Glossario per analizzare i termini alla base del processo di ri-globalizzazione / regionalizzazione

2023 10 01

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@gsom.polimi.it

Introduzione

Pochi dubitano ormai che il processo di superamento del modello cooperativo Cina-Usa prevalente fino al 2017 stia procedendo alacremente. In questo modello, che abbiamo illustrato e discusso ad esempio qui e qui, la Cina accumulava nei confronti degli Usa attivi commerciali crescenti, il cui saldo veniva destinato in buona parte all’acquisto di titoli emessi dal governo Usa. In estrema sintesi, il modello produceva industrializzazione per la Cina e finanziamento del debito pubblico, e indirettamente privato, per gli Usa.

Come per tutti gli episodi di transizione importanti, si è creato anche in questo caso uno scarto tra la realtà del mutamento materiale, la ‘transizione’ appunto, e il linguaggio che possiamo usare per rappresentare, per modellare, per interpretare i fenomeni che danno corpo al cambiamento. Non a caso il dibattito italiano fa ricorso ad un miscuglio di italiano e singole parole in inglese, mentre gli Stati uniti, cioè i suoi politici, i suoi amministratori, i suoi manager, i suoi intellettuali sono assai più vicini al processo di transizione in oggetto, e hanno quindi sviluppato un linguaggio più adeguato di quello che abbiamo sviluppato in Italia / in italiano.

Ciò detto, ci sembra dunque utile avere a disposizione un ‘glossario’ che aiuti a chiarire il senso che attribuiamo ai termini usati nel dibattito sulla transizione in atto. Abbiamo, ovviamente, scarso interesse ad un approccio normativo; piuttosto, vogliamo chiarire il significato che noi attribuiamo ai termini usati nel dibattito nella speranza che questo sia anche il modo in cui altri ricercatori li interpretano. Inoltre, non vogliamo produrre un elenco di termini, ma per ogni termine vogliamo fare riferimento al contesto in cui esso viene usato nel dibattito.

1. Globalization / globalizzazione

Con questo termine noi intendiamo in primo luogo il processo di progressiva frammentazione internazionale di processi produttivi originariamente localizzati in un solo paese, e spesso in un solo impianto e, quindi, la nascita e il diffondersi di catene globali di produzione e di approvvigionamento. Globalizzazione si differenzia da internazionalizzazione perché indica la facoltà per le imprese di localizzare frammenti di processi produttivi potenzialmente ovunque nel globo, con poche e decrescenti restrizioni imposte dai governi nazionali. Insieme al progressivo smantellamento delle restrizioni tariffarie e quantitative al commercio internazionale, processo iniziato negli anni Cinquanta del Novecento, la globalizzazione della produzione induce la globalizzazione dei flussi commerciali e dei flussi dei capitali sia nella forma di investimenti diretti esteri che di investimenti finanziari. Altrove, abbiamo usato il termine globalizzazione per indicare quel periodo di circa mezzo secolo caratterizzato dalla massima libertà mai conosciuta dalle imprese di vendere, approvvigionarsi, investire ovunque nel mondo. In questo processo di globalizzazione dello scambio di merci di capitali, e di processi produttivi, il ruolo dei Governi e delle istituzioni sovranazionali è stato creare le condizioni perché un numero crescente di paesi aderissero alle medesime regole e, dopo l’adozione di tali regole, le imprese avrebbero fatto il resto massimizzando l’efficienza della produzione nel nuovo quadro regolatorio. Quindi, la decisione di globalizzarsi da parte delle imprese scaturisce dalla ricerca delle modalità di massimizzazione dei profitti in un ambiente in cui ‘la politica’, cioè i Governi nazionali, tende a comprimere comparativamente poco l’insieme delle scelte possibili. Questa è proprio la ragione per cui si parla di globalizzazione anziché di internazionalizzazione.

2. Decoupling / disaccoppiamento verso de-risking / riduzione del rischio

Con il termine disaccoppiamento, che noi usiamo già da anni, intendiamo esattamente l’insieme delle forme specifiche che ha preso, e prende, il processo di transizione dal regime cooperativo Cina-Usa pre-2017, che è il modello che ha prodotto in larga parte il processo di globalizzazione, al regime crescentemente non cooperativo post-2017. Il concetto è molto inclusivo, e noi proponiamo di usarlo con riferimento sia ad azioni pubbliche che ad azioni private.

Le azioni pubbliche con cui inizialmente si intendeva avviare il processo furono dazi e restrizioni quantitative, che il governo Trump impose sulle importazioni Usa dalla Cina nel 2018. Il governo Biden, con toni concilianti e retorica talvolta amichevole, ha proseguito sulla stessa strada, avviando un numero impressionante di iniziative di politica commerciale, industriale, finanziaria miranti al disaccoppiamento.

