Stato e prospettive dell’industria italiana

Convegno di presentazione del Rapporto 2016 Mediobanca-Unioncamere

Politecnico di Milano, 1 dicembre 2016

Introduzione

Questo lavoro di ricerca non è organizzato in forma tradizionale, nel senso che il rapporto tra commento ed evidenza empirica è sbilanciato a favore di quest’ultima. L’evidenza empirica è quella che ho mostrato nel mio intervento di apertura del convegno di cui nel titolo; e i commenti servono ‘solo’ a fornire la traccia logica che lega un grafico all’altro.

L’approccio è comparativo; l’orizzonte temporale di interesse è quello degli ultimi dieci anni circa, cioè dall’inizio della grande recessione (prima e ultima per gli USA, prima di tre per l’Italia); le variabili studiate sono quelle rilevanti a livello di impresa, con la sola eccezione dell’ultimo grafico.

1. Stagnazione secolare in tutti i paesi ad alto reddito pro capite, stagnazione della produzione industriale in Italia

Sono passati ormai più di otto anni dal fallimento della banca di investimento Lehman Brothers e più di nove anni dalla dichiarazione ‘shock’ di BNP Paribas che annunciava di aver sospeso di calcolare il valore di tre fondi di liquidità Abs (asset backed securities, garantiti da attività immobiliari e ipoteche) aperti ai sottoscrittori. La crisi, nata nel settore finanziario, si trasmise all’economia reale, costituita da imprese e consumatori, causando la grande recessione non solo negli Stati Uniti ma anche nei paesi che per relazioni commerciali e finanziarie sono stati esposti a rallentamenti della crescita dell’economia statunitense. L’Italia è uno di questi paesi. Questo spiega, nei primi mesi del 2008, il rallentamento e, a giugno 2008, il crollo della produzione industriale e del fatturato delle imprese. Una seconda recessione (che non ha ‘toccato’ gli USA) ha contribuito a interrompere la crescita della produzione industriale che, a luglio 2011, era ancora di circa il 20% inferiore rispetto al livello registrato nei primi mesi del 2008. La riduzione della produzione industriale e del fatturato si sono interrotti nei primi mesi del 2013, per iniziare un periodo di stagnazione tanto prolungata che a metà 2016 mostra uno scenario ‘preoccupante’: i livelli di produzione e fatturato dell’industria italiano sono inferiori, rispettivamente, del 15% e del 24%, a quelli registrati 8 anni prima.

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2. Ristagno della spesa privata per investimenti, (molto) più marcata a quella di altri paesi ad alto reddito pro capite, nei quali essa è invece cresciuta

Come si può tornare a crescere a livelli pre-2008? Proviamo ad analizzare ruolo di consumatori e imprese (del governo, dal punto di vista economico, tratteremo in un paragrafo successivo).

È una spiegazione generalmente accettata del comportamento dei consumatori che essi spendono sulla base del proprio reddito disponibile e delle aspettative che hanno sul futuro in termini di probabilità di mantenere, o accrescere, quel reddito. In un quadro di bassa crescita i consumatori tendono ad aumentare la quota del proprio reddito disponibile che accantonano per eventuali esigenze future. Da essi, in altre parole, non ci si può aspettare la riscossa contro la stagnazione almeno fino a quando non avvenga qualcosa di storicamente rilevante che faccia loro cambiare le proprie aspettative di un futuro grigio a bassa crescita.

Anche pensare che le imprese investano quando i tassi di interesse sono bassi è errato. Ovviamente alcune di esse, in particolare le piccole e le artigianali, preferiscono aspettare a finanziarsi quando i tassi sono bassi, ma il motivo principale per cui l’investimento viene attivato è l’aspettativa che la domanda per le merci di propria produzione riprenderà, se non immediatamente, in tempi prevedibili. E di questo non c’è segnale da anni. E il fatto che le imprese non investano è mostrato dalla figura 2, in cui si osserva il marcato declino degli investimenti in Italia.

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3. La dinamica della produttività in Italia, terribile, non deve sorprendere: senza investimenti la produttività non cresce

E la riduzione degli investimenti da parte delle imprese ha determinato la stagnazione della produttività del lavoro (Figura 3). È corretto notare che il rallentamento dell’aumento della produttività del lavoro in Italia si registra già prima della Grande Recessione, prima dell’ingresso nell’Unione Economica e Monetaria. E se la produttività non aumenta, non migliorerà la competitività delle imprese, e non verranno create le basi per un aumento dell’occupazione e della crescita del paese.

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4. Ovviamente, non tutte le vacche sono nere: abbiamo settori industriali che stanno facendo meglio di quanto non facessero nel 2010, altri che sono tornati su quei livelli……

Ovviamente, non si possono generalizzare le considerazioni fatte in precedenza a tutte le imprese e a tutti i settori. Figura 4 mostra che i settori dei prodotti farmaceutici, della produzione di mezzi di trasporto, di macchinari, di prodotti in metallo e il settore alimentare hanno subito un rallentamento del proprio indice di produzione, ma dal terzo-quarto trimestre 2013 hanno mostrato una crescita elevata e i livelli di produzione industriale sono superiori a quelli registrati nel 2010.

