La ritrovata importanza di politiche industriali e politiche commerciali per ri-pensare le catene globali di produzione

23 04 01

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@gsom.polimi.it

Sommario e introduzione

Piuttosto avventatamente, alcuni hanno definito ‘deglobalizzazione’ la fase attuale dell’economia mondiale. Noi sosteniamo che il potere esplicativo di tale caratterizzazione sia sostanzialmente nullo, e crediamo che la fase attuale, diciamo dal 2017, sarebbe meglio caratterizzata come il ritrovato orientamento dei governi nazionali a determinare direttamente le scelte di costruzione della catene di produzione e di approvvigionamento e produzione (si veda un recentissimo bell’articolo di Tyler Cowen qui). In questa sede non siamo interessati a valutare se le motivazioni di questa politica siano corrette o meno; piuttosto, siamo interessati a capire quali possano esserne gli effetti sulla strategia di progettazione e costruzione della propria supply chain delle singole imprese. Il nostro caso di riferimento è, per ovvie ragioni, quello statunitense.

Il primo paragrafo presenta il contesto storico e teorico entro cui si muove l’analisi che segue; il secondo illustra brevemente l’Inflation Reduction Act statunitense, l’atto legislativo che più di ogni altro consente di identificare le misure di politica industriale e commerciale che dispiegheranno effetti importanti negli anni a venire; nel terzo  paragrafo sono sintetizzate le reazioni dell’Unione europea alla manovra Usa e alcuni esempi di come le imprese stiano reagendo alle manovre combinate di politica industriale e commerciale Usa.

  1. Il contesto storico e teorico

Lo scorso 4 febbraio abbiamo pubblicato un articolo il cui obiettivo era riprendere le riflessioni sul processo di disaccoppiamento dell’economia statunitense da quella cinese. L’ipotesi che abbiamo formulato in quella sede è che, stanti le misure adottate finora da Usa e Cina, non siamo di fronte ad una de-globalizzazione, quanto piuttosto ad una regionalizzazione dei flussi di scambio e di approvvigionamento da un lato e di localizzazione dei punti che costituiscono le catene di produzione dall’altro. Dal punto di vista degli scambi commerciali questo cambiamento produrrà un aumento degli scambi tra paesi all’interno di una ‘regione’ intesa come di area di influenza economica, e politica, maggiore rispetto alla crescita degli scambi tra questi paesi e paesi esterni a tale ‘regione’.

L’aspetto veramente importante di ciò che sta avvenendo sia alla direzione dei flussi commerciali bilaterali che alla riconfigurazione geografica e produttiva delle catene di produzione non è quello geografico, ma quello politico, dove per ‘politico’ intendiamo il ruolo attivo che i Governi hanno assunto per influenzare direzione e intensità dei flussi commerciali da un lato e riconfigurazione delle catene di produzione: in breve, la combinazione di politiche commerciali e politiche industriali.

Per cogliere appieno la portata del ‘ritorno della politica industriale’ è bene ricordare che i quarant’anni circa che vanno dalla metà degli anni ‘70 del secolo scorso alla metà degli anni ‘10 del secolo presente, sono stati gli anni della globalizzazione, anni caratterizzati dalla vasta libertà di cui le imprese hanno goduto nello scegliere la propria posizione nei processi produttivi di interesse in (sostanzialmente) tutto il globo. In questo periodo i governi degli stati nazionali si astenevano da interventi a favore o contro le scelte delle imprese, un atteggiamento di politica economica che ha portato a identificare il periodo come ‘neoliberismo’. L’espressione che abbiamo usato poco sopra, ritorno della politica industriale, sta ad indicare l’abbandono del ruolo passivo dei governi nazionali di fronte al lavorìo del libero mercato su scala globale a favore di una pletora di interventi di politica economica tesi, ad esempio, a sussidiare consumi di determinate merci o sevizi per stimolare investimenti nei rispettivi settori industriali nazionali; per orientare il consumo, pubblico e privato, verso merci e servizi di produzione nazionale (vedi lo slogan di triste memoria “Buy American” ripreso dall’originale che venne usato negli anni ‘70 e rilanciato prima dall’amministrazione Bush e poi da quella Biden); i sussidi diretti alla produzione in determinati settori, generalmente definiti ‘strategici’ dai governi che intendono favorirli/promuoverli (questi settori venivano definiti un tempo ‘campioni nazionali’); investimenti pubblici diretti nei settori target, generalmente nella forma di partecipazione pubblica di minoranza (una posizione di maggioranza del settore pubblico non viene generalmente  vista di buon occhio, e quindi è fortemente osteggiata, dal capitale privato).

