite: la specializzazione produttiva non evolve verso settori competitivi, la produttività cade, le imprese invecchiano.
- Austerità
Non possiamo non chiederci a questo punto: ma la ricetta austera, quella secondo cui tagliando la spesa pubblica l’economia si riprende, sta dando dei frutti? La mia posizione è chiara (e conosciuta): NON E’ VERO che l’austerità abbia generato il risanamento progressivo del debito pubblico e dell’economia nel suo complesso. La buona teoria economica lo diceva, lo dice e lo dirà. Il resto è fuffa (o ideologia, più elegantemente).
Per evitare di annoiare a morte i lettori eviterò di dilungarmi sul fatto che la buona teoria economica, così come fa il buon senso, identifica quattro soli motori capaci di far ripartire le economie in stallo. Tutti, ovviamente, motori della domanda, senza la quale le imprese prima rallentano la produzione e poi dismettono (il percorso è, purtroppo, assai ben conosciuto: pur se con qualche variante, blocco degli straordinari, poi blocco del turnover, poi prepensionamenti, poi cassa integrazione…E ad ogni passo lungo questo percorso la domanda cade, poiché cadono i redditi di chi lavora e spende).
I quattro motori sono: le famiglie, che spendono per beni di consumo; le imprese, che spendono in beni di investimento; l’estero, cioè la domanda ‘loro’ di produzione ‘nostra’ al netto della domanda ‘nostra’ di produzione ‘loro’; il governo. Che famiglie e imprese spendano durante fasi di recessione che si alternano a stagnazione è, evidentemente, un qualcosa che può credere solo chi crede nel potere salvifico dei mercati come si crede a Biancaneve (evito di citare altri esempi in cui è appropriato usare il verbo credere, poiché il lettore sa che credere ed avere fede sono espressioni equivalenti). Che ‘loro’ comprino tante nostre esportazioni è dura da credere, anche se ciò che da noi sono recessioni alternate a stagnazione da loro è solo stagnazione. Rimane solo il governo.
Ma i governi europei non vogliono spendere. Non lo fanno dal 2009. E anzi hanno adottato la fede del pareggio di bilancio e della riduzione del debito. Bene: avete visto l’ammontare del debito ridursi? Ricordate il governo del professor Monti? Ricordate l’obiettivo di riduzione del debito? Bene, io i numeri non ve li do, vi do un consiglio: i dati sono disponibili e facilmente accessibili, verificateli. La domanda è: quanto era il debito prima e dopo Monti (o Letta, o Renzi, non fa differenza). Mentre lo fate ricordate, ovviamente, che la buona teoria economica e il buon senso dicono che se il governo cerca di ridurre il debito mediante la riduzione della spesa (si, anche degli ‘sprechi’ sui quali tanta attenzione si concentra nel dibattito casereccio), allora indurrà una recessione (in Italia tre, dal 2008 e oggi). Il che farà cadere la base imponibile e aumentare il rapporto debito/PIL.
Che è ciò che ci racconta Figura 27. Dalla quale l’informazione interessante che ricaviamo è quella che ci dà la lettura diacronica, non quella sincronica: in breve, non conta chi sta sopra e chi sta sotto ad un certo punto nel tempo, conta comparare gli andamenti in area bianca a quelli in area grigia. Nessun bisogno di commento, se non questo: se è vero che ‘i mercati’ sono attenti al rapporto debito/PIL come criterio per selezionare i governi da mettere sotto attacco speculativo, allora… #Congratulazioniausteri!
Figura 27: Andamento storico del rapporto tra debito lordo del governo e PIL, dati trimestrali, 2007:Q1– 2015:Q1
Fonte: Eurostat, agosto 2015
Si, va bene, ma facci vedere gli effetti sulla crescita, chiederà qualcuno. Eccoli.
Figura 28: Correlazione tra le misure di austerità* (riduzioni della spesa pubblica e aumento del prelievo tra 2009 e 2012) in rapporto al PIL e la crescita del PIL reale pro-capite
Fonte: IMF, World Economic Outlook, April 2013; IMF Fiscal Monitor, October 2012; *Austerity measures are defined as the cyclically adjusted primary balance (CAPB) needed to reduce debt; this is the CAPB required in 2020 to reduce the debt-to-GDP ratio to appropriate levels, as defined in IMF Statistical Tables
Si, va bene, dirà ancora qualcuno, ma non sarà mica sempre così, no? In termini un poco più tecnici: oltre all’impatto recessivo di breve periodo, queste misure hanno un impatto negativo sulla crescita del prodotto potenziale, cioè di ciò che possiamo potenzialmente produrre? O ancora, avranno un impatto strutturale? Domanda bella e risposta complessa, che lasciamo a Larry Ball e Paul Krugman. In buona sostanza? Si, l’austerità ha prodotto un danno irreversibile alle potenzialità di crescita delle nostre economie (Figura 29). #Congratulazioniausteri!
