Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com
Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it
22 02 09
Il titolo di questo articolo riflette i termini del dibattito che ha tenuto banco tra gli economisti macro accademici, commentatori e giornalisti per tutto il 2021 e in questo inizio del 2022. Il punto più alto di questo dibattito è il secondo confronto sulle origini dell’inflazione Usa tra Paul Krugman e Lawrence Summers, tenutosi il 21 gennaio scorso. Il confronto va seguito perché, oltre ad essere ovviamente interessante, ha dato forte rilevanza alla modellazione teorica delle cause l’inflazione come condizione necessaria per la formulazione di politiche economiche adeguate. La registrazione dell’incontro è a questo link.
La genesi di tale dibattito, incluso il confronto tra Krugman e Summers è, ovviamente, la feroce, per quanto tutto sommato breve, recessione[1] indotta dallo shock sanitario che a partire dalla fine del 2019-inizio 2020 ha colpito le economie di tutto il mondo. La caratteristica principale dello shock sanitario fu l’aver colpito l’economia più o meno simultaneamente dal lato dell’offerta e da quello della domanda: dal lato dell’offerta perché, pur non avendo distrutto capacità produttiva come avviene in caso di guerra, ha reso inutilizzabili impianti produttivi a causa della necessità di isolamento dei lavoratori; e dal lato della domanda, perché quei lavoratori si sono trovati per periodi prolungati con redditi ridotti e, inoltre, aumentarono la propria propensione a risparmiare in vista di una durata incerta del periodo di inattività.[2]
La ragione per cui qualunque ragionamento sugli effetti della pandemia, inclusi quelli sull’inflazione che ne è derivata, deve partire da questa considerazione, cioè dal fatto che lo shock sanitario ha colpito, e continua a colpire, la capacità produttiva, e ha modificato il profilo temporale e la composizione merceologica della spesa per consumi, sta nel fatto che i due impatti negativi si sono auto-rafforzati, intrecciati, alimentati a vicenda in maniera asincrona, ripercuotendosi l’uno sull’altro nel tempo e nello spazio della globalizzazione delle catene di produzione e della logistica.[3]
L’enfasi che stiamo mettendo sul concatenarsi delle difficoltà dell’offerta e della domanda aiuta a capire che la ripresa non può che essere difficile, ostacolata ora da un lato e ora dall’altro, con caratteri caotici che non possono essere sottovalutati: si pensi, a scopo illustrativo, alla successione assenteismo in aumento nelle imprese a causa degli isolamenti-difficoltà a produrre-dipendenti in cassa integrazione-imprese a valle in carenza di prodotti intermedi e conseguente loro difficoltà a rifornire clienti-imprese e clienti finali. In questo modello, il controllo dei contagi è la variabile cruciale per la stabilizzazione della ripresa, ma questo non sta avvenendo. Ne consegue che le difficoltà delle imprese permangono, quelle dei piccoli distributori crescono, quelle delle imprese della logistica si moltiplicano.
Ma le difficoltà dal lato delle quantità possono generare mostri sul fronte dei prezzi. Sinteticamente, per vedere come le difficoltà produttive e distributive si possono tradurre in spinte inflazionistiche, sono concepibili due scenari, uno in cui le imprese posseggono potere di mercato, ed uno in cui le condizioni della concorrenza prevalgono in tutti i mercati. Nel primo caso, le imprese che si trovano di fronte ad aumenti dei costi degli input possono aumentare i prezzi dei propri prodotti senza eccessive preoccupazioni per gli effetti sul fatturato, anzi: se l’elasticità della domanda di quei prodotti è inferiore ad uno, il fatturato aumenterà all’aumentare del prezzo. Se, invece, l’impresa opera in un mercato in cui l’elasticità della domanda è superiore ad uno, e non esistono barriere all’ingresso di nuove imprese su quel mercato o impedimenti normativi, allora aumenti dei prezzi verranno adottati con assai maggior cautela ma, alla fine, verranno comunque adottati in un processo in cui il comportamento rialzista di un’impresa apre la strada a comportamenti rialzisti di tutte le altre. In breve, il potere di mercato delle imprese determina la velocità della crescita dei prezzi, ma il processo inflazionistico c’è: e in assenza di spinte salariali, che in Unione Economica e Monetaria non si stanno ancora realizzando, l’aumento dei prezzi va tutto a favore dei profitti aziendali.