In questa (non nuova) era in cui politica commerciale e politica industriale coesistono, i confini tra le due sono diventati labili, e diventa progressivamente più difficile assegnare all’una o all’altra classe delle misure specifiche di politica economica. Così come la politica commerciale protezionistica ha l’obiettivo di rendere relativamente più costoso, se non proibitivo, approvvigionarsi all’estero di merci e quindi di stimolare indirettamente la creazione di imprese che possano sostituire/compensare la mancata/ridotta fornitura dall’estero, la politica industriale sta prendendo la forma di misure tendenti a sussidiare imprese e consumatori imponendo dei vincoli sul contenuto ‘locale’ della produzione, il che ha effetti misurabili su flussi e direzioni del commercio internazionale. Non troppi decenni fa questa combinazione di politiche veniva definita, sinteticamente ma correttamente, di sostituzione delle importazioni, una politica ritenuta profondamente errata dal punto di vista della probabilità che essa avviasse una fase di sviluppo dell’economia nazionale. E la politica import substitution veniva contrapposta alle potenzialità tutte positive delle politiche export promotion, miranti all’espansione della presenza delle imprese nazionali sul mercato mondiale, piuttosto che al ‘controllo’ delle importazioni per favorire le imprese nazionali altrimenti non competitive. (Il lettore interessato può avvicinarsi a questa letteratura a partire, ad esempio, da qui). Per contro oggi, come viene riportato ampiamente dalla stampa di livello, osserviamo politiche di restrizione alle esportazioni di alcuni settori ritenuti, ovviamente, ‘strategici’. (Cfr qui per un esempio). Il che ci porta direttamente a parlare della strategia commerciale+industriale complessiva degli Stati uniti.

2. Inflation Reduction Act

    La politica commerciale Usa è stata la prima forma di politica tesa a creare le condizioni per un maggior contenuto di valore aggiunto originato nel paese o, quantomeno, originato nel nord America, cioè Stati Uniti, Messico e Canada (USMCA) nella produzione industriale negli Usa. “Maggior contenuto di valore aggiunto nazionale” nella produzione industriale significa che materie prime e beni intermedi necessari alla produzione debbono avere un’origine crescentemente ‘regionale’.

    Dopo l’avvio dell’adozione di politiche commerciali protezionistiche con la presidenza Trump già nel 2017, politiche miranti ad un aumento progressivo della quota nazionale del valore aggiunto complessivo nelle merci prodotte o assemblate negli Stati uniti, sanzionate dall’amministrazione Biden nel 2021 con la ratifica del trattato USMCA, stiamo ora assistendo anche al ritorno della politica industriale. Infatti, l’Inflation Reduction Act (IRA), firmato il 16 agosto 2022, è il terzo provvedimento legislativo bipartisan, dopo l’Infrastructure Law, Chips & Science Act che, dalla fine del 2021, mira a migliorare la competitività, l’innovazione e la produttività industriale degli Stati uniti.  L’obiettivo dell’IRA è catalizzare gli investimenti in capacità produttiva nazionale, incoraggiare l’acquisto di forniture critiche a livello nazionale o da paesi partner con cui esistono accordi di libero scambio, e avviare R&S e commercializzazione di tecnologie all’avanguardia quali la cattura e lo stoccaggio del carbonio e l’idrogeno pulito. La legislazione prevede incentivi fiscali mirati per la produzione di materiali di origine statunitense, e include anche requisiti chiave per l’approvvigionamento nazionale, ad esempio per l’uso di acciaio nazionale nei progetti eolici, e per i salari prevalenti e gli apprendistati, per garantire la creazione di posti di lavoro ben retribuiti:

    • La percentuale del valore dei minerali critici contenuti nella batteria delle macchine elettriche che siano stati (i) estratti o lavorati in un paese con cui gli Stati Uniti hanno un accordo di libero scambio in vigore, o (ii) riciclati in Nord America, dovrà essere pari o superiore ad una percentuale progressivamente crescente (da 40% all’80%);
    • La percentuale del valore dei componenti contenuti nella batteria dei veicoli elettrici che siano stati fabbricati o assemblati in Nord America dovrà essere pari o superiore ad una percentuale progressivamente crescente (da 50% al 100%);
    • I consumatori che acquistino auto elettriche assemblate in Nord America possono beneficiare di un credito d’imposta di 7.500 dollari.

