Ma le disruption della supply chain!? E lo shortage?? Si, però le auto usate… C’è davvero il rischio di inflazione al consumo?

Avvertenza

Da qualche settimana stiamo provando a scrivere sulla situazione presente della dinamica dei prezzi e le aspettative sulla stessa, ma troviamo grande difficoltà a sintetizzare un dibattito che spazia dagli effetti di supposte strozzature nelle catene di fornitura, alle supposte implicazioni della politica fiscale del governo Biden, alla combinazione tra le due. Qui cerchiamo di iniziare a sistematizzare e semplificare le posizioni espresse sulla stampa periodica ma anche da professionisti ed economisti in versione accademica e non.

Premessa

Negli anni della Grande Recessione, convenzionalmente 2007-2009 negli Usa e 2008-2012 in Europa, una delle grandi preoccupazioni di una parte di economisti e di gran parte della stampa era che gli stimoli monetari e fiscali adottati, dove lo furono, per contrastare la recessione, avrebbero prodotto inflazione. Come si sa, non solo ciò non è avvenuto, ma mentre le banche centrali statunitense (dal 2008 al 2014) ed europea (dal 2012 al 2019) adottavano misure di espansione monetaria mai viste prima per intensità e durata, il tasso di inflazione continuava a cadere, e raggiungere (da sotto) il famoso 2% annuo è stato impossibile. Veniamo, dunque, da un periodo di oltre dieci anni ‘senza inflazione’. 

La crisi economica da pandemia da SARS-CoV-2 ha inizialmente determinato uno shock di offerta e, al contempo, di domanda. Noi abbiamo provato a stilizzare, forse ancor più che modellare, la probabile dinamica conseguente allo shock iniziale, concentrandoci in prima battuta sulla natura degli shocks e sui loro effetti sul prodotto interno lordo globale; in seguito abbiamo proposto alcune riflessioni sulle misure che sarebbe stato necessario adottare da parte delle Banche Centrali ma anche di alcuni Governi, misure che sarebbero state fortemente espansive; infine, e più recentemente, abbiamo prodotto alcune riflessioni circa la probabilità che le suddette politiche espansive possano attivare processi di crescita rilevante dei prezzi in Europa. Nel giro di un anno siamo dunque passati dalla preoccupazione profonda per la domanda e il livello dell’attività produttiva a quella, per noi meno impellente, per l’emergere di possibili spinte inflazionistiche. Il tutto, non dimentichiamolo, in un quadro che abbiamo fatto nostro e definito di stagnazione secolare.

Dal nostro ultimo intervento nel febbraio scorso, l’attenzione pubblica verso l’inflazione è diventata prima preoccupazione e poi parossismo. Mentre scriviamo, a maggio 2021, ci ritroviamo a doverci occupare di inflazione la quale, nel frattempo, è diventata un fenomeno dalle molteplici cause. Spingono l’immagine del rischio di processi inflazionistici devastanti e prossimi, se non impellenti, le case di investimento, le quali nello loro brochure e nei loro podcast identificano svariate cause concomitanti e almeno in parte ortogonali tra loro; ma altrettanto fanno, seppur con maggior cautela e minor grancassa, responsabili della produzione e degli approvvigionamenti, nonché qualche macroeconomista di gran livello. Queste ‘ragioni’ generalmente portate a sostegno della tesi inflazionistica possono essere significativamente suddivise in ‘politiche’ ed ‘economiche’. Definiamo ragioni politiche quelle additate da chi ritiene, essenzialmente, che l’inflazione sia, in base alla ben nota profezia, “sempre e comunque un fenomeno monetario”, anche nel caso in cui le espansioni monetarie siano adottate per ‘accomodare’ aumenti di debito pubblico. Quindi ricadono in questa categoria di cause dell’inflazione:

  1. I piani fiscali espansivi del Governo federale Usa, tanto quello già approvato dal Congresso quale il CARES Act che i piani di spesa attualmente allo studio ma mirati all’investimento pubblico più che al relief in senso stretto: American Rescue Plan (1.900 miliardi di $), diventato legge in marzo 2021, American Job Plan (2.250 miliardi di dollari) e American Families Plan (1.800 miliardi di dollari);
  2. Il Piano Next Generation EU, già deliberato in Europa e in via di progressiva adozione e annunciato in partenza già dal 2021; 
  3. Le espansioni monetarie adottate come scelta politica da tutte le maggiori banche centrali, in primo luogo quella Usa, per sostenere la ripresa economica.

