L’austerità torna a colpire. Ma la politica industriale richiede spesa pubblica in disavanzo

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Daniele Langiu daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati    sdogati@gsom.polimi.it

Obiettivo di questo articolo è sottolineare la contraddizione tra volontà politica di ritorno all’austerità da un lato e necessità di finanziare la spesa pubblica per investimenti a fronte della sempre più scarsa spesa privata. Due notizie ci aiutano a identificare l’obiettivo dell’articolo. Il 15 novembre scorso, Il Governo tedesco ha ordinato il blocco di tutti i pagamenti del suo fondo centrale per la trasformazione climatica (KFT), dopo che la Corte Suprema del Paese ha stabilito come incostituzionale la riallocazione di 60 miliardi di euro precedentemente stanziati ma non spesi durante la pandemia da Covid-19. Ad inizio 2023, inoltre, la Commissione europea ha proposto di rivedere le norme che regolano il debito e i deficit nei paesi dell’Unione europea, note come Patto di Stabilità e Crescita, a favore di piani di spesa pluriennali e ‘personalizzati,’ dando in sostanza ai Paesi membri più tempo per ridurre il debito eccessivo (ci si aspetta che tale revisione avvenga prima delle elezioni del Parlamento europeo del prossimo giugno).

Il tema di politica economica oggi al centro della discussione politica è dunque questo: come consentire ai Governi dei paesi dell’Unione, e all’Unione stessa, di finanziare investimenti pubblici senza essere limitati da norme ‘autoimposte’ in un contesto macroeconomico in cui, a differenza di 14 anni fa (torneremo a breve sul perché di questa specifica), il ruolo della politica industriale è tornato ad essere rilevante per determinare il modello economico del XXI secolo (transizione energetica, sicurezza energetica, ri-configurazione geografica e politica delle catene globali di produzione, ecc.).

Obiettivo di questo articolo è mostrare come le regole dell’austerità autoimpostesi dal Governo tedesco e i vincoli del Patto di stabilità e crescita sono scelte di un contesto macroeconomico ‘invecchiato’ velocemente tanto quanto l’apparato teorico con cui si giustificava in passato la contrazione dei disavanzi pubblici; e che mantenerle potrebbero impedire ai Governi dell’Ue e all’Unione europea stessa di intervenire per competere con le politiche industriali necessarie a competere con Usa e Cina.

  1. Austerità: una parola ricomparsa 14 anni fa

Anni e anni fa, qualcuno ricorderà, nel dibattito economico e nelle decisioni di politica economica, trionfavano gli ‘austeri’. Chi erano costoro? Erano coloro che, in Europa, di fronte ad una crisi profonda da carenza di domanda, crisi che chiamammo prima Grande Crisi Finanziaria (GFC, 2007) e poi Grande Recessione (GR, dal 2008 in avanti) dalla quale ci tirarono fuori giganteschi programmi di spesa pubblica finanziata in disavanzo prima in Cina e poi anche negli Usa, invocavano ‘moderazione fiscale’, cioè contrazione di spesa pubblica. Ovviamente alla recessione in corso aggiunsero l’impatto recessivo delle loro scelte politiche, ma essi procedevano imperterriti, orgogliosi dei propri luoghi comuni sul valore salvifico del risparmio pubblico. Essi erano, anzitutto ma non solo, i soliti noti: Merkel per la Germania, Sarkozy per la Francia, Monti per l’Italia…

E per mostrare concretamente che cosa intendessero per ‘austerità’ fecero terra bruciata dell’economia e delle società greche, imponendo una programma di ‘austerità (che bello questo nascondere i propri progetti politici dietro un sostantivo tanto nobile!) che uno di noi seguì e commentò a lungo (l’altro era troppo giovane per intervenire e/o firmare gli articoli che ancora oggi stanno a testimonianza delle nostro posizioni teoriche e di politica economica, articoli che i più giovani possono trovare, come tutti, su http://www.scenarieconomici.com usando delle appropriate parole chiave quali Grecia, crisi greca, austerità, politica fiscale, recessione, et similia.) Gli effetti dei tagli alla spesa pubblica per ridurre il deficit e il debito pubblico durante la Grande Recessione e la crisi del debito sovrano europeo si sono dimostrati inefficaci a ridurre il rapporto debito/pil e anzi hanno contribuito a rendere ancor più difficile la ripresa economica. A luglio 2015, diverse testate giornalistiche hanno ripubblicato una foto esemplificativa degli effetti dell’austerità in Grecia: “Grecia, un anziano piange e si dispera davanti a una banca a Salonicco” (Fonte: La Stampa, 3 luglio 2015).

Un errore aver determinato una recessione ancor più grave di quella determinata dalla Grande Crisi Finanziaria? Sì, anche stando all’ammissione del Fondo Monetario Internazionale che, ad inizio 2013, ha dichiarato che le misure di austerità applicate sono state un errore, anche se con anni di ritardo rispetto all’applicazione di tali misure in Grecia: Olvier Blanchard, che a suo tempo era Capo economista del FMI, ha riconosciuto che il Fondo ha sbagliato le sue previsioni sulla Grecia e su altre economie europee perché non ha compreso appieno come gli sforzi di austerità del Governo avrebbero minato la crescita economica.

