Imprenditore e innovazione

Ho sostenuto una tesi piuttosto fuori dal coro: invece di prendermela con il governo, con i giovani e la droga, la sacra corona unita, il tempo e il sindacato, la Merkel, la sfortuna e non saprei più chi (ah no, scusate, l’Euro, ovviamente!), ho avanzato l’ipotesi che lo stato pietoso in cui versa la nostra economia sia dovuto anche al declino delle capacità imprenditoriali dei concittadini.

Presente un po’ in tutti i Paesi ad alto reddito pro capite, sembrerebbe, ma certo più spinto da noi che altrove, visto che siamo i più lenti ad uscire dalla Grande Recessione (con la Spagna, vero, la quale però ha accelerato negli ultimi due anni). Immagino già che qualcuno commenterà che “non ho capito un c…”, parole testuali usate in passato in un commento ad una mia tesi che sostenevo in passato. Dove il commentatore sosteneva con forza, che probabilmente veniva dalla ‘c….”, che in questo Paese è impossibile ‘fare impresa’. Per via del governo, dei giovani, ecc. come da copione.

Nell’ultimo di questa serie  sostenevo dunque che se le imprese chiudono e il lavoro permanente, strutturato e organizzato entro l’impresa viene sostituito da milioni di ore di gigs (vedi i vouchers), la ragione è che gli imprenditori che avevano contribuito a costruire il Paese non sono più, come si dice, all’altezza. Vorrei sviluppare un poco quesoi pensiero sull’imprenditorialità.

  1.  Quello dell’imprenditore debole non è un fenomeno strettamente italiano, l’ho già detto. Certo, stiamo soffrendo più di gran parte dei paesi ad alto reddito pro capite, e ho detto anche questo, il che sta ad indicare una debolezza particolare dei nostri imprenditori.
  2. Ma se questa spiccata debolezza trova la sua controparte nella debolezza dell’imprenditorialità di tutti o quasi i paesi ad alto reddito pro capite, è importante sapere che cosa c’è di comune tra le caratteristiche di questa caduta di pulsione imprenditoriale.
  3. Per capire quali possano essere queste cause comuni occorre rifarsi, ovviamente, ad un modello interpretativo della storia economica recente. Recente quanto non saprei, e quindi mi rifaccio al libro di Robert J. Gordon The Rise and Fall of American Growth. 2016, Princeton University Press. Gordon ritiene che il periodo da mettere sotto osservazione sia quello che parte dalla fine della Guerra Civile Usa in poi. E mi occupo di Usa perché quello è il centro dell’impero, è lì che le cose avvengono per prime ed è lì che esse vengono studiate per prime (e meglio).
  4. La tesi di Gordon è presto detta. Nel secolo successivo alla fine della Guerra Civile l’economia americana fu testimone di una rivoluzione economica che produsse un aumento del livello di vita in quel Paese inimmaginabile prima: elettricità, servizi idraulici nelle abitazioni, veicoli a motore, aeronautica militare e commerciale, radio e televisione, aria condizionata, e così via.
  5. Gordon sostiene che quella fase è definitivamente conclusa, e spende alcune centinaia di pagine per dimostrare che ciò che di grandioso è avvenuto tra il 1870 e il 1970 non può essere ripetuto. Dal punto di vista che ci interessa oggi, le pagine centrali sono quelle (568-574) in cui Gordon illustra la sua idea di ‘dinamica ad U’ della potenza dell’imprenditoria privata americana.
  6. L’inversione nella ‘U’ avviene nei primi decenni del XX secolo, e l’indicatore principale ne è forse la caduta della percentuale dei brevetti assegnati a privati sul totale, percentuale che scese dal picco del 95% nel 1880 al 73% nel 1920, al 42% nel 1940, al 21% nel 1970 e al 15% nel 2000.
  7. Ora, se del totale dei brevetti la quota assegnata ai privati diminuisce, quella assegnata alle imprese aumenta (in questo momento il totale dei brevetti non mi interessa).
  8. Dramma: entra in scena la piccola e media impresa italiana. Se si accetta il modello proposto da Gordon, allora ecco che la performance relativamente peggiore degli imprenditori italiani nell’uscire dalla crisi rispetto ai loro omologhi degli altri paesi ad alto reddito pro capite non può sorprendere più di tanto: nel XX secolo l’innovazione, misurata dal numero dei brevetti, passa gradualmente dall’inventore/imprenditore privato alla grande impresa. E chi di grandi imprese non ne ha? Chi ha blaterato delle magnifiche sorti e progressive della piccola e media impresa? Beh, innoverà di meno di chi ha fatto il contrario.