Figura 29: Correlazione tra le misure di austerità* (variazione del bilancio strutturale tra 2009 e 2013) in rapporto al PIL potenziale e le stime di riduzione del PIL potenziale nel 2013 rispetto alle aspettative pre-crisi
Fonte: Paul Krugman (20 June 2014), Austerity and Hysteresis, based on Larry Ball’s estimates of the decline in potential output in 2013 relative to pre-crisis expectations (Ball, L. (May 2014), Long-Term Damage of the Great Recession in OECD Countries and IMF’s estimates of the change in structural deficits as a percentage of potential GDP, 2009-2013
- Ancora sull’austerità: la spesa per la sanità è troppo alta
C’era una volta la ‘maggioranza silenziosa’, espressione usata per identificare quell’insieme vasto di persone poco inclini a presentare le proprie idee, in maniera rumorosa o meno, ma persone che, certamente, di idee prive non erano. Preferivano non farle conoscere, ecco tutto. Non in quel contesto culturale. I maligni dicevano che era silenziosa perché se ne vergognava, di quelle idee. Non so.
Ma eravamo fortunati, e non lo sapevamo. Oggi quelle stesse idee, tali e quali, vengono sbandierate ai quattro venti, sono oggetto di dibattiti televisivi, sollevano passioni, rabbia, insofferenza. E noi le dobbiamo sopportare, e chiamarle pure ‘idee’. Mah.
Una di queste ‘idee’ è che la spesa pubblica sia costituita in buona misura da ‘sprechi’. La maggioranza ex-silenziosa sostiene che i prodotti e i servizi forniti dalla pubblica amministrazione sono inutili, inefficienti, troppo cari, potrebbero essere prodotti con la metà dei dipendenti, e che se quelle stesse cose fossero fatte dal settore privato allora sì che…. Per fortuna abbiamo la libertà di pensiero –la quale porta con sé anche la libertà di NON-pensiero. Proviamo ad esercitare la prima.
Certo che uno si aspetterebbe che, tra tutti i settori in cui gli ex-silenziosi, oggi meglio noti come fautori dell’austerità o, in breve, austeri, vedono sprechi, inefficienze, ecc. quello della sanità sia il meno attaccato: in fondo, pensavo, si tratta anche della loro salute, forse saranno clementi. Poi, al passar del tempo, mi sono messo ad osservare, chiedere, ricercare, e ho capito perché non lo sono (clementi): gli ex silenziosi non usano l’assistenza pubblica ma quella privata. Per dirigenti, professionisti, redditieri, imprenditori, benestanti in genere, la sanità pubblica è quasi un costo puro, a fronte del quale non ricavano gran che. Va bene. Ma è giustificato attaccare la sanità pubblica sulla base di considerazioni relative alla sua efficienza? È possibile che nella sanità pubblica si accumulino tutte le inefficienze del mondo, e nel privato il contrario? Forse si può essere selettivi, forse esistono gerarchie di inefficienza, qualcosa vien prodotto in maniera più efficiente, qualcosa d’altro meno? Forse ‘efficienza’ va misurata in un modo in un certo settore di attività e in un altro modo in un altro settore? Mi chiedo: quali sono gli effetti della chiusura di un ufficio che rilascia autorizzazione alla pratica della pesca in acque dolci, e quali gli effetti della chiusura di un reparto ospedaliero? Intendo dire: uno va a chiedere la nuova carta di identità in Comune e si arrabbia perché l’impiegato…non è efficiente. Lo capisco. Non so come abbia fatto quella persona a decidere che l’impiegato comunale è inefficiente, ma capisco. Come capisco qualcuno che ritenga che l’acciaio debba essere prodotto da imprese private, le quali saprebbero farlo in maniera efficiente. Qualcuno che con il 99% di probabilità non ha visto un’acciaieria neanche in fotografia, o su facebook, ma capisco.
E va bene. Ma la sanità? Se uno ha bisogno di cure? (Si, qui l’uso della parola ‘bisogno’ è legittimo). Beh, se la spesa pubblica viene bollata come inefficiente, e talvolta inutile, la spesa per la sanità di ‘sprechi’ è colma. Questo sostengono gli austeri. Steven Hawking ritiene di non parlare di sprechi quando parla di sanità, parla d’altro. Ecco di cosa parla:
Che cosa ne dice Stephen Hawking?
“Only last summer, I caught pneumonia and would have died, but for the NHS hospital care.