Ricadono invece tra le cause economiche dell’inflazione quelle che venivano considerate tali prima della ossessione monetarista e che venivano definite cost-push e demand-pull. Nella discussione attuale sono cost-push avvenimenti quali:

  1. La regionalizzazione delle catene globali di produzione e, dunque, la rinuncia da parte delle imprese a trarre vantaggio, come han fatto per decenni, dall’appartenenza a catene globali di produzione
  2. L’interruzione di catene di approvvigionamento dovuta alla carenza di offerta di componenti, tra le quali è largamente noto il caso dei microchip
  3. Le difficoltà della rete logistica internazionale a tenere testa alla ripresa del traffico indotta dalla ripresa della domanda globale e quindi della produzione. 

Sono tutti fenomeni, questi, di cui soltanto i professionisti si occupavano fino a pochi mesi fa, ma che oggi sono diventati pan quotidiano dell’uomo della strada. Da notare che manca, tra le cause cost-push sopra riportate, il costo del lavoro, che pure nel dibattito storico sull’inflazione ha sempre avuto un’importanza primaria. Un fatto da non trascurare, questa assenza del costo del lavoro tra le cause dell’inflazione al consumo, che riprenderemo in seguito.

Infine, sono demand-pull quelle spinte all’aumento dei prezzi che derivano dal fatto che la domanda di merci e servizi cresce più rapidamente della loro offerta:

  1. Nella situazione presente, chi pensa a questo fattore inflazionistico ha in mente la ‘gran mole’ di risparmi accumulati dai consumatori benestanti durante la pandemia, risparmi che potrebbero, si dice, essere spesi in tempi rapidissimi quando la pandemia sarà ‘sotto controllo’. 

Ciò che rende la situazione presente difficile da analizzare è la molteplicità di ipotesi sul tappeto. Presa a valore facciale, già solo questa complessità induce gran parte degli osservatori a ritenere la spinta inflazionistica assai probabile: in fondo, se ci sono tante cause possibili, una se ne dovrà pur verificare, no?

Il nostro obiettivo è contribuire al dibattito sul rischio inflazione attraverso una serie di articoli da pubblicare in questa sede. Oggi, vorremmo avviare una discussione cominciando con l’esplicitare il quesito che preoccupa una parte importante di chi si occupa del tema, ed è questo: la crescita dei prezzi delle materie prime e delle commodities può innescare un fenomeno inflattivo dei prezzi al consumo?

1. La terminologia alla base delle nostre riflessioni

Nella letteratura consolidata altro è un aumento dei prezzi, altro è un processo inflazionistico. L’aumento dei prezzi è uncambiamento del livello dei prezzi: il prezzo al tempo t+1 è maggiore del prezzo al tempo t. Punto, fine della storia. Questa non è inflazione. Definiamo inflazione l’aumento generalizzato e sostenuto del prezzo di almeno gran parte, se non tutti, le merci e i servizi prodotti nell’economia, il che si traduce in aumento sostenuto del livello generale dei prezzi. Sinteticamente: pt< pt+1 < pt+2 < pt+3.

L’inflazione è quindi misurata da una variazione sostenuta del livello medio generale dei prezzi; l’inflazione al consumo sarà il tasso di crescita del prezzo di un paniere di beni di consumo di riferimento per il paese oggetto della misurazione; similarmente si misura l’inflazione dei prezzi alla produzione. .Si noti già ora introduciamo l’attenzione all’area economica, il paese, di cui si vuole misurare livello dei prezzi e inflazione: ciò per enfatizzare che può ben darsi che il fenomeno non sia necessariamente di origine interna, ma può essere ‘importato’.