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5…..ed altri che invece non stanno andando altrettanto bene

Altri settori invece (Figura 5), dopo un rilevante declino della loro produzione industriale, si trovano in uno scenario di stagnazione: il livello di produzione industriale è inferiore (per alcuni settori anche in maniera rilevante) a quello che era nel 2010.

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6. Come se ne esce? Al solito modo: formazione, internazionalizzazione, imprenditorialità, innovazione

Formazione, internazionalizzazione, imprenditorialità e innovazione sono tutte determinanti che permettono alle imprese e all’economia nazionale di tornare a crescere.

Tramite la formazione, le imprese possono accedere e trattenere i lavoratori più qualificati per le attività necessarie all’operatività delle imprese. L’internazionalizzazione garantisce alle imprese l’accesso alla domanda dei propri beni e servizi dall’estero; inoltre, le imprese possono accedere alle risorse di cui il paese non è ‘dotato’. Innovazione, che sia di prodotto o di processo, è un fattore determinante per competere sul mercato nazionale e internazionale. E, infine, in un mondo globalizzato dal punto di vista economico, diventa fondamentale ‘essere imprenditori’ sia che si operi in un’impresa sia che si abbiano le capacità di avviare un’attività imprenditoriale (appunto).  Questi quattro fattori sono alla base della crescita della produttività che non è tutto, ma nel lungo periodo è quasi tutto. Infatti, la capacità di un paese di migliorare il suo standard di vita nel tempo dipende quasi interamente dalla sua capacità di aumentare la produttività del lavoro (Paul Krugman, The Age of Diminishing Expectations (1994)).

7. Formazione: le nostre imprese non si affidano a dipendenti con elevati livelli di istruzione…

 Imprese, quelle italiane, che investono poco non solo in capitale fisico, ma anche in capitale umano. Drammaticamente poco. Imprese nelle quali la combinazione di scarso investimento in capitale fisico e scarsissimo investimento in capitale umano garantisce livelli di profitti bassi perché garantisce bassi livelli di produttività.  Scarsa presenza di dipendenti laureati (Figura 6) – dove ovviamente la laurea è una proxy per misurare il capitale umano, il possesso di conoscenze e competenze –  si materializzano necessariamente in quanto ci ha detto figura 3: stagnazione della produttività.

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8……Eppure sia la teoria che l’evidenza empirica mostrano che la produttività è tanto più alta quanto più alto è il grado di istruzione medio aziendale

La dotazione di competenze, specializzazioni, saper fare di cui un’impresa dispone è funzione tanto del livello di formazione del personale che essa assume, quanto della spesa per la formazione continua di quel personale, formazione che dovrebbe andare di pari passo con la crescente sofisticazione dei processi al suo interno. Ma perché è così importante dotarsi di, e mantenere, forza lavoro qualificata? La risposta è data da figura 7: il numero medio di anni di scuola frequentati dai lavoratori (proxy del livello di qualifica della forza lavoro) è positivamente correlato alla produttività.

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9. L’internazionalizzazione di un’impresa in una economia globalizzata prende molte forme: esportazioni, che possiamo attaccare con maggiore decisione

Grazie anche alla riduzione delle barriere commerciali, le importazioni di merci sono aumentate costantemente dai primi anni 2000. Figura 8 mostra che i paesi delle economie emergenti hanno aumentato le importazioni di beni servizi e il Fondo Monetario Internazionale stima che continuerà ad aumentare negli anni a venire. Le imprese italiane possono sfruttare quest’opportunità e guadagnare una quota della domanda proveniente dai paesi ad economia emergente.

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10. E la possibilità dell’offshoring va sfruttata, perché c’è una relazione diretta e positiva tra intensità di offshoring e produttività

L’internazionalizzazione, che sia in termini di esportazioni, importazioni, partnership all’estero, genera delle esternalità positive. Tali esternalità positive possono essere sia orizzontali – miglioramenti delle prestazioni delle imprese che si trovano a competere con le imprese internazionalizzate – sia verticali – miglioramenti delle prestazioni all’interno della filiera in cui opera l’impresa esportatrice. Figura 9 mostra la correlazione tra produttività del lavoro e indice di offshoring. L’indice di offshoring, per ciascun settore di ciascun paese, è stato calcolato come rapporto tra il valore degli input importati dall’industria x dalla stessa industria x (mondiale) sul valore totale degli input intermedi (esclusi i combustibili) usati nell’industria x. Sembra che maggiore sia l’indice di offshoring, maggiore sia la produttività delle imprese: al crescere dell’importazione di input intermedi, aumenta la produttività. Perciò, importare volumi crescenti di beni intermedi e partecipare a catene globali di produzione, può essere una buona strategia per guadagnare competitività.

