20 05 03
Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com
Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it
Obiettivi e struttura
Negli ultimi mesi Daniele Langiu, Francesco Morello ed io siamo venuti lavorando ad una idea che potremmo riassumere così: è possibile sostenere che l’adozione dell’iniziativa politica Belt & Road da parte della Cina (2013) e poi la politica protezionistica nota come Make America Great Again adottata dall’Amministrazione Trump (2017) abbia generato un inizio di disaccoppiamento tra le economie cinese e nord-americana?
Sulla base dell’evidenza che siamo riusciti a raccogliere fine ad ora, non è irragionevole assumere che la risposta a entrambi i quesiti sia positiva, e poniamo il quesito ‘successivo’: l’Unione europea risente di questo processo? In chiaro: la nostra economia mostra segni di attrazione verso un polo o verso l’altro? O mostra segni di indipendenza dalle politiche adottate da ciascuno dei due poli?
Il quesito non è ozioso. È generalmente condivisa l’ipotesi che le radici ideali dell’Unione europea risalgano al Manifesto di Ventotene. La data convenzionale per il lancio del progetto europeo è il 1957, anno del Trattato di Roma. Il contesto era, e sarebbe stato ancora per anni, quello bipolare Usa-Urss, e lo schieramento dei paesi europeo-occidentali era inequivocabilmente ‘atlantico’.
L’avvio del processo di integrazione europea generava necessariamente un mondo tripolare che, quantomeno nel lungo periodo, avrebbe potuto essere notevolmente stabile. Ma così non fu. La caduta dell’Unione Sovietica alla fine degli anni ottanta fu il primo, vero scontro tra Europa e Stati Uniti per stabilire un primato di influenza sull’Europa centro-orientale e, in potenza, sull’ex Unione sovietica nella sua interezza. Non è il caso di discutere qui chi vinse quel confronto; quello che possiamo dire però è che un polo scomparve per lunghi anni, i cosiddetti ‘anni della transizione sovietica’, proprio mentre un altro ne nasceva.
Oggi, sosteniamo qui, ci troviamo di fronte ad un mondo tripolare asimmetrico. Da un lato ci sono Cina e Usa, configurati come stati federali e, dal punto di vista della politica economica, come degli stati-nazione; dall’altro l’Ue, priva di uno statuto federale e di un’autorità unica di politica fiscale, e quindi oggettivamente più ‘imperfetta’ e debole rispetto agli altri due poli. Il nostro problema oggi è questo: questa Unione, che necessariamente subisce l’attrazione degli altri due poli, più forti, da quale dei due viene attratta di più? O, specularmente, verso quale si muove relativamente di più?
Il periodo di nostro interesse ha inizio nel 2011, anno in cui si torna in qualche modo alla stabilità economica a livello globale. In quell’anno la Cina è già da nove anni membro dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, così che gli effetti di amplificazione dell’adesione all’OMC sono pressoché esauriti; la Grande Recessione è finita sia per gli Stati uniti che, in misura minore a causa della scelta di austerità dei governi europei, per la Ue, così che i flussi di commercio si sono già sostanzialmente stabilizzati; ed è in questo intervallo post-2011 che è possibile tracciare l’inizio delle politiche di disaccoppiamento rispettivamente al 2013 per la Cina e al 2017 per gli Stati uniti. Nel 2013 il Governo cinese annunciò il varo di una politica cui diede il nome Belt and Road Initiative (BRI), malamente ‘tradotto’ in italiano con ‘La Via della Seta’; nel 2017 l’Amministrazione Usa lanciò il progetto Make America Great Again (MAGA). Dal punto di vista commerciale, come già abbiamo avuto modo di argomentare, la strategia MAGA dell’amministrazione Trump si è sviluppata (e si sta sviluppando) in tre fasi: 1) tentativo di isolamento da tutti i partner commerciali, inclusi gli ‘amici’ storici, come l’Unione europea; 2) adozione di una politica commerciale tradizionale restrittiva (imposizione di dazi e guerra commerciale con la Cina); 3) riconoscimento dell’importanze dei rapporti commerciali regionali dato che le catene di produzioni sono internazionali (USMCA). Ad est, invece, c’è la Cina, il cui progetto Belt & Road Initiative ha l’obiettivo rafforzare i collegamenti tra Cina e Asia Meridionale e Centrale, Russia, Africa ed Europa. Il progetto prevede, infatti, la costituzione di due percorsi commerciali: un percorso terrestre, comprensivo di diverse rotte atte a connettere la Cina con Europa, Medio Oriente e Sud-est asiatico; e un percorso marittimo articolato in due rotte – una che dalla Cina si snoda attraverso l’Oceano Indiano, il Mar Rosso e infine si collega all’Europa, l’altra che connette Pechino con le isole del Pacifico attraverso il Mare di Cina.