The NHS must be preserved from commercial interests who want to privatise it.”
Professor Stephen Hawking (link)
“L’estate scorsa mi sono preso la polmonite, e sarei morto, se non fosse stato per l’assistenza ospedaliera fornita dal National Healthcare System (il Servizio Sanitario Nazionale inglese). Il NHS deve essere difeso dagli interessi commerciali di chi vuole privatizzarlo”
Professor Stephen Hawking, astrofisico (link)
Tanto per dire che forse il concetto di ‘efficienza’ andrebbe usato dopo aver capito cosa sia, e non per ragioni ideologiche e strumentali. Un malato, o quanto meno Stephen Hawking che di malattia ne sa, parla in primo luogo di assistenza sanitaria.
Ma torniamo al tema principale. Figura 30 ci aiuta a rispondere agli austeri nostrani: spesa pubblica per sanità troppo alta in Italia. Davvero!? Alta rispetto a chi, a che cosa?
Figura 30: Spesa pubblica complessiva per la sanità in Europa nel 2013, % del pil
Fonte: Eurostat, agosto 2015
E siccome i governi di Danimarca, Norvegia e Svezia spendono un fracasso di soldi per la sanità relativamente a tutti gli altri (ovviamente gli austeri diranno che sì, è vero, però da loro la spesa è efficiente!), e pongono quindi un problema di scala, figura 31 ripete figura 30 al netto di quei tre paesi, così da rendere più agevole la comparazione tra paesi UE. Spendiamo ‘troppo’, pro capite!?
Figura 31: Spesa pro-capite per assistenza sanitaria individuale e collettiva finanziata dai governi dei rispettivi paesi. 2013
Fonte: OCSE, agosto 2015; * i valori si riferiscono al 2012
[Ironia: stavo per chiudere il pezzo, quando mia moglie mi segnala un tweet sull’argomento: una comparazione tra paesi, mica poco! E non da un qualche statalista incallito nemico del mercato!]
E che cosa ha da dire Bloomberg in termini comparativi? Buon divertimento con il grafico interattivo!
Figura 32: Classifica dei migliori sistemi sanitari nazionali in termini di costi della sanità (% del PIL e pro capite) e aspettativa di vita (anni), per i dati di Bloomberg cliccare questo link
LA RISPOSTA DEGLI AUSTERI, nostrani e non? In due tempi:Fonte: World Bank, International Monetary Fund, World Health Organization, Hong Kong Department of Health; Graphic: Chloe Whiteaker / Bloomberg Visual Data; Editorial: Wei Lu / Bloomberg Rankings & Anna Edney / Bloomberg News
- Si, ma negli altri paesi la spesa del governo per la sanità è efficiente;
- E comunque dobbiamo fare i sacrifici, ridurre il debito, portare l’avanzo primario all’x%….
- Per crescere serve più Stato, uno Stato attivo, non un semplice ‘gestore’ di fallimenti di mercato
Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia 2001, ha definito gli anni novanta ‘ruggenti’, termine con il quale indicava un periodo in cui la liberalizzazione dei mercati procedeva a ritmo forsennato e di pari passo, ovviamente, procedeva il ritirarsi dello Sato in quanto supremo ente regolatore delle attività produttive e degli scambi. Mentre l’enfasi del libro è sul settore finanziario, le ‘liberalizzazioni’ investirono, come si ricorderà, tutti i settori produttivi (I ruggenti anni novanta, Einaudi 2004). Il risultato, per chi abbia occhi per vedere, è visibile a tutti: la crisi prodotta da quelle deregolamentazioni e svelatasi nel 2007 ha prodotto nel nostro paese circa 3 milioni e mezzo di disoccupati, la perdita del 25% della capacità produttiva industriale, una caduta del reddito reale pro capite di poco meno del 10%, un aumento enorme del numero di concittadini che vivono sotto il livello di povertà, emigrazione giovanile che non conoscevamo da decenni.
Mano a mano che la crisi mette in ginocchio attività produttive e famiglie, comincia a farsi sentire, timidamente ma crescentemente, la voce di chi ritiene che in assenza dello Stato una ripresa vera non ci sarà, una uscita da questa stagnazione non potrà realizzarsi, l’esperienza della crescita non verrà vissuta da almeno una generazione, le opportunità languiranno, il ‘sopravvivere’ diventerà pian piano il nostro modo di essere. Ovviamente, i principi al governo (18 governi dell’UEM su 19) e i loro chierici (leggi: consulenti) continuano imperterriti sulla strada dell’austerità e del liberismo sfrenato, e rifuggono dall’intervenire in questa situazione drammatica se non per aggravarla fin che possono (esempio? L’obiettivo del bilancio in pareggio).