    Riportiamo un estratto dell’analisi dell’IRA pubblicata sul sito del Think Tank Bruegel (Kleimann, D., N. Poitiers, A. Sapir, S. Tagliapietra, N. Véron, R. Veugelers and J. Zettelmeyer (2023) ‘How Europe should answer the US Inflation Reduction Act’, Policy Contribution 04/2023, Bruegel) che ben sintetizza la direzione di fondi dell’IRA e l’ammontare che potrebbero influenzare (distorcere) il commercio internazionale: “La figura [Figura 1] mostra il valore totale dei sussidi IRA suddivisi in sussidi destinati al consumo, alla produzione o all’investimento, indicando se i sussidi sono probabilmente distorsivi del commercio[…]. I sussidi che distorcono il commercio includono i sussidi che contengono requisiti di contenuto locale (LCR) e i sussidi che ne non contengono, ma sono “perseguibili” secondo le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. I sussidi che distorcono il commercio includono il credito d’imposta per le auto elettriche condizionato da LCR (7,5 miliardi di dollari), la maggior parte della spesa per il sostegno alla produzione di tecnologie pulite (32 miliardi di dollari su un totale di 37 miliardi di dollari), la maggior parte dei sussidi per i carburanti puliti e la riduzione delle emissioni (16 miliardi di dollari) e la quota di sussidi per la produzione di energia verde e gli investimenti che si prevede includano bonus per il contenuto locale.”. Come fanno notare gli autori, queste stime devono essere considerate con cautela, poiché la maggior parte delle misure non ha un tetto massimo in termini di volume o di valore complessivo.

    3. Le reazioni dell’Unione europea all’IRA

    Alcuni dei principali programmi previsti dell’Inflation Reduction Act (IRA) potrebbero rientrare tra i sussidi vietati dall’Organizzazione Mondiale del Commerci (WTO) a causa dell’uso di requisiti di contenuto nazionale. Alcune nazioni hanno iniziato a segnalare al WTO che i sussidi previsti dall’IRA non rispettano i trattati di libero scambio. Di particolare rilevanza è la reazione dell’Unione europea. L’aspetto principale che genera preoccupazione è il rischio che i sussidi statunitensi possano portare imprese, anche dei paesi dell’Unione, a scegliere di investire in Usa piuttosto che nei paesi europei. Di per sé questo fattore è tanto più ‘grave’ se si considera il fatto che gli investimenti sono indirizzati a settori della transizione energetica. Fantasia? No.

    Un articolo del Financial Times del primo febbraio scorso segnala il caso di Ecocem, un produttore irlandese di cemento a basse emissioni di carbonio, che ha deciso di raddoppiare un investimento previsto di 120 milioni di dollari in California, scegliendo di riorientare l’investimento verso gli Stati Uniti anziché verso l’Europa, proprio in virtù dei finanziamenti dell’IRA: “Stanno stendendo il tappeto per gli investimenti verdi – siamo rimasti sorpresi da quanto personale sia stato il contatto”, afferma O’Riain, fondatore e amministratore delegato di Ecocem. L’”effetto netto” è che Ecocem, che si qualifica per i finanziamenti IRA sulla base del fatto che il suo cemento è prodotto con emissioni di carbonio 40 volte inferiori alla media, “favorirà ulteriori investimenti negli Stati Uniti [piuttosto che] nell’UE”.” (traduzione DL & FS). La Commissione europea vuole creare le condizioni perché le imprese che producono energia da fonti ‘verdi’ siano localizzate e investano nei paesi dell’Unione. Come riportato dal Financial Times il 3 marzo scorso, in un documento letto in anteprima dal Financial Times, “[…]la Commissione europea ha dichiarato che in cinque settori chiave – solare, eolico, pompe di calore, batterie ed elettrolizzatori – la capacità produttiva del blocco dovrebbe essere in grado di soddisfare almeno il 40% del fabbisogno dell’Ue nel tentativo di raggiungere l’obiettivo di emissioni nette zero entro il 2050.” (traduzione DL & FS).