Le azioni private di disaccoppiamento sono quelle adottate dalle imprese private che si adattano, non necessariamente in modo passivo, all’ambiente culturale non cooperativo e alle direttive di politica industriale e commerciale del proprio governo. Sottovalutare l’impatto che il cambiamento di indirizzo di politica industriale e commerciale ha sulle scelte d’impresa sarebbe un grave errore se si vuole quantomeno percepire la direzione in cui l’economia mondiale evolverà nei prossimi decenni.

La globalizzazione economica a cui abbiamo assistito favoriva un approccio collaborativo tra paesi perché le imprese potessero perseguire liberamente le proprie scelte di produzione, approvvigionamento e vendita. Dal 2017 e in particolare nel periodo post-Covid, sembra invece che ci si stia affacciando su un mondo in cui le politiche commerciali e industriali siano coordinate per guidare politicamente le modalità in cui saranno strutturate le catene globali di produzione. Prendere coscienza del ritorno dei governi sul terreno dell’allocazione delle risorse a livello globale implica riconoscere il fatto che i Governi si accertano che le scelte di localizzazione delle attività produttive conducano a rilocalizzazioni, a riconfigurazioni delle catene globali di produzione e approvvigionamento coerenti con il proprio progetto politico e geopolitico.

Disaccoppiamento, dunque? Certo, ma non solo. Jake Sullivan, consigliere della presidenza Usa per la sicurezza, ha chiaramente specificato che gli Stati uniti non sono interessati ad una strategia di rimpatrio della generalità dei processi produttivi in cui le imprese di origine Usa sono globalmente coinvolte. Certo, per alcuni processi e per prodotti specifici questo potrà avvenire, ma la strategia è costruire catene di produzione e approvvigionamento i cui centri operativi siano collocati in paesi amici in un processo che il segretario al Tesoro Usa ha definito ormai due anni fa friendshoring.

A disaccoppiamento si è quindi affiancata una nuova parola: de-risking. Con questo termine, adottato sia dall’Amministrazione Biden sia dalla Commissione europea, identifichiamo quelle misure di politica commerciale aventi come scopo la riduzione dell’esposizione a rischi derivanti dalla globalizzazione, così come al sorgere di effetti che un Governo potrebbe ritenere indesiderati, quali ad esempio l’eccessiva dipendenza da uno specifico Paese nella fornitura di energia, materie prime, semilavorati. Progressivamente, sembra che la parola de-risking sia preferita alla parola disaccoppiamento.

3. Modelli di rilocalizzazione: Friend-shoring / near-shoring / re-shoring

Come abbiamo già avuto modo di chiarire, i concetti di friend-shoring e di de-risking, e l’implicazione politico-economica del loro uso, sono diversi da quello di re-shoring che pur sembra andare per la maggiore nel nostro Paese: mentre infatti sembra che il termine re-shoring venga usato per indicare l’atto di riportare in patria attività produttive che erano state off-shoredfriend-shoring e de-risking sono versioni del principio secondo cui il governo desidera che i flussi di scambio commerciale, gli investimenti diretti e la scelta dei fornitori avvenga in modo tale da ‘premiare’ aziende collocate in paesi ‘amici’ o potenzialmente tali. Queste distinzioni ci consentono di capire che friend-shoring e de-risking non tendono a produrre una riduzione della globalizzazione, ma a guidare politicamente le scelte delle imprese su questi terreni (commercio, investimento, fornitura).

Il messaggio non è ambiguo: re-shoring[1] ci sembra dunque un concetto debole che esprime un fatto statisticamente poco rilevante perfino per gli Stati uniti; mentre usare il termine near-shoring ci sembra una svalutazione della strategia di rilocalizzazione dei fornitori e di destinazione di commercio e investimento comunque subordinata alla identificazione del paese amico di interesse prioritario. È questa la ragione per cui noi preferiamo usare il concetto di regionalizzazione che non assume perciò una connotazione di tipo geografico bensì di insieme di paesi che, per cultura, politica, storia, interessi, vengono identificati come partner commerciali “preferiti”.    

4. Non è solo semantica

Non si tratta solo di semantica. Lo scenario economico post-2017 è, e sarà, sostanzialmente diverso da quello che ha caratterizzato il quarantennio precedente non perché vi sarà deglobalizzazione, ma perché la ‘nuova globalizzazione’ sarà micro-gestita dai governi nazionali attraverso le politiche industriali e commerciali. Tale ‘nuova globalizzazione’ sarà caratterizzata da una crescente ‘frammentazione’, tema assai ben discusso nel Capitolo 4 del World Economic Outlook pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale ad aprile 2023 e ribadito nell’aggiornamento di luglio 2023 come rischio per la crescita del Pil mondiale.

