Competitività delle imprese tra politiche protezionistiche, Covid-19, catene globali di produzione

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it

“Foreman says these jobs are going boys

and they ain’t coming back to your hometown”

Bruce Springsteen, My Hometown, November 21, 1985

Introduzione

Da alcuni anni si è venuto diffondendo l’uso del termine reshoring. Una scorsa veloce alla ricerca del significato del termine mostra che esso è il contrario di offshoring ed è da tradurre come rimpatrio. In questo lavoro, scritto in italiano, useremo il termine italiano. Il termine rimpatrio sembra essere riferito ad un evento precedente che, in italiano, è stato chiamato delocalizzazione. Ora, delocalizzazione a sua volta è termine vago: che cosa, esattamente, è stato delocalizzato? Si parla di imprese, spostate da qui a là, o si parla di segmenti di processi produttivi allocati ad imprese localizzate all’estero, acquisite in tutto o in parte? O si tratta di imprese locali che hanno trovato all’estero condizioni di fornitura più vantaggiose, e quindi hanno dato origine, o si sono aggregate a, catene globali di produzione, senza coinvolgimento proprietario? In altre parole, le forme della presunta delocalizzazione sono importanti per capire le forme che dovrebbe assumere il rimpatrio: perché altro è rimpatriare un’intera impresa, altro sostituire un fornitore estero con uno locale, in patria.

Di reshoring si parla moltissimo con riferimento alle politiche protezionistiche dell’amministrazione Trump. E si sente dire, specialmente dall’uomo della strada, che si tratterebbe di una politica intelligente perché ‘riporta a casa le imprese che hanno delocalizzato, con effetti benefici sulla produzione, sull’occupazione, e sul gettito fiscale’. Un tema, quindi, di politica economica.

Con questo lavoro vogliamo contribuire a rispondere ad un quesito che ci sembra prioritario trattare prima di qualunque discussione di politica economica: per quali ragioni un’impresa dovrebbe voler ribaltare la decisione precedentemente presa di coinvolgersi, in varie forme, in processi produttivi non limitati al territorio nazionale? Nel primo paragrafo mostriamo che il termine rimpatrio ha connotazioni e implicazioni diverse a seconda di quale sia stata la forma dell’espatrio; nel secondo abbozziamo l’analisi delle condizioni sotto le quali, in condizioni di mercato, cioè in assenza di sussidi, un’impresa che abbia internazionalizzato la propria produzione dovrebbe voler invertire la direzione e sostituire servizi e prodotti di origine estera con servizi e prodotti di origine nazionale. Ci occuperemo di rimpatrio delle attività produttive in quanto politica in un prossimo articolo.

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In che modo la guerra commerciale Usa-Cina ha contribuito a modificare gli scambi Usa-Unione europea e Usa-Italia?

20 05 24

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it

Premessa

Da alcuni mesi ed in una serie di articoli, ci stiamo occupando di commercio internazionale e del processo di disaccoppiamento commerciale tra Usa e Cina. È utile ricordare che il disaccoppiamento a cui siamo interessati è quello che passa per la dinamica del saldo commerciale bilaterale tra le esportazioni di due paesi di interesse. Quando le politiche tariffarie Usa sono di vastità e intensità del tipo di quelle che hanno caratterizzato questa ultima ondata 2017-2019, esse hanno un effetto sul saldo commerciale bilaterale con il paese contro cui i dazi sono stati imposti. L’evidenza che abbiamo costruito nei mesi passati mostra, come era prevedibile attendersi, che le politiche commerciali Usa abbiano contribuito a ridurre il deficit bilaterale Usa-Cina. A questo, tuttavia, abbiamo aggiunto che contemporaneamente gli Usa hanno aumentato le importazioni da altri paesi asiatici e dal Messico. Una motivazione che ci è sembrata ragionevole è che le imprese statunitensi stiano scegliendo di ridurre il rischio di centralizzare le proprie catene di approvvigionamento da imprese localizzate principalmente in un unico Paese.