Se questo è il quadro, allora abbiamo bisogno di mobilitare tutte le energie possibili per attivare processi di crescita del reddito, dell’occupazione, della qualità della vita, dello svecchiamento tecnologico delle imprese esistenti. Dobbiamo mobilitare giovani, donne, disoccupati, immigrati, tutti coloro che possano e vogliano avviare attività produttive adatte a rinnovare il tessuto produttivo del paese rendendolo competitivo sul piano internazionale, moderno, attraente per i giovanissimi che escono dalle nostre scuole (buone) e università (buona). Ma, c’è un ma: che tutto ciò possa essere avvenire (su di una scala statisticamente apprezzabile) in assenza di politiche per l’inclusione imprenditoriale è impossibile. Si, politiche, cioè intervento attivo dello Stato. Chi lo dice? Lo dice l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), cioè l’organizzazione dei paesi ricchi. Meraviglia: ma non è forse l’OCSE uno dei bastioni di quel liberismo che ha generato questa crisi!? Non è forse l’OCSE quella organizzazione il cui vice-segretario generale ebbe a dire, in una intervista al Wall Street Journal, che occorre fare sacrifici e che “il dolore comincia a pagare”?!
Ebbene, proprio il fatto che la predica venga da tale pulpito ci dà l’idea di quanto stia cambiando il vento. Il rapporto OCSE The Missing Entrepreneurs 2014, ha un sottotitolo importante: Policies for Inclusive Entrepreneurship in Europe. Policies. Non sussidi, ovviamente, che non saremo noi non-liberisti a chiedere. Politiche. Iniziative legislative, certo, ma soprattutto programmi di formazione, orientamento, accompagnamento, condivisione del rischio, politiche insomma. Inclusive.
La seconda ragione per la quale questo rapporto OCSE è importante sta nelle comparazioni che offre tra i paesi europei. Ne riportiamo qui soltanto due: Figura 33 (figura 2.6 a pagina 37 del rapporto OCSE) mostra come il tasso di imprenditori nascenti, definiti come la percentuale della popolazione che dichiara di essere nella fase di avvio attivo di una attività propria, sia nel nostro paese il più basso tra tutti i 24 paesi europei in cui la rilevazione è stata condotta nel periodo 2008-2012. E ciò tanto per le donne che per gli uomini.
Figura 33: Tasso di imprenditori nascenti, 2008-2012
Fonte: OCSE, The Missing Entrepreneurs 2014, figura 2.6 a pagina 37
Come non bastasse, Figura 34 (figura 2.16 a pagina 45 del rapporto OCSE) mostra che il nostro è il paese in cui la percentuale di imprenditori nelle prime fasi delle attività imprenditoriali che si aspettano di creare almeno sei posti di lavoro nei prossimi cinque anni è, di nuovo, la più bassa in Europa. E ciò tanto per le donne che per gli uomini.
Figura 34: Percentuale di imprenditori nelle prime fasi delle attività imprenditoriali che si aspettano di creare almeno sei posti di lavoro nei prossimi cinque anni, 2008-2012
Fonte: OCSE, The Missing Entrepreneurs 2014, figura 2.16 a pagina 45
Drammatico. Abbiamo bisogno di politiche per l’imprenditorialità. Inclusive. Perché lo Stato conta.
- Una nota conclusiva
Ho voluto dedicare del tempo prezioso, mio e delle persone che lavorano con me, a contrastare Il chiacchiericcio assordante con il quale le Very Serious People nascondono la propria incompetenza e il proprio schieramento ideologico (non so quale prevalga, lo si decide caso per caso, VSP per VSP) in materie economiche, di politica economica, di economia industriale. Ho infarcito questo breve scritto di una quantità forse eccessiva di dati, ma sono del parere che più sia meglio che meno. Ovviamente non sempre l’evidenza empirica portata a supporto delle tesi esposte è lineare e incontrovertibile. A chi me lo farà notare, rispondo fin d’ora: “Gentile Signore/a, mi mostri la Sua e poi parliamo.”
[1] Istat definisce la PTF come “il rapporto tra la misura di volume del valore aggiunto e una misura di volume dell’impiego complessivo del capitale e del lavoro.”
[2] La scelta di lavorare con il concetto di produttività del lavoro è dovuta al fatto che le comparazioni internazionali sono molto più agevoli di quanto non siano quelle per la PTF, e il concetto più intuitivo.
[3] In questo articolo, per ‘globalizzazione’ intendiamo il processo attraverso cui le attività produttive necessarie a realizzare un prodotto sono suddivise tra più paesi.