Il nostro obiettivo è dunque verificare se sia possibile rintracciare nei dati di commercio internazionale una ‘deviazione’ dall’andamento storico degli scambi associabile con le due politiche suddette.
1. L’integrazione economica attraverso le catene globali del valore
Il concetto di ‘integrazione economica’ è stato tradizionalmente tradotto nel concetto di ‘integrazione commerciale’. Semplicemente, due economie nazionali si dicevano tanto più integrate quanto più elevato era il volume di traffico commerciale tra le loro imprese. La misura poteva essere relativa alle sole esportazioni, alle sole importazioni, o al volume complessivo di traffico misurato come la somma dei valori di esportazioni ed importazioni.
Seguendo le orme Adam Smith e David Ricardo per circa due secoli fino all’inizio degli anni ottanta del secolo scorso, la modellistica del commercio internazionale assumeva che la ‘divisione internazionale del lavoro’, da cui deriva l’integrazione commerciale, consiste essenzialmente di economie nazionali specializzate nella produzione e nella esportazione di prodotti finiti, cioè di prodotti pronti per la spedizione al loro utilizzatore finale [1]. Ne consegue che in tutta l’economia internazionale tradizionale è il vettore dei prezzi di libero scambio internazionale dei prodotti finiti ad assegnare a ciascuna economia nazionale il compito di produrre, e vendere sul mercato internazionale, un determinato vettore di prodotti finiti. A suo volta, consegue che, da Smith in avanti, la teoria del commercio internazionale ha stabilito un legame unico e necessario tra il concetto di ‘divisione del lavoro’ e quello di ‘specializzazione produttiva e commerciale’, o ‘divisione internazionale del lavoro’, dove con quest’ultima espressione rappresentiamo il fatto che pensiamo alla allocazione di processi produttivi completi ed integrati verticalmente in paesi diversi; e che tali processi produttivi sono generatori di prodotti finiti.
È peraltro evidente che oggi siamo di fronte ad un differente modo di organizzare la produzione internazionalmente, da cui è derivata una differente forma di integrazione economica. È ormai generalmente accettato nella letteratura economica che l’ondata di globalizzazione cresciuta negli ultimi decenni del XX secolo, ha trovato le sue radici in tre sviluppi, le cui origini risalgono a subito dopo la fine della seconda guerra mondiale: calo dei costi di trasporto; riduzione delle protezioni tariffarie che impedivano la libera circolazione delle merci e dei capitali; l’avvento di Internet, la principale fonte di risparmio sui costi di coordinamento dei processi di acquisto, produzione e vendita a livello globale. L’incessante ricerca di costi di produzione sempre più bassi, di competenze/risorse ‘specifiche del paese’ e la parallela ricerca di domanda per i propri prodotti e servizi hanno portato le imprese alla graduale frammentazione del processo produttivo. L’estensione della nuova organizzazione globale di produzione è tale che nel 2011 il presidente della Organizzazione Mondiale del Commercio dichiarò pubblicamente che da allora sarebbe stato difficile associare ad un singolo bene, persino l’abbigliamento, il marchio “made in” (un solo paese). L’emergere delle catene globali di produzione è quindi risultato della frammentazione internazionale della produzione. Tale processo ha intensificato l’integrazione economica, includendo un numero maggiore di paesi, in particolare i paesi ad economia emergente; di settori, interessando oltre al settore manifatturiero sempre più anche i servizi; e di funzioni, includendo non solo le attività di produzione e distribuzione ma anche la ricerca e lo sviluppo e le attività a più alto valore aggiunto.