Non credo debba sorprendere neanche per un istante che io riconduca le difficoltà della nostra economia, sia tradizionale che innovativa, alla dimensione d’impresa. Tutti sanno che io non amo il piccolo (né il flessibile, né le banche radicate sul territorio….). Ciò che forse dovrebbe sorprendere, invece, è che in un Paese soffocato dall’ideologia del piccolo non vi sia, quanto meno, una spinta forte per l’intervento del governo nel processo di innovazione, visto che le grandi imprese sono poche e potenzialmente dipendenti dall’estero. In fondo, Mariana Mazzucato ci ha dimostrato che lo Stato ha un suo ruolo, no? (Cfr. la mia recensione del libro di Mazzucato pubblicata su questo blog il 29 marzo 2015)

 P.s.

Ho illustrato e discusso una tesi direttamente opposta a quella di Robert Gordon in un post del 19 novembre 2015 dedicato a Joel Mokyr e ad una sua lezione al Politecnico. Mokyr sostiene che il rallentamento di crescita di produttività che stiamo vivendo è soltanto transitorio e ne vedremo presto la fine. Curiosità: Gordon e Mokyr insegnano entrami alla Northwestern University, Evanston IL; e Mokyr è il direttore della collana della Princeton University Press in cui è stato pubblicato il libro di Gordon. Alla faccia delle parrocchiette nostrane.

6 thoughts on “Imprenditore e innovazione

  1. Le imprese italiane hanno sempre puntato più ad utilizzare i brevetti di successo che a svilupparne di nuovi, ma anche in questo caso si nota la capacità imprenditoriale ridotta di questi tempi. In un modo o nell’altro, siamo sempre responsabili della nostra situazione attuale e del nostro futuro: questa società produce questo governo e le sue politiche. Cosa farà cambiare senso di rotazione alla spirale negativa?

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  2. Siamo una piccola impresa famigliare: 15-20 persone attiva dal 1990 come divisione di un azienda più grande (sempre famigliare) e dal 1997 come esito del buy out della stessa. Settore quasi high tech/industria. Ci autofianziamo l’innovazione senza aver chiesto mai un euro alle banche. Sentiamo forte il giogo delle tasse e abbiamo scoperto quasi per caso (colpa grave nostra e dei commercialisti) l’importante credito di imposta a disposizione per il trienno 2015-2016 sul differenziale rispetto alla media del trienni 2012-2014. Non abbiamo mai brevettato niente per paura della burocrazia e della spesa eventuale per la protezione del brevetto.
    Dal 2008 continuiamo a vivere con ottime soddisfazioni ma senza crescita che dal 1996 al 2008 era stata esponenziale. Tutto aperto è il discorso del passaggio generazionale e della qualifica tecnica / professionalità e fedeltà dei dipendenti (raramete collaboratori).
    Il tutto giusto come spunto di riflessione mia . Cerco di approfondire.

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  3. piccolo è brutto ed è un limite, da diversi punti di vista, per i motivi che lei spiega. ma tra fare manager in grande aziende “cotte” e senza reale spinta innovatrice e piccolo imprenditore, io ho scelto 2 anni fa di aprire la mia attivtà e credo che per rimanere in Italia sia una delle poche opzioni per scavalcare il problema di attendere il proprio turno in una società pubblica e privata concentrata solo sulla “conservazione” di se stessa e non sullo slancio verso il futuro. le aziende italiane sono rimaste e rimangono medio o piccole non per scelta ma per incapacità della gestione dell’aumento di complessità con criteri manageriali e non familistici (tranne i casi in cui si appartiene a mercati troppo piccoli ma quello è altro argomento), i vecchi manager sono solo usati e nemmeno più sicuri, per preparazione e cultura internazionale bussare un’altra porta…io sostengo da tempo che il problema a tutti i livelli siamo noi tutti in Italia, la mancanza di classe dirigente è problema mondiale però vedo solo noi tra paesi evoluti così poco coraggiosi, senza stimoli nè cultura, capaci sempre solo di che la politica o la fortuna ci faccia cambiare strada. forse è anche vero che senza un grande mercato interno è più difficile arrivare alle grandi dimensioni, ma le ragioni sono più antropologiche che strutturali e se non si tocca il fondo il paese non reagisce. e lo stesso succede in tante aziende dove spesso l’imprenditore non sa neanche l’inglese…per le nuove aziende qst incapacità significano opportunità, ma parliamo sempre di piccole – medio aziende, andare contro il “sistema”, a meno di capacità straordinarie, è davvero molto complesso.

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