Il lato dell’offerta
Chiarito questo, occorre chiedersi ora se l’aumento dei costi che stiamo ipotizzando sia temporaneo o permanente. Un aumento dei costi, ad esempio delle materie prime, temporaneo, si traduce per le imprese a valle in un aumento di costi permanente, poiché è difficile ipotizzare una discesa significativa dei prezzi una volta che questa siano stati aumentati. È utile una distinzione netta tra aumento una volta per tutte, e aumento permanente anche se a tassi decrescenti nel tempo. Un aumento una volta per tutte è rappresentabile come uno scalino nel livello dei prezzi, i quali passano da P0 a P1 > P0 e restano poi al nuovo livello P1. In questo caso si può parlare di inflazione al tempo t1, ma non più da lì in avanti. I prezzi sono saliti una volta per tutte, ma la loro crescita da t1 in avanti è zero. Questo andamento dei prezzi non presenta elementi di preoccupazione per una ragione fondamentale: esso non innesca un processo reiterato per cui il prezzo P1 continua ad aumentare, dal momento che non è stato innescato un meccanismo endogeno all’economia che potrebbe richiedere, forse, un intervento delle autorità di politica economica.
Diverso è il caso di un aumento del prezzo delle materie prime ripetuto nel tempo. In questo caso si osserva una serie P0<P1<P2<P3. Non è rilevante in questo momento sapere se gli aumenti sono decisi esogenamente dai produttori periodo dopo periodo, o se l’aumento iniziale abbia messo in moto un meccanismo endogeno di aumento. Un esempio plausibile di questa ultima situazione sarebbe quello di un aumento del prezzo del minerale metallifero, che induce un aumento dei costi di produzione dell’acciaio e quindi un aumento del prezzo dell’acciaio, il quale a sua volta costituisce un aumento di costo per l’industria di estrazione di fossili. Come si vede, un processo inflazionistico tutto interno al settore delle materie prime, che prima o poi arriverà ai beni di consumo. Anche in questo caso, abbiamo crescita dei prezzi senza che sia entrata in gioco una crescita del costo del lavoro.
La conclusione che sembra di poter trarre da questa breve analisi è che l’inflazione che stiamo osservando ha sicuramente una componente da scarsità di offerta: escluso fino ad ora, certamente in Europa, un contributo da parte della crescita dei salari, si può dire che almeno una parte dell’inflazione osservata è da ricondurre alla tipologia cost push. Non si tratta di una puntualizzazione puramente accademica: che occorrano due mesi o due anni, mano a mano che queste cause dal lato dell’offerta verranno meno, la spinta sui prezzi si affievolirà. È praticamente certo che essi non torneranno indietro, ma è plausibile prevedere un tasso di crescita di lungo periodo tendente a zero.
Il lato della domanda
Per usare un riferimento esplicito alla politica monetaria: la BCE ha a lungo ritenuto che questa componente dell’aumento dei prezzi fosse prevalente rispetto alla componente dovuta all’aumento della domanda (non è utile discutere in questo punto le cause dell’aumento della domanda), e che dunque non sarebbero stati necessari interventi di politica monetaria restrittiva volti a reprimere la domanda e di conseguenza, si sostiene, l’inflazione. Nella conferenza stampa del 3 febbraio scorso, il Consiglio direttivo della BCE ascrive l’aumento dell’inflazione principalmente a fattori cost push: “Le quotazioni dell’energia continuano a rappresentare la principale determinante dell’elevato tasso di inflazione. Il loro impatto diretto ha inciso per oltre la metà sull’inflazione complessiva a gennaio e inoltre i costi energetici sospingono al rialzo i prezzi in molti settori. Anche i prezzi dei beni alimentari sono aumentati, per effetto di fattori stagionali, degli elevati costi di trasporto e del rincaro dei fertilizzanti. In aggiunta, gli incrementi dei prezzi sono diventati più diffusi, a fronte dei marcati rincari di numerosi beni e servizi. Le misure dell’inflazione di fondo sono in gran parte aumentate negli ultimi mesi, sebbene il ruolo dei fattori temporanei connessi alla pandemia implichi che la persistenza di tali aumenti resti incerta. Gli indicatori ricavati dal mercato suggeriscono una moderazione delle quotazioni dell’energia nel corso del 2022 e anche le pressioni sui prezzi derivanti dalle strozzature dal lato dell’offerta a livello mondiale dovrebbero attenuarsi. Le condizioni del mercato del lavoro stanno migliorando ulteriormente, benché la dinamica salariale resti nel complesso moderata.”. (Enfasi di DL e FS).