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11. Terzo, è indispensabile che le imprese italiane si integrino nelle filiere globali di produzione

È ormai generalmente accettato che l’estensione della nuova organizzazione globale di produzione è tale che nel 2011 il presidente della Organizzazione Mondiale del Commercio ha dichiarato pubblicamente che da allora sarebbe difficile associare ad un singolo bene, persino l’abbigliamento, il marchio “made in” (un solo paese). Le imprese italiane, tuttavia, mostrano un grado di partecipazione alle catene globali di produzione ancora relativamente basso (Figura 10). La costituzione di catene globali del valore, una struttura della produzione e della distribuzione tale per cui i processi produttivi che conducono al prodotto finito sono distribuiti globalmente, determina il vantaggio comparato sul mercato del prodotto finale; l’appartenenza a catene globali di produzione consente alle imprese di aumentare la propria competitività a livello globale, e questa strategia contribuisce positivamente alla crescita dei paesi le cui imprese la adottano.

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12. Imprenditorialità: la situazione è veramente drammatica

Per valorizzare queste potenzialità, dobbiamo mobilitare giovani, donne, disoccupati, immigrati, tutti coloro che possano e vogliano avviare attività produttive adatte a rinnovare il tessuto produttivo del paese rendendolo competitivo sul piano internazionale, moderno, attraente per i giovanissimi che escono dalle nostre scuole (buone) e università (buona). Ma la situazione è veramente drammatica Figura 11 mostra come il tasso di imprenditori nascenti, definiti come la percentuale della popolazione che dichiara di essere nella fase di avvio attivo di una attività propria, sia nel nostro paese il più basso tra tutti i 24 paesi europei in cui la rilevazione è stata condotta nel periodo 2008-2012. E ciò tanto per le donne che per gli uomini. Drammatico. Abbiamo bisogno di politiche per l’imprenditorialità.

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13. Il bisogno di innovazione è evidente. Ma i nostri governi spendono in ricerca e sviluppo …. Occorre ricordare che le imprese adottano innovazione, assai meno spesso la ‘fanno’

Figura 12 dice che i paesi i cui governi finanziano con maggiore aggressività investimenti in ricerca e sviluppo mostrano produttività maggiori dei paesi i cui governi spendono poco in ricerca e sviluppo. E l’evidenza è incontrovertibile: più ricerca e sviluppo in rapporto al PIL, più produttività. Cioè più ricchezza per unità di lavoro nell’unità di tempo.

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14. Dopo un decennio di politiche scellerate di ‘austerità’, le vicende politiche recenti a livello internazionale lasciano sperare che le politiche di stimolo mediante disavanzo pubblico possano tornare a dare respiro all’economia

Il momento storico, tuttavia, è importante perché ci troviamo di fronte alla ‘rotazione’ della politica economica da puramente monetaria, che sta uscendo di scena, ad una prevalentemente fiscale, che sta subentrando. Fino al 2006 potevamo parlare di un ‘mix di politica monetaria e fiscale’ tanto negli Stati uniti che in Europa. Certo, in Unione Economica e Monetaria (l’Area Euro) era in atto il famoso ‘vincolo del 3%’ ma, visto che l’economia un poco cresceva, il vincolo non era drammaticamente stringente come lo sarebbe diventato con la crisi del 2007 e l’inizio della Grande Recessione. Quando ci si rese conto che la crisi finanziaria del 2007 si stava trasmettendo all’economia reale e la recessione (globale) non era una fantasia ma un pericolo che si stava materializzando, il G20 del novembre 2008 adottò una politica fiscale aggressiva che venne attuata mediante aumenti sostanziali dei deficit dei governi: quello cinese prima, con un rapporto deficit/pil del 16,1%, e quello statunitense poi, con uno del 5,6%. L’Europa, guidata dalle vergini vestali del bilancio in pareggio, rifiutò di stimolare, scegliendo di risparmiare e, con ciò, di affogare nella disoccupazione crescente.

Negli Stati uniti si continuò ad attuare un mix di politica monetaria e politica fiscale entrambe espansive fino al 2010-2011, quando l’enfasi venne spostata marcatamente sulla sola politica monetaria: ricorderete i QE1, QE2, QE3, QE4. In Europa, niente politica di stimolo fiscale, e politica monetaria espansiva ad oltranza (ma in ritardo), con il primo QE a marzo 2015.

Tanto il risultato del referendum tenutosi in Gran Bretagna il giugno scorso che le elezioni presidenziali statunitensi hanno fatto riemergere quel ruolo della spesa pubblica che i sostenitori del bilancio in pareggio hanno negato per anni.

E i mercati come hanno reagito? Bene. Perché? L’ipotesi è che sembra che gli sforzi delle imprese per operare in un mercato di bassa crescita (o stagnazione) possano essere finalmente accompagnati da una politica economica che stimoli in misura rilevante la domanda aggregata.

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