Il problema oggi è dunque se un aumento dei prezzi degli input nel processo produttivo possa o meno innescare un processo inflattivo per i prezzi dei beni la consumo. Il lettore non ce ne vorrà se attiriamo nuovamente l’attenzione sulla asimmetria presente nel quesito: ci chiediamo se un aumento dei prezzi possa portare ad un processo inflazionistico, non se un processo inflazionistico possa portare ad un altro processo inflazionistico. L’importanza della distinzione emergerà con chiarezza nel prosieguo.

2. Il punto di vista della produzione

La prima, e più popolare tra chi si occupa di produzione e di approvvigionamenti, rappresentazione del rapporto tra prezzi degli inputs e prezzi dei prodotti, manufatti o meno, è rappresentabile ipotizzando una struttura del tipo:

dove:

  • Pi,t: prezzo della merce i nel periodo t; 
  • w: costo del lavoro, in valuta nazionale, nell’unità di tempo;
  • a: produttività del lavoro, in unità di prodotto per unità di lavoro nell’unità di tempo;
  • m: quantità di beni in input alla produzione importati per produrre un’unità del prodotto;
  • P*t-1: prezzo in valuta estera di un’unità di input alla produzione importati;
  • s: prezzo in valuta nazionale di spedizione e trasporto delle unità dei beni input della produzione (m);
  • e: tasso di cambio nominale bilaterale;
  • z: margine di profitto.

Essendo un’ipotesi sulla struttura di prezzi, questa formulazione rappresenta per sua natura una semplificazione della complessità della struttura produttiva delle imprese. Si può anche notare che la struttura è ipotizzata più per il settore industriale e non per il settore dei servizi.

Nonostante queste semplificazioni, questa struttura ci permette di:

  1. Distinguere tra costi di produzione e costi di logistica in ingresso
  2. Distinguere tra prezzi alla produzione e prezzi al consumo: il margine (z) è una scelta dell’impresa che produce il bene i-esimo e, quindi, sarà l’impresa a decidere se e quanto traferire ai consumatori dell’eventuale aumento dei prezzi alla produzione
  3. Introdurre produttività e costo del lavoro come fattori cost-push dell’inflazione
  4. Introdurre il prezzo delle importazioni di input dall’estero e il tasso di cambio, e quindi la possibilità di importarel’inflazione dall’estero nel caso in cui l’impresa faccia uso di input importati e pagati in valuta estera.

Il punto di maggiore interesse che è ora possibile fare con chiarezza è già stato anticipato: un processo inflazionistico dei prezzi al consumo può essere innescato da un aumento del prezzo delle materie prime, ma si sostiene, cioè diventa un processo inflazionistico vero e proprio, solo nella misura in cui il prezzo delle materie prime continua a crescere. Ciò, ovviamente, assumendo che le altre variabili di costo siano esogene rispetto al prezzo delle materie prime e dei semilavorati, e che l’impresa non manipoli il tasso di profitto per sfruttare il proprio potere di mercato e per le proprie strategie di prezzo. Detto altrimenti: un aumento del prezzo delle materie prime innesca un aumento dei prezzi al consumo? Nel modello dato, si, con un periodo di ritardo. Ma un aumento dei prezzi delle materie prime innesca un processo inflazionistico sul mercato dei beni al consumo via i prezzi alla produzione? Si, ma solo se l’aumento del prezzo delle materie prime è ripetuto per più periodi.

Grazie ad una semplice equazione del mark-up abbiamo dunque imparato che:

  1. Per poter dire se l’aumento del prezzo delle materie prime innescherà un processo di inflazione dei prezzi al consumo, occorre sapere se l’aumento del prezzo delle materie prima sia esso stesso in un ciclo inflazionistico. Noi ci attendiamo quindi con altissima probabilità (‘certezza’ è parola molto impegnativa) un aumento dei prezzi al consumo diciamo nei prossimi mesi;
  2. Ma l’aumento in corso del prezzo delle materie prime non ha origini strutturali, e non vediamo quindi ragioni per cui le condizioni strutturali dell’offerta possano determinare un eccesso di domanda: la pandemia non ha prodotto, direttamente o indirettamente, distruzione di capacità produttiva nel settore delle commodities; i costi di produzione ed estrazione non sono aumentati;
  3. Si sono certamente verificati, invece, molti avvenimenti che hanno messo in difficoltà il sistema della logistica globale: il primario tra questi è forse la difficoltà delle compagnie di trasporto, marittimo in particolare, ad assicurare l’avvicendamento del personale di bordo; ad accedere ai porti di attracco, negati a lungo dalle autorità di quasi tutti i paesi per timore di ‘importare’ pandemia; e ad assicurare quindi il rispetto delle coincidenze tra i diversi vettori sulle diverse rotte. Noi riteniamo che tutte queste difficoltà si riveleranno temporanee e, pur avendo certamente costituito un fattore di spinta all’aumento dei prezzi di produzione, non si riprodurranno sistematicamente nel futuro prossimo. Maersk, il più grande vettore di trasporto di container al mondo, prevede un calo graduale delle tariffe di trasporto marittimo dal livelli quasi record, che si normalizzeranno ad un livello comunque maggiore rispetto a quelli del 2019 (slide 16 della presentazione dell’Amministratore delegato di Maersk agli investitori presenta la previsione di Maersk sull’andamento delle tariffe di trasporto marittimo);
  4. Esiste, infine, la tesi secondo cui l’aumento dei prezzi delle materie prime è dovuto all’eccesso di domanda che si sta creando a causa dell’aumento della domanda sui mercato dei beni al consumo. Date le difficoltà della logistica internazionale suddette, si sostiene, i prezzi delle materie prime non possono che registrare questo eccesso di domanda. Possibile, diciamo noi, anzi, altamente probabile. Ma a chi sostiene che questo è l’inizio di un processo inflazionistico, noi opponiamo lo scetticismo derivante dalle considerazioni sub 1, 2, 3 in questo sommario conclusivo. E anche un articolo pubblicato da Bloomberg il 19 maggio scorso, cita cali recenti dei prezzi di alcune materie prime quali petrolio, soia e rame, che mettono in dubbio l’eccesso sostenuto della domanda.

A mò di conclusione 

Con questo articolo abbiamo voluto avviare un tentativo di sistematizzare alcuni ‘fatti’ che possano mettere in guardia contro la necessità in cui presto potrebbero trovarsi FED o la BCE di dover alzare sistematicamente i tassi di interesse a lungo per abbattere, appunto, l’inflazione che alcuni annunciano elevata e di lunga durata. Rientra nell’analisi di questo rischio quanto argomentato in questo pezzo: l’aumento del prezzo delle materie prime non sarà sostenuto,  e per questo motivo non determinerà un aumento generalizzato e sostenuto del livello generale dei prezzi, ossia inflazione. Questa è anche la posizione di Philip Lane, membro del Comitato esecutivo della Banca Centrale Europea citata in un articolo del Financial Times del 20 maggio: “Ci sono carenze, ad esempio nei semiconduttori, e ci sono vincoli in alcune rotte marittime e, naturalmente, quando si ha un collo di bottiglia non pianificato ci sarà una certa azione sui prezzi, ma questa non è inflazione.” (Traduzione nostra). 

2 thoughts on “Ma le disruption della supply chain!? E lo shortage?? Si, però le auto usate… C’è davvero il rischio di inflazione al consumo?

  1. Ottimo spunto come sempre. La formula non ha “memoria”, mi preoccupa la “viscosità” dei prezzi. Se i costi logistici e delle materie prime torneranno al livello del 2019, non sono certo che i prezzi rifletteranno questo decremento. Mi aspetto più: prezzo(2019) < prezzo (x) < prezzo (2021). Ci sono studi a riguardo?

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  2. Difficile che ci sia un effettivo eccesso di domanda, può esserci in alcuni settori, ma non penso possa essere generale, specialmente in USA e Europa.

    Le politiche economiche e monateria si sono basate sui sussidi e non sulla creazione di occupazione e le incertezze legate al lavore deprimeranno sempre più la domanda.
    Inoltre se dovessero passare leggi per facilitare il rientro dai debiti, probabilmente ci sarà un crollo del settore immobiliare con un ulteriore depressione della ricchezza e dei salari.

    Quindi potrà esserci una inflazione temporanea, ma poi la riduzione della domanda deprimerà ulteriormente i prezzi.

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