Ne consegue che il ‘vantaggio comparato’ di cui un paese godeva rispetto ad un altro ha cambiato natura: la produzione avviene per catene globali di produzione, catene nelle quali un’impresa trova la propria collocazione vantaggiosa quando si inserisce come fornitore e/o acquirente di prodotti intermedi, non solo e non tanto di prodotti finali, destinati cioè al consumatore finale. Se per Smith il concetto di ‘divisione del lavoro’ ha la sua ragion d’essere entro il processo produttivo, del quale aumenta la produttività complessiva, oggi è la possibilità di frammentare il processo produttivo che genera aumento della produttività.
2. Indicatori basati sui flussi commerciali bilaterali complessivi
L’ispezione visiva della Figura 1 non consente di discernere ad occhio nudo alcuna modifica rilevante dell’andamento degli scambi commerciali complessivi dell’Ue-28 con i suoi due partners commerciali maggiori. Entrambi i volumi, misurati in Euro correnti, crescono per l’intero periodo a tassi comparabili e sostanzialmente costanti. Non si notano segni di inversioni nell’area ombreggiata, un fatto che noi interpretiamo come negazione dell’ipotesi che le politiche commerciali abbiano avuto effetti già visibili a partire dal 2017. Gli Stati uniti sono inequivocabilmente il maggior partner commerciale dell’Ue-28.
In Figura 2 riportiamo l’andamento delle sole importazioni Ue da Cina e Usa. Abbiamo aggiunto a questo grafico l’andamento delle importazioni dall’area Asean per segnalarne la crescente importanza per la Ue, ma non lo discuteremo in dettaglio.
In questo caso notiamo che ad un periodo di sostanziale stabilità dei valori delle importazioni Ue-28 da Cina ed Usa, nel 2014 si avvia un periodo di crescita per entrambi: il valore delle importazioni dalla Cina, già maggiore di quello delle importazioni dagli Usa, è quello che dal 2014 cresce di più. Non solo: sembra che questo fenomeno acceleri di nuovo a partire dall’inizio del 2017, ma noi siamo reticenti a pensare che questo sia dovuto direttamente alle politiche protezionistiche Usa che andavano prendendo forma proprio in quell’anno. Certo è che questa reticenza si affievolisce se si guarda soltanto al periodo post 2018 quando, presumibilmente, quelle politiche cominciano a dispiegare effetti. Resta vero che qui stiamo parlando di importazioni dagli Usa, e quindi il legame con le politiche protezionistiche è piuttosto debole.
Figura 3, ancora dedicata alle importazioni Ue-28, ci dice quanto valgono in ogni trimestre le importazioni Ue-28 dagli Usa per ogni Euro di importazioni dalla Cina. L’indicatore ha una stabilità notevolissima: per tutto il periodo considerato l’Ue-28 importa dagli Usa 7 miliardi di Euro per ogni 10 che ne importa dalla Cina. Dunque, la Cina è il maggior fornitore della Ue-28, e lo è in maniera stabile per tutto il periodo 2011-2019. I maggiori fornitori della Ue hanno mantenuto la propria forza relativa. La linea rossa punteggiata in Figura 3 rappresenta la retta di regressione lineare dell’indice di attrazione commerciale rispetto al tempo. Tramite questa regressione, possiamo costruire una linea di tendenza che mostra una sequenza ipotetica di valori dell’indice di attrazione commerciale a partire dai dati misurati; per quanto debole possa essere questa regressione, la retta aiuta a visualizzare che, stante i dati raccolti nel periodo considerato, la rilevanza relativa degli scambi Ue-28 – Usa rispetto agli scambi Ue-28 – Cina potrebbe rimanere pressoché invariata nei prossimi trimestri.
Figura 4 è l’equivalente per le esportazioni Ue-28 della Figura 1, che rappresenta l’andamento delle importazioni. Il risultato interessante qui è che l’aggregato delle imprese Usa ha mantenuto la posizione di principale cliente delle imprese basate in Ue-28, e che anzi l’ha rafforzata.
