Pandemie, epidemie, tramezzini e ricerca scientifica

2022 01 12

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it

La diffusione violenta del Sars-CoV-2 ha prodotto una serie di problemi economici la cui portata, estensione e combinazione sono, dopo due anni dall’inizio della pandemia, ancora in gran parte sul tappeto. Il più grave tra questi problemi economici è sicuramente la perdita di produzione e occupazione attraverso cui sono passati tutti i paesi ad alto reddito pro capite e molti di quelli a reddito pro capite medio e basso, con l’eccezione di poche economie asiatiche. In un articolo del 28 marzo 2020 argomentavamo che all’impatto immediato della recessione, uno shock dal lato dell’offerta, sarebbe seguito uno shock da domanda dovuto alla caduta dei redditi dei fattori della produzione conseguente allo shock sanitario e alla necessaria riduzione del livello dell’attività produttiva, riduzione che si sarebbe trasmessa da economia a economia proprio come avrebbe continuato a trasmettersi il contagio. Ricordiamo questo piccolo contributo per sottolineare che già a marzo 2020 gli effetti dello shock sanitario apparivano gravi e persistenti, e che dunque le autorità di politica economica dovevano prepararsi ad interventi tanto di politica fiscale che di politica monetaria mirati al sostegno della domanda e delle attività produttive.

Oggi, a due anni dall’inizio della crisi, possiamo notare due fatti importanti:

  1. Il primo è che, con la drammatica eccezione dei paesi a reddito pro capite basso e bassissimo, gran parte delle economie nazionali si sta riprendendo più rapidamente del previsto. Noi crediamo che ciò sia dovuto ai programmi di politica fiscale e monetaria adottati e/o appena avviati a livello nazionale e sovranazionale (vedi NextGeneration EU);
  2. Il secondo è che di fronte all’accertata difficoltà a continuare a produrre nel modo tradizionale, negli uffici e nelle fabbriche, si è stabilito e diffuso un modo di produrre che è stato designato con molteplici espressioni più o meno in inglese, ma che noi chiamiamo Lavoro Remoto.

Qui ci occupiamo di questo secondo tema, e ci chiediamo se esso costituisca l’inizio di una tendenza destinata a modificare permanentemente l’organizzazione del lavoro. In questo breve scritto non è possibile discutere di tutte le implicazioni dell’adozione di questo modo di produrre: ad esempio, non si discute del contributo che esso può dare alla riduzione della velocità di diffusione del virus, né degli effetti della didattica a distanza sulla formazione dei giovani. Qui ci limitiamo piuttosto al seguente quesito:

chiarito che non è vero che siamo in una situazione ‘post-pandemica’, assumendo che la situazione sanitaria si vada avvicinando asintoticamente alla normalità (qualunque cosa essa sia) e/o all’epidemia, che probabilità esiste che il Lavoro Remoto resti pratica diffusa o, addirittura, crescentemente diffusa anche in futuro?

Il nostro filo logico è il seguente:

  1. Il lavoro remoto ha costituito, e costituisce, un fenomeno quantitativamente rilevante? In altri termini, vale la pena parlarne?
  2. Se lo è, cioè se le imprese vi hanno fatto ricorso come strumento di importanza strategica per il contenimento della compressione della produzione indotta dalla pandemia, allora sarà bene tenere presente che ciò avverrà ancora, quantomeno in situazioni comparabili a quelle che stiamo vivendo;
  3. Ammesso che il lavoro remoto sia uno strumento rilevante per le imprese, può diventare un fattore determinante per i lavoratori per scegliere la loro prossima occupazione?
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