    Un altro caso è quello della Northvolt, gruppo svedese produttore di batterie tra i cui maggiori azionisti figurano Volkswagen, Goldman Sachs, BMW e Baillie Gifford, che sta anche per iniziare la costruzione di una seconda “gigafactory” insieme a Volvo Cars a Göteborg, ma deciderà il mese prossimo se costruire un terzo impianto in Germania o negli Stati Uniti: come riportato dal Financial Times la decisione di considerare gli Stati uniti deriva dai sussidi possibili grazie all’IRA. Anche il Gruppo Volkswagen ha deciso di costruire il suo terzo stabilimento di produzione delle batterie (oltre ai due attualmente in costruzione in Germania e Spagna) in Canada, dopo la decisione di costruire uno stabilimento di produzione di veicoli elettrici in South Carolina. Come riportato dal Financial Times, Volskwagen ha deciso di mettere in pausa la costruzione di uno stabilimento di produzione delle batterie in Europa orientale in attesa di sapere come l’Ue deciderà di rispondere ai sussidi previsti dall’Inflation Reduction Act. Probabilmente i sussidi dell’IRA, di cui il FT riporta la stima di circa 10 miliardi di euro, non sono l’unica ragione per aprire questo stabilimento in Nord America; tuttavia, come Volkswagen aveva notato due anni fa, la decisione del Governo Usa di investire nell’elettrificazione del settore automobilistico e nelle infrastrutture necessarie “[…] contribuisce a spianare la strada a un maggior numero di veicoli elettrici in Nord America.”. Quindi, perché non investire laddove ci saranno domanda e sussidi?

    Il fatto che le decisioni di investimento delle imprese europee siano influenzate dall’IRA statunitense ha determinato una crescete attenzione e dibattito sulla necessità dell’intervento dei governi per stimolare gli investimenti nei settori ritenuti strategici per la transizione energetica. Si potrebbe dire dunque che anche in Unione europea si stia affermando l’idea che un maggior intervento dei governi in materia di politica industriale sia necessario non solo per attrarre nuovi investimenti, ma anche per evitare che siano allocati gli Stati uniti. Sebbene, l’idea segua quanto sta avvenendo negli Usa, la discussione politica in Unione europea su quali leve utilizzare sembra essere solo all’inizio: in Unione europea, il supporto diretto dei singoli governi alle imprese è limitato se non proibito. Cambiare questa linea non è semplice e non tutti i governi dei paesi membri e nemmeno i rappresentanti della Commissione europea la pensano allo stesso modo.

    Come sta reagendo ad oggi l’Unione europea? Il 16 marzo scorso, la Commissione europea ha presentato il Net Zero Industry Act, la cui proposta è presentata come risposta dell’Ue all’Inflation Reduction Act e come una parte fondamentale del Piano industriale europeo del Green Deal, che mira a garantire che almeno il 40% della domanda di tecnologia pulita dell’Ue sia prodotta localmente entro il 2030. Nello stesso giorno ha anche annunciato il Critical Raw Materials Act, che mira a sostenere l’approvvigionamento per le imprese nell’Unione di minerali critici necessari per la costruzione di tecnologie ‘verdi’ (non è obiettivo di questo articolo discutere di quali tecnologie siano da classificare come ‘verdi’). E, infine, la Commissione europea ha presentato il piano per rendere operativa la European Hydrogen Bank entro la fine del 2023. Citando il Commissario per l’Energia: “Nell’ambito del Net Zero Industry Act, la Commissione ha adottato oggi un piano per la creazione della Banca europea dell’idrogeno. […] La Banca europea dell’idrogeno stabilirà una catena di valore completa dell’idrogeno nell’Ue, insieme al Net Zero Industry Act. Le industrie che decideranno tempestivamente di riorientare o concentrarsi sulla diffusione delle tecnologie pulite ne trarranno vantaggio.”. (traduzione DL & FS).

    Conclusioni

    Stiamo assistendo da alcuni anni a questa parte ad un processo di regionalizzazione degli scambi commerciali guidato dalla politica commerciale dei Governi che per diverse motivazioni è diventata restrittiva. Con questo articolo abbiamo provato a presentare un punto di svolta importante, potenzialmente di portata storica, almeno dal punto di vista economico. Il cambio storico risiede nel fatto che alla politica commerciale i Governi hanno affiancato manovre di politica industriale per guidare la strategia di crescita economica del proprio paese e di sviluppo di settori ritenuti prioritari in termini di occupazione e sviluppo economico. Le politiche del Governo degli Stati uniti presentate nel paragrafo 2 e la reazione della Commissione europea, rappresentano il futuro? Le imprese opereranno in un contesto storicamente diverso da quello vissuto fino a tutto il primo decennio degli anni 2000? Contesto che ci sembra caratterizzato da due certezze: 1) le scelte delle imprese riguardo al paese in cui investire e da cui approvvigionarsi dipenderanno sempre più dalle politiche industriali e commerciali dei Governi; 2) le politiche industriali insieme alle politiche commerciali contribuiranno a creare delle regioni economiche contribuendo al processo di regionalizzazione di cui abbiamo scritto nel recente passato.

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