È legittimo dunque chiedersi se dalla guerra commerciale tra Usa e Cina, l’Unione europea abbia tratto vantaggio; più precisamente: è possibile che il commercio bilaterale Usa-Ue sia aumentato nello stesso periodo in cui Usa e Cina hanno adottato politiche vicendevolmente protezionistiche?

Come hanno ben scritto Vanessa Gunnella e Lucia Quaglietti sul bollettino economico della Banca Centrale Europea (Issue 3/2019), tra le altre tesi esposte:

“In una controversia commerciale che coinvolge due paesi, i paesi terzi possono temporaneamente beneficiare del crescente protezionismo. In particolare, i paesi terzi possono guadagnare quote di mercato nei paesi in cui le tariffe sono aumentate. Ad esempio, in una controversia commerciale riguardante esclusivamente gli Stati Uniti e la Cina, i beni nell’area dell’euro guadagnerebbero competitività rispetto ai beni statunitensi in Cina e rispetto ai beni cinesi negli Stati Uniti. Ciò deriva dal fatto che tariffe più elevate rendono le merci statunitensi più costose in Cina e quelle cinesi più costose negli Stati Uniti, con flussi commerciali bilaterali tra i due che alla fine diminuiscono. La misura in cui i paesi terzi beneficiano di questa diversione commerciale dipende dalla facilità con cui un paese può sostituire i prodotti importati da diversi paesi. Una maggiore sostituibilità implica una maggiore diversione commerciale.” [Traduzione ed enfasi di DL e FS]

L’obiettivo di questo articolo è provare a rispondere a questa domanda a partire dai dati di commercio del primo trimestre degli 4 anni più recenti pubblicati da US Census Bureau. Da questi dati preliminari, cercheremo di trarre anche alcune considerazioni sul ruolo dell’Unione europea, perché non siano le scelte di altri paesi a determinare, indirettamente, la strategia dell’Unione.

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Commercio estero in un mondo tripolare

20 05 03

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it

Obiettivi e struttura

Negli ultimi mesi Daniele Langiu, Francesco Morello ed io siamo venuti lavorando ad una idea che potremmo riassumere così: è possibile sostenere che l’adozione dell’iniziativa politica Belt & Road da parte della Cina (2013) e poi la politica protezionistica nota come Make America Great Again adottata dall’Amministrazione Trump (2017) abbia generato un inizio di disaccoppiamento tra le economie cinese e nord-americana?

Sulla base dell’evidenza che siamo riusciti a raccogliere fine ad ora, non è irragionevole assumere che la risposta a entrambi i quesiti sia positiva, e poniamo il quesito ‘successivo’: l’Unione europea risente di questo processo? In chiaro: la nostra economia mostra segni di attrazione verso un polo o verso l’altro? O mostra segni di indipendenza dalle politiche adottate da ciascuno dei due poli?

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Alcune riflessioni sul rallentamento del commercio internazionale e sul commercio bilaterale Unione Europea-Cina e Italia-Cina

20 04 26

Daniele Langiu,  daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it

In un recente articolo (aprile 2020), abbiamo analizzato se lo shock sanitario dovuto al Covid-19 avesse ridotto ulteriormente le importazioni statunitensi dalla Cina e se avesse rafforzato il fenomeno di disaccoppiamento come descritto e documentato da Morello e Sdogati (gennaio 2020). Il disaccoppiamento a cui eravamo, e siamo tuttora interessati è quello che passa per la dinamica del saldo commerciale bilaterale tra le esportazioni dei due paesi di interesse. Nell’articolo di aprile abbiamo mostrato che, seppur non si possa stimare con precisione l’intensità degli effetti del Covid-19 sul processo di disaccoppiamento tra USA e Cina, sembra possibile confermare che esso stia contribuendo a far aumentare le importazioni da paesi “simili” alla Cina o che hanno stretto rapporti commerciali con gli Stati Uniti.

Le tensioni commerciali, già in atto durante 2018 e 2019, sembrano aver determinato un rallentamento del commercio di merci ben prima che gli effetti del Covid-19 venissero registrati (Figura 1).

Figura 1

Inoltre, l’Organizzazione Mondiale del Commercio stima che nel 2020 il volume degli scambi globale potrebbe crollare tra il 13% e il 32%.