Un processo di ri-progettazione delle catene di produzione non è semplice né tantomeno rapido da eseguire (Inconvient Truths del Disaccoppiamento; EU struggles to ‘de-risk’ trade with China; How America is failing to break up with China) e in alcuni casi non porta all’effetto desiderato dai Governi (US-led effort to diversify Indo-Pacific supply chains away from China runs counter to trends).

Tuttavia, è interessante notare che la risposta delle imprese alle politiche industriali e commerciali dei Governi non è scegliere di svolgere alcune attività produttive solamente nell’area di influenza degli Usa o nell’area di influenza della Cina. Piuttosto, sembra che le imprese stiano adottando una strategia di isolamento delle attività produttive in Cina. Il 25 settembre scorso, il Financial Times ha riportato alcuni esempi in tal senso (traduzione DL e FS):

  • “Apple e Intel hanno destinato i loro investimenti futuri ad altri paesi, tra cui l’India o il sud-est asiatico, pur mantenendo i loro stabilimenti in Cina, in una strategia di copertura nota come “Cina più uno””;
  • “L’azienda farmaceutica anglo-svedese AstraZeneca sta elaborando un piano per scorporare il suo ramo cinese e quotarlo a Hong Kong, in parte per proteggerlo dalle misure normative contro le società straniere”;
  • “L’associazione tedesca dei produttori di macchinari VDMA ha scoperto che più di un terzo dei suoi membri sta cercando fornitori alternativi per poter servire sia il mercato statunitense che quello cinese con prodotti “neutri” senza componenti cinesi o statunitensi;”
  • “Volkswagen, che dipende dalla Cina per circa la metà dei suoi profitti, ha annunciato investimenti per quattro miliardi di euro nel Paese nell’ultimo anno. La mossa darebbe “più autonomia e poteri decisionali in Cina che mai”, ha dichiarato Ralf Brandstätter, membro del consiglio di amministrazione con sede a Pechino. L’attività cinese sta “gradualmente diventando una seconda sede” per il gruppo globale, ha aggiunto di recente”.
  • “Secondo due persone che hanno familiarità con l’azienda, nel 2021 il produttore di chip italo-francese STMicroelectronics ha separato le sue funzioni di vendita e marketing in Cina dal resto della sua divisione Asia-Pacifico, insieme alle sue strutture di buste paga, gestione del personale e reporting”;
  • “McKinsey e Boston Consulting Group sono tra le aziende che stanno separando i loro sistemi informatici cinesi. Questo è il risultato di leggi sempre più severe contro lo spionaggio e per la protezione dei dati, che impongono alle aziende di ottenere l’approvazione normativa per trasferire grandi quantità di dati fuori dalla Cina”.

Dal 2017 abbiamo, quindi, potuto osservare una trasformazione delle parole utilizzate dai Governi per spiegare il cambio di relazioni con la Cina, così che, in questo scenario, a parole differenti potessero corrispondere politiche industriali e commerciali differenti. Queste politiche, in continua evoluzione, aumentano le probabilità di una regionalizzazione degli scambi di merci e degli investimenti come riportato anche in uno dei capitoli del Rapporto 2023 dell’Organizzazione mondiale del commercio: il commercio si sta gradualmente riorientando lungo aree geopolitiche. Per illustrare questa tendenza, il rapporto ha analizzato ipotetici “blocchi” di paesi e calcolato il volume di scambi. Il commercio tra questi blocchi ha registrato un tasso di crescita mediamente inferiore del 4-6% rispetto al commercio all’interno dei blocchi dall’inizio della guerra in Ucraina nel febbraio 2022.

Nota di riflessione

L’epoca in cui si è creduto (o fatto credere) che la politica economica internazionale stesse morendo per lasciare il campo al ‘libero’ mercato, è in via di conclusione. Il modello emergente di divisione internazionale del lavoro prevede che i Governi tornino a gestire i processi di allocazione delle risorse se non in alternativa totale al mercato, quanto meno parallelamente ad esso, e ciò usando in maniera strategica politica industriale e politica industriale. Questo processo non porterà alla de-globalizzazione ma piuttosto al ri-disegno della localizzazione delle attività produttive secondo principi propri della sfera del controllo politico. Ri-globalizzazione, o regionalizzazione, non ri-nazionalizzazione della produzione.


[1] Reshoring is the process of returning the production and manufacturing of goods back to the company’s original country. Reshoring is also known as onshoring, inshoring, or backshoring (Fonte: Reshoring: What it is, How it Works, Examples – Investopedia)

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