In questo caso notiamo che ad un periodo di sostanziale stabilità dei valori delle esportazioni Ue-28 verso la Cina che si protrae fino al quarto trimestre 2016, segue un periodo di crescita per le esportazioni, il cui valore aumenta dai 47 miliardi di Euro del quarto trimestre 2016 a 57 miliardi di Euro del quarto trimestre 2019. Le esportazioni Ue-28 verso gli Usa seguono, invece, un percorso di crescita moderata già tra 2011 e 2014, mentre dal 2014 si osserva un rapido aumento. Non solo: sembra che nel periodo in cui le esportazioni verso Usa e Cina aumentano, le esportazioni verso Usa aumentano ad un tasso maggiore.
Figura 5, ancora dedicata alle esportazioni Ue-28, ci dice quanto valgono in ogni trimestre le esportazioni Ue-28 verso gli Usa per ogni Euro di esportazioni verso la Cina. L’indicatore ha una stabilità minore rispetto al medesimo indicatore rappresentato per le importazioni in Figura 3: tra 2011 e 2014, le esportazioni verso gli Usa sono circa il doppio delle esportazioni verso la Cina; tra 2015 e il secondo trimestre 2016, le esportazioni verso gli Usa aumentano ad un tasso superiore a quello delle esportazioni verso la Cina. Questo tasso rappresenta il fatto che per 10 miliardi di Euro esportati verso la Cina, l’Ue-28 ne esporta 22,7 verso gli Usa; dal terzo trimestre 2016 fino a fine 2017, le esportazioni verso la Cina aumentano più di quanto avvenga per le esportazioni verso gli Usa; infine, dal primo trimestre 2018, le esportazioni verso gli Usa tornano a crescere più delle esportazioni verso la Cina. È possibile che dal 2017, le esportazioni dell’Unione Europea verso gli Usa siano aumentate anche a causa della guerra commerciale con la Cina che ha determinato una diversificazione dei paesi di origine delle importazioni statunitensi.
Figura 6 e Figura 7 sono gli ultimi grafici a rappresentare il commercio totale bilaterale Ue-28 – Cina e Ue-28 – Usa. Figura 6 mostra la sostanziale stabilità delle esportazioni nette dell’Ue-28 fino al 2014: il surplus commerciale verso gli Usa e di deficit commerciale verso la Cina fino al 2014 e, successivamente, l’ampliamento sia del surplus sia del deficit. In altre parole, dal 2014, l’Ue-28 è diventa sempre più creditrice nei confronti degli Usa, in particolare dal 2017, e sempre più debitrice nei confronti della Cina.
Figura 7, come Figura 3 e Figura 5, mostra l’indice di attrazione commerciale a partire dal volume delle esportazioni nette. L’indice mostra chiaramente quanto osservato in precedenza: all’ampliamento del surplus commerciale verso gli Usa va di pari passo un ampliamento del deficit commerciale verso la Cina. Non solo: questo effetto si intensifica da inizio 2014.
3. Indicatori basati sui flussi commerciali bilaterali di semilavorati e prodotti intermedi
Gli indicatori che abbiamo utilizzato fino ad ora sono costruiti a partire dai flussi commerciali complessivi. Esiste, tuttavia, la possibilità di stimare la forza di attrazione tra poli ricorrendo all’andamento dei flussi non di tutte le merci, ma soltanto di quelle che vengono scambiate internazionalmente in quanto inputs da processi produttivi localizzati altrove. Per chiarire questo punto è utile introdurre la distinzione tra esportazioni (o importazioni) totali e esportazioni (o importazioni) di semilavorati e beni intermedi. I flussi di scambio di questi ultimi sono un indicatore potente del grado di integrazione tra i processi produttivi che hanno luogo in paesi diversi. Ci son voluti molti anni perché le istituzioni internazionali prendessero coscienza dell’importanza di questi flussi e della loro rilevanza sistemica per quasi tutti i paesi. Questo è quanto Figura 8 mette in risalto: per la grande maggioranza dei paesi del G20, più della metà degli scambi commerciali riguardano beni intermedi.