L’obiettivo di questo articolo è verificare se anche il commercio bilaterale UE-Cina e il commercio bilaterale Italia-Cina stiano rallentando. Oltre a contribuire all’analisi di come stia cambiando il traffico commerciale italiano ed europeo con la Cina, questo articolo potrebbe fornire la base per spunti di riflessione sul ruolo delle strategie commerciali dei paesi nell’accelerare la ripresa economica.

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Perché l’attuale crisi sarà costosa, duratura, difficile da tenere sotto controllo. Interpretazione di uno shock di molteplice natura, globale e che colpisce ripetutamente

20 03 28

Daniele Langiu   daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati   fabio.sdogati@mip.polimi.it

In questo paper presentiamo un’interpretazione, o ‘un modello’, dell’attuale crisi. Speriamo di far luce sui meccanismi endogeni che stanno rendendo costosa la crisi sia in termini umanitari che economici, probabilmente di più lunga durata di quanto molti ancora immaginino, o sperano, e difficili da controllare in assenza di interventi estremi dalle autorità fiscali e monetarie di tutto il mondo rispetto a quelli storici, durante i periodi di pace. La nostra domanda è: cosa si può dire del percorso post-shock della crisi, dallo shock alla ripresa?

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Why the current crisis will be costly, long lasting, difficult to bring under control. Interpreting a multi-nature, multi-country, multi-hits shock

20 03 28

Daniele Langiu   daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati   fabio.sdogati@mip.polimi.it

 

In this paper we submit an interpretation, or ‘a model’, of the current crisis. We hope to shed some light on the endogenous mechanisms that are making the crisis costly both in humanitarian and economic terms, probably longer-lasting than many still imagine, or hope, and difficult to control in the absence of extreme intervention, as compared to historical, peace-time standards, by fiscal and monetary authorities the world over. Our question is: what can be said about the post-shock path of the crisis, from shock to recovery?

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Covid-19: Now More Than Ever, European Union

20 03 22

Daniele Langiu          daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati             sdogati@mip.polimi.it

[This is the English Version of our paper in Italian posted yesterday, March 21st]

Time passes at a horrible speed, in the conditions in which we live. While up to three weeks ago we had very little literature on the relationship between the pandemic and the outlook for economic activity, and no estimates for the size of the possible effects, now articles, forecasts, interviews, reports multiply by the hour, and it has become difficult to follow properly what it is written, or said. And the topic is always, or almost, that of economic forecasts.

In a piece of March 4, one of us wrote that, in the absence of data and reliable forecasts, it would be better to deal with the classification of the types of profile of the reaction of economic activity to the virus shock, and then start reasoning to sift through different hypotheses. At that time, reasons were advanced in support of a pessimistic view of the evolution of the crisis. Today we discuss the research conducted, or the positions expressed, by some economists who offer support for our hypothesis.

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Covid-19: Ora più che mai, Unione Europea

20 03 21

Daniele Langiu          daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati             sdogati@mip.polimi.it

Il tempo passa ad una velocità orrenda, nelle condizioni in cui viviamo. Mentre fino a tre settimane fa avevamo pochissima letteratura sul rapporto tra pandemia e prospettive dell’attività economica, e nessuna stima della dimensione dei possibili effetti, ora articoli, previsioni, interviste, rapporti si moltiplicano ogni ora, ed è diventato difficile seguire bene quel che viene scritto, o detto. E il tema è sempre, o quasi, quello delle previsioni economiche.

In un pezzo del 4 marzo, uno di noi scriveva che, in assenza di dati e di previsioni non cervellotiche, fosse meglio occuparsi della classificazione delle tipologie di profilo della reazione dell’attività economica allo shock da virus, e poi cominciare a produrre ragionamenti a supporto dell’una o dell’altra alternativa. In quella sede si avanzarono ragioni a sostegno di una visione pessimistica dell’evoluzione della crisi. Oggi discutiamo la ricerca o le posizioni espresse da alcuni economisti le quali offrono sostegno alla nostra ipotesi.

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COVID-19 E ATTIVITÀ PRODUTTIVA: COME SI USCIRÀ DA QUESTA CRISI?