Ora, sostenere che per contenere l’inflazione sia necessario ricorrere ad una politica monetaria restrittiva, implica la convinzione che la componente demand push della spinta inflazionistica sia, se non prevalente, presente e importante. Secondo questa analisi la domanda non tende a contrarsi autonomamente, così che occorre produrre una recessione perché ciò avvenga e il gap con l’offerta si riduca gradualmente a zero o giù di lì. Nella narrativa di chi sostiene che la componente da domanda dell’inflazione sia importante e, forse, dominante, tale gap che sarebbe stato aperto dagli stimoli ai bilanci delle famiglie e dai sussidi statali alle imprese, particolarmente negli Usa ma anche in Uem. Questi provvedimenti avrebbero prodotto aumenti di domanda di beni di consumo e di investimento che non potevano, e non possono, essere soddisfatti dalla struttura produttiva, limitata dalle difficoltà conseguenti alla pandemia: come abbiamo già menzionato, chiusura di linee di produzione per lockdown o per isolamento volontario concordato tra lavoratori e imprese e, il che appare sempre più rilevante, una contrazione dell’offerta di lavoro; difficoltà delle linee di approvvigionamento dovute alle difficoltà della logistica, trovatasi a dover affrontare un aumento della domanda di merci quando per molti anni era stata la domanda di servizi ad aumentare e al contempo una difficoltà a trovare il personale di bordo necessario. Per tornare alle decisioni di politica monetaria della BCE, il comitato esecutivo del 3 febbraio non ha preso misure restrittive sui tassi di interesse chiave per il sistema, ma il linguaggio adottato fa prevedere che nella riunione di marzo la situazione verrà nuovamente valutata. Noi leggiamo tra le righe del comunicato, e dalle dichiarazioni di Lagarde in conferenza stampa, che la probabilità di una stretta monetaria è ormai sul tavolo per il prossimo incontro del consiglio generale BCE di marzo.
Conclusione
La nostra valutazione è che i tassi attuali di crescita dei prezzi al consumo riflettano sia spinte dal lato dell’offerta che spinte dal lato della domanda. Riteniamo che le spinte dal lato dell’offerta verranno gradualmente affievolendosi nel corso del 2022, mentre quelle dal lato della domanda permarranno più a lungo, fino a che cioè la scelta recessiva delle banche centrali non comincerà a farsi sentire sulle spese per consumi e investimenti. Pensiamo si possa plausibilmente sostenere che avremo livelli di inflazione contenuti ma per un periodo più lungo, anche se decrescenti, della durata di uno o due anni: crediamo che quelli attuali siano valori di picco, destinati a scendere.
Tutto ciò, ovviamente, fino a che i produttori a reddito fisso, salariati e pensionati in primo luogo, saranno disposti a sostenere il costo dell’inflazione e della recessione simultaneamente.
[1] Le caratteristiche della recessione, e della successiva ripresa, sono state ben documentate dal Fondo monetario internazionale in lavori liberamente disponibili all’indirizzo https://www.imf.org
[2] Ovviamente la domanda è diminuita per una quantità di altre ragioni, prima tra tutte i distanziamenti obbligatori e volontari, ma questo non è un punto che discutere qui aiuterebbe a comprendere la complessità della crisi.
[3] Il nocciolo di questo modello, o ‘modo di pensare’, risale ad un articolo del marzo 2020 con Daniele Langiu.
Gentile Prof Sdogati, per quanto senza titoli accademici – volevo studiare economia ma, per vari motivi ho studiato ingegneria civile – sono appassionato di economia.
Sono profondamente convinto che l’attuale inflazione è frutto di una certa trascuratezza, nel periodo pandemico, nel mantenere alte le scorte. Ciò, con le riprese a singhiozzo, ha generato vuoti di offerta colmati irrazionalmente con frettolosi aumenti dei prezzi, che tuttora si ripercuotono sui mercati, e si ripercuoteranno ancora come oscillazioni che tendono a smorzarsi. Purtroppo ne avremo ancora per, forse, due anni. I governi, distribuendo aiuti a pioggia, hanno dimenticato i costi per mantenere alte le scorte strategiche di materie prime e semilavorati.
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