Figura 9, invece, mette in risalto i partner commerciali principali dell’Unione europea nello scambio di beni intermedi. Usa e Cina sono i principali paesi con cui Ue è integrata dal punto di vista delle catene globali di produzione: insieme ricevono circa il 32% del totale dei beni intermedi esportati dall’Unione europea ed esportano circa il 30% del totale dei beni intermedi domandati dall’Unione europea. Dalla Figura 9, sembra possibile anche affermare che gli Usa siano più rilevanti della Cina per quanto riguarda il coinvolgimento delle imprese dell’Unione europea nelle catene globali di produzione.
Conclusioni
Da oltre 3 anni, stiamo assistendo all’implementazione della strategia protezionistica Make America Great Again (MAGA) da parte dell’amministrazione Trump, mentre la Cina ha lanciato nel 2013 il progetto Belt & Road Initiative (BRI). Le strategie commerciali dei due Governi sono chiaramente in contrapposizione. L’obiettivo di questo articolo è stato analizzare se le differenti strategie commerciali abbiano avuto degli effetti sugli scambi bilaterali dell’Unione europea e se, quindi, la nostra economia sia più attratta verso un polo o l’altro o mostri segni di indipendenza dalle politiche adottate da ciascuno dei due poli. La conclusione ‘forte’ a cui siamo arrivati è che l’Unione europea è esportatore netto verso gli Stati uniti e importatore netto dalla Cina; e che negli ultimi tre anni non si notato variazioni rilevanti rispetto a questo comportamento derivante dalle due strategie commerciali. Peraltro, mutamenti nei flussi di traffico aggregati dovuti a politiche commerciali sono probabilmente rilevabili soltanto nell’arco di alcuni decenni.
Queste riflessioni ci sembrano tanto più rilevanti nel momento in cui l’Organizzazione Mondiale del Commercio stima che nel 2020 il volume globale degli scambi potrebbe crollare tra il 13% e il 32%, il che avrà importanti effetti sulle modalità con cui la globalizzazione si manifesterà nei prossimi mesi ed anni. La forma moderna dominante di integrazione economica è quella guidata dalle catene globali di produzione, emerse dagli anni ottanta, e da politiche di libero scambio internazionale. Questa forma è stata ed è decisiva nel determinare aumenti di produttività delle imprese: nel lungo periodo, la capacità di un paese di migliorare il proprio standard di vita dipende quasi interamente dalla propria capacità di aumentare la produttività totale dei fattori [2]. L’adozione di una strategia commerciale che favorisca la crescita degli scambi è decisiva sia per ampliare la domanda di merci sia per aumentare la produttività delle imprese [3]. Questa riflessione è utile a suggerire che le imprese dell’Unione europea potrebbero essere più attratte, a parità di altre condizioni, da una strategia commerciale aperta a rafforzare i processi di globalizzazione e che sia attenta alla cooperazione internazionale quando shock simmetrici, globali e di molteplice natura, colpiscono più paesi contemporaneamente.
[1] In questo contesto è irrilevante che l’utilizzatore finale sia un consumatore o un produttore.
[2] Per approfondire si può fare riferimento al libro di Krugman, P. (1997), The Age of Diminished Expectations: U.S. Economic Policy in the 1990s. Mit Press. In questo articolo, non abbiamo l’intenzione di presentare come siano stati distribuiti i benefici derivanti dall’aumento di produttività tra diversi fattori produttivi di ciascun paese.
[3] Per il lettore interessato ad approfondire questo tema suggeriamo i seguenti paper: Melitz, M. J. (2003, November), The Impact of Trade on Intra-Industry Reallocations and Aggregate Industry Productivity. Econometrica, 71(6), 1695-1725; Melitz, M. J. & Ottaviano, G. I. (2008), Market Size, Trade, and Productivity. Review of Economic Studies, 75, 295-316; Melitz, M. J. & Redding, S. J. (2012), Heterogeneous Firms and Trade. NBER Working Paper No. 18652.
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