20 03 04

Fabio Sdogati

Riesco a scrivere poco in questi giorni perché da un lato tanti mi chiedono, appunto, come se ne esce, e non posso non rispondere; e dall’altro perché la letteratura sul tema cresce in maniera esponenziale (come il numero di affetti dal Covid-19!) ed è faticoso leggere, capire, catalogare, archiviare. Provo a condividere alcune linee guida su come io penserei al problema, senza interpretarlo per ora nel senso di ‘con che strategie si esce da questa crisi?’

Interpreto dunque il quesito nel seguente senso: come si svilupperà questa crisi, in che tempi? Quale sarà il profilo temporale del ciclo economico post-shock? Sarà un profilo temporale ‘uguale per tutti’?  E la ripresa, la famosa ripresa, ci sarà, e sarà forte come la vorremmo?

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COVID-19 E ATTIVITÀ PRODUTTIVA: POCHI NUMERI, ALCUNE RIFLESSIONI

20 02 27 Fabio Sdogati sdogati@mip.polimi.it

Qualche settimana fa su LinkedIn sostenevo di avere l’impressione che non si stesse organizzando un ragionamento, una valutazione, una reazione, sul tema degli effetti potenziali del COVID-19 sull’attività economica. Il centro del mio interesse allora era l’impresa.

Oggi il tema è diverso: oggi il tema è quello del governo della crisi a livello macroeconomico. Se si preferisce, il quesito è: questa pandemia (i virologi, che sono una sessantina di milioni in questo paese, mi perdoneranno se uso il termine in maniera inappropriata) avrà effetti gravi, o gravissimi, sull’economia mondiale? Partendo dalla considerazione, piuttosto banale, che non saranno le imprese con le loro iniziative a tirarcene fuori nel breve periodo, porrò il problema delle politiche che i governi di molti paesi stanno cominciando ad impostare.

Il mio punto di partenza, che considero ormai assiomatico, è che siamo entrati da anni, stiamo vivendo, e vivremo per anni a venire una situazione di stagnazione, probabilmente di lunga durata, secolare. Questo, e non altro, è il contesto in cui si trova l’economia mondiale: più i paesi ad alto reddito pro-capite e meno le economie emergenti e i paesi cosiddetti ‘in via di sviluppo’ ma che in via di sviluppo certamente non sono. Chi avesse ancora bisogno di dati, ottime fonti, e di semplice accesso, sono il Fondo Monetario internazionale, la Banca Mondiale, e la Commissione delle Comunità Europee.

La pandemia, che si è presentata originariamente come epidemia, parte dalla Cina. Ora occorre dire che la Cina non è semplicemente il secondo paese al mondo per valore del prodotto interno loro (dicono, non lo so ma ci credo); esso è anche un paese assai ben inserito nelle catene globali di produzione, nelle quali produce semilavorati e prodotti intermedi che esporta, importa semilavorati e componenti che sottopone a lavorazioni di perfezionamento e/o assembla in prodotti finiti destinabili alla domanda finale in tutto il mondo. Se mettiamo insieme circa due mesi di COVID-19 e posizione delle imprese localizzate in Cina nelle catene globali di produzione, possiamo intravedere che l’attività produttiva mondiale deve certamente rallentare fino a che non si tornerà ad una situazione di ‘normalità’ definita in qualche modo.

Attenzione: nessuno è in grado di dire se la situazione evolverà in una recessione globale, e soprattutto se ciò avverrà già nel 2020. Le agenzie di stampa e i quotidiani sostengono che Moody’s ha condotto uno studio sulla base del quale ritiene che se la progressione verso una pandemia continuerà, allora il rischio di recessione (globale) è alto. Nouriel Roubini, noto al mondo per essere uno degli economisti che allertarono governi e pubblico dell’arrivo della Grande Crisi Finanziaria del 2007, offre un’analisi articolata della situazione: e non è ottimista. La recessione, per Roubini, è già prevedibile con un notevole grado di probabilità: no, non un cigno nero, un cigno candido.

