Torno a condividere dei pensierini dopo mesi e mesi di astinenza. L’ultima volta che lo feci parlai di mercato del lavoro e politica monetaria, e cioè delle possibili ragioni per cui politiche monetarie pur fortemente espansive non riescono a generare inflazione salariale come passo intermedio verso l’inflazione dei prezzi.
Oggi il tema di attualità è un altro: i dazi che l’amministrazione Trump ha imposto sulle importazioni di acciaio e alluminio. Questa decisione ha generato preoccupazione che essa possa essere il primo passo verso un ‘guerra commerciale’, vale a dire che altri paesi possano imporre a loro volta dei dazi sull’importazione di prodotti Usa; ma non ho letto analisi, per quanto preliminari, che discutono la tesi che voglio sottoporre qui all’attenzione di chi segue questo blog. La mia tesi è che gli effetti di un dazio su acciaio e alluminio non sono quelli, o almeno non solo quelli, che sembra aspettarsi chi non ha studiato la teoria del protezionismo. La mia tesi è che la protezione dell’industria Usa di acciaio e alluminio produrrà effetti negativi su tutta l’economia statunitense. E che essi saranno tanto più negativi sulle imprese nella cui produzione acciaio e/o alluminio vengono usati in modo intensivo. Tra questi, ovviamente, spiccano automobilistico, elettrodomestici, infrastrutture.
Molti pensano agli effetti di politiche commerciali restrittive come che si fosse ancora in un mondo in cui una merce, per ipotesi destinata al consumo finale, veniva prodotta in un solo paese, magari addirittura in un solo impianto, usando esclusivamente materie prime, semilavorati e prodotti intermedi a loro volta prodotti nello stesso paese, e anch’essi con materie prime, semilavorati e intermedi di origine nazionale. In questo quadro, un dazio che il governo del paese in esame imponesse sull’importazione di una merce concorrente prodotta all’estero avrebbe effetti che, in prima approssimazione, non sono difficili da prevedere: se nella produzione di quella merce il paese può essere considerato piccolo rispetto al resto del mondo, allora, il prezzo del prodotto nazionale aumenta al di sopra del prezzo di libero scambio internazionale.
I produttori nazionali del bene protetto decideranno:
- se mettere il relativo profitto a libro a parità di produzione, o
- se continuare a vendere ad un prezzo compreso tra quello pre-dazio e quello inclusivo del dazio che comunque consente di mantenere un margine di competitività di prezzo rispetto al bene importato, o
- una combinazione delle due politiche.
Si vede subito che i prezzi praticati dai produttori nazionali tenderanno a crescere rispetto al prezzo pre-dazio. I salari, invece, non mostreranno alcuna tendenza endogena a crescere, cioè non cresceranno se non vengono attivati meccanismi di contrattazione a livello delle imprese dell’industria protetta. Vedono male, dunque, i dipendenti delle industrie protette, se pensano che ad essere protetti siano anch’essi. Aumenti di uso della capacità produttiva inutilizzata sono relativamente semplici da gestire, ma aumenti della capacità produttiva, cioè riattivazione o attivazione di nuove acciaierie, richiedono tempi lunghi. Infine, i consumatori vengono colpiti tanto più alta è la quota del proprio reddito che essi spendono per l’acquisto del prodotto protetto, il cui prezzo è aumentato necessariamente.
Ma acciaio e alluminio non sono beni finali, cioè destinati al consumo finale. Il loro prezzo non è rilevante per il consumatore finale se non per il fatto di essere input nella produzione di merci destinate al consumo finale. L’imposizione di un dazio fa necessariamente salire il costo di produzione delle merci destinate al consumo finale, proporzionalmente tanto più quanto più alta è l’intensità del bene protetto nella produzione del bene finale. L’aumento del prezzo interno del semilavorato si riverbera dunque attraverso tutta la struttura produttiva del paese, inducendo un processo inflazionistico che certo non deve essere necessariamente catastrofico, ma inflazionistico sarà.
Una menzione particolare meritano i produttori esportatori del paese che impone il dazio sugli intermedi importati. Quale che sia la destinazione di mercato di questi produttori, anche gli esportatori di merci nella cui produzione il prodotto protetto è un input vedranno necessariamente salire i propri costi di approvvigionamento di beni intermedi (esempi migliori dell’acciaio è difficile trovarne). Ciò implica che, a parità di tutte le altre condizioni, la conseguente perdita di competitività internazionale di prezzo dei prodotti esportati dal paese che ha imposto la protezione dovrà essere compensata:
- da una riduzione del profitto aziendale, o
- da un taglio del costo del lavoro per unità di prodotto, a sua volta da ottenersi mediante riduzione del costo del lavoro o un aumento della produttività, o
- una combinazione dei due.
Se, dunque, l’effetto del dazio può essere positivo sui profitti dell’industria protetta, esso non può esserlo su quelli delle imprese che usano il prodotto protetto come bene intermedio. La competitività internazionale di prezzo delle imprese esportatrici ne soffrirà necessariamente. Per chi ha voglia di avventurarsi nella fantascienza, si può immaginare che per neutralizzare la perdita di competitività di prezzo dei prodotti Usa conseguente all’imposizione del dazio, sarà necessario un deprezzamento del dollaro.
Se la conclusione è il deprezzamento del dollaro allora il Trump ha ottenuto l’obiettivo che si era posto da tempo?
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