Per quanto riguarda l’Italia, che ad esempio Moody’s ritiene uno dei paesi a più alto rischio di recessione, chi ha voglia di numeri inquadrati in un ragionamento organico, può (dovrebbe) leggere Andrea Donegà, Segretario dei metalmeccanici aderenti alla FIM lombarda, sullo stato e le prospettive della metalmeccanica lombarda. Il ragionamento di Donegà inquadra il problema degli effetti della pandemia nel quadro della posizione delle imprese lombarde nelle catene globali di produzione, e mette sull’avviso governi centrale e locali, imprenditori e associazioni di categoria circa la dimensione potenzialmente estesa della contrazione dell’attività produttiva manifatturiera nella regione. Il tutto, ovviamente, nel quadro di una stagnazione pesante già nel 2019, pre-Covid-19.

Immaginare politiche di contenimento della crisi economica richiede anzitutto che si chiarisca se questa sia una crisi da offerta o da domanda. Nonostante gli strilli dei liberisti al prosecco, il governo di qualunque paese agisce sistematicamente per stimolare la domanda aggregata quando quella generata dal ‘mercato’ non è in grado di attivare livelli di produzione e occupazione ritenuti adeguati. Questo per dire che i governi hanno notevole esperienza di politiche di gestione della domanda -nella fattispecie, di politiche fiscali espansive. Ma questa crisi è una crisi da domanda? Olivier Blanchard, lucido come sempre, risponde in tre righe (scritte quando l’epidemia era un problema della Cina):

Chi abbia letto Roubini, citato sopra, ha visto che anch’egli è scettico circa l’efficacia delle politiche di espansione della domanda. In effetti, esse sono di faticosa adozione e di lenta applicazione: occorre prima che i parlamenti nazionali decidano espansioni della spesa, poi servono i decreti attuativi, poi la messa a bando delle opere, ad esempio infrastrutture. Ma COVID-19 si diffonde ad una velocità molto alta, anche se il tasso di mortalità è relativamente basso. Problematico aspettare la politica fiscale. Ammesso che serva. Io non sono così scettico quanto Blanchard e Roubini, ma i colleghi hanno un buon punto.

Guardiamo allora al lato dell’offerta. Questa presente ha tutte le caratteristiche di una crisi generata dal lato dell’offerta. Non è stata tanto la domanda di merci e servizi ad essere colpita, quanto gli apparati produttivi nazionali attraverso le catene globali di produzione. Ma come può un governo intervenire per ripristinare condizioni favorevoli alla ripresa dell’attività produttiva? La prima risposta a questo quesito è: un governo, da solo, quando la produzione delle merci è frammentata internazionalmente, quando una difficoltà sorge in un’impresa in un certo paese e si diffonde alle altre imprese di quel paese, quel governo non potrà fare nulla. E si pensi che il governo del paese che subisce lo shock originario, nel nostro caso la Cina, deve affrontare questo dilemma: far ripartire la produzione al costo di mettere in pericolo la salute di larghi strati della popolazione, o salvaguardare il più possibile la salute pubblica, al costo di ridurre anche sostanzialmente, la produzione? (Questo problema, originariamente cinese, diventa ogni giorno di più ‘di tutti’ a misura che l’epidemia tende alla pandemia).

E allora, che fare? Essenzialmente, io credo, adottando due tipi di misure:

  1. Dirottando, in ogni paese, risorse molto importanti verso la salute pubblica. In altre parole, una politica fiscale espansiva esclusivamente o quasi centrata sulla sanità. Questo è essenziale se non si vuole che di qui a qualche anno il problema non si ponga daccapo (tutti ricorderanno che prima del COVD-19 ci furono la Sars e la Mers, e che la ricerca venne interrotta quando la mortalità si azzerò. Ed è essenziale perché le attività produttive possano tornare il prima possibile alla ‘normalità’.
  2. Costituendo un organismo, anche temporaneo, ma politico e mondiale, di gestione della crisi sanitaria. Quando il modo di produzione è globale, le epidemie e le pandemie colpiscono in modo assai pesante le economie dei singoli paesi e del mondo intero. Il solo livello a cui la lotta per il contenimento, la soppressione e la cura è quello mondiale.

Gli scettici possono leggere Simon Johnson del 27 febbraio.