Gli effetti di questo primo errore di politica economica erano prevedibili da tutti sulla base di modelli economici che, da un secolo, ci aiutano a capire che il taglio della domanda, pubblica o privata, è una causa certa di stagnazione e recessione. Ma questa catena causale non era accettabile per i sostenitori della tesi secondo cui il ‘libero’ mercato è l’allocatore ottimo delle risorse economiche, e ciò soprattutto per i decisori di politica economica, accecati dallo sfolgorante principio secondo cui l’aumento del risparmio pubblico è la ricetta aurea per la crescita economica.

Tra i decisori di politica economica, nel 2009 il Governo Federale tedesco, sotto la guida di Angela Merkel e del Ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, decise di inserire nella Costituzione tedesca il cosiddetto ‘freno al debito’ (debt brake). L’effetto principale di questa misura è che essa limita rigorosamente i deficit strutturali allo 0,35% del Pil per il Governo federale tedesco e allo 0% per i Governi statali. In caso di emergenza, una clausola di eccezione consente di contrarre prestiti oltre i limiti abituali, come è avvenuto nel 2020 per fronteggiare la crisi economica dovuta alla pandemia da Covid-19. Figura 1 mostra l’andamento del surplus / deficit del Governo Federale e dei Governi statali in percentuale al Pil dal 2009 al 2022: tra 2012 e 2019, la soglia stabilita dal ‘freno al debito’ sembra essere stata rispettata. Stimare quanto questo risultato sia da attribuire a manovre dirette per aumentare il risparmio pubblico e quanto sia dovuto alla crescita del Pil (che ha un effetto diretto anche sulle entrate dei Governi) non è obiettivo di questo articolo.

L’immagine a lato è tratta dall’Economist e inserita in un tweet di Vitor Constâncio il giorno 5 dicembre, accompagnata da un commento caustico che chiama in causa la coerenza tra le politiche raccomandate dalla Germania ai partners europei e quelle adottate quando è la Germania ad aver bisogno di stimolo fiscale:

Così Vitor Constâncio, già Vicepresidente della Banca Centrale Europea 2010-2018:

2. A 14 anni di distanza, austerità e vincoli del Patto di Stabilità e Crescita rischiano di rallentare la crescita economica dell’Ue

    A 14 anni di distanza, l’aver inserito il ‘freno al debito’ in Costituzione ha determinato l’attuale crisi di bilancio in Germania per effetto della sentenza della Corte Costituzionale tedesca che ha dichiarato incostituzionale la riassegnazione di € 60 miliardi  presi in prestito durante la pandemia da Covid-19 e non spesi verso il Fondo per il clima e la trasformazione (KTF). Un secondo errore diretto dell’ideologia dell’austerità.

    Ma stavolta la situazione economica è diversa da quella a cui si trovarono di fronte gli austeri in passato, quando le politiche di riduzione di bilancio pubblico venivano adottate in assenza di altri vincoli di politica economica: oggi c’è il vincolo della politica industriale, ampiamente usata da Stati uniti e Cina, che occorrerà pur finanziare se si vuole che l’Europa esca più o meno rapidamente dal tunnel di crescita economica assai più bassa di quella Usa e di quella cinese.

    Questa contraddizione tra intenti di riduzione della spesa pubblica da un lato e necessità di finanziamento pubblico della spesa per investimenti ha effetti potenzialmente molto grandi sulla competitività degli apparati produttivi europei perché hanno un impatto esteso a larghi segmenti dell’economia produttiva. Ad esempio, Il 5 dicembre il Financial Times ha pubblicato un articolo che mette in relazione la crisi di bilancio tedesca e l’ambizione del Governo tedesco di permettere alla Germania di avere un ruolo di primo piano nella produzione di semiconduttori. Infatti, i sussidi per Intel e altri produttori di chip come TSM, avrebbero dovuto provenire dal Fondo per il Clima. Ma, leggiamo nell’articolo dell’FT, la sentenza della Corte costituzionale di cui sopra ha allarmato molte imprese, non solo i produttori di chip ma anche altri grandi gruppi che avrebbero dovuto ricevere sovvenzioni, come i produttori di acciaio che stanno investendo ingenti somme per passare a una produzione a zero emissioni di carbonio. Ed è così che i fautori dell’austerità scoprono che essa non serve solo a tagliare la spesa per consumi, loro obiettivo primari odi sempre, ma anche gli investimenti produttivi, quando il nuovo quadro geo-politiche richiede investimenti pubblici coerenti con le politiche ‘di sicurezza’ inaugurate dall’amministrazione Biden e tentativamente in fase di adozione anche dall’Ue.

    Ovviamente, quanto si applica alla Germania vale anche per gli altri paesi dell’Unione, se la revisione del Patto di stabilità e crescita dovesse andare nella direzione voluta proprio dai rappresentati tedeschi. Occorre trovare un equilibrio tra riduzione della spesa pubblica e politica industriale, e trovarlo è compito della politica. Ma all’8 dicembre, i ministri delle Finanze dei paesi dell’Unione europea non sono riusciti a trovare un accordo. Sembra che la Germania abbia insistito sull’aggiunta di ‘salvaguardie’ alla proposta originaria della Commissione per garantire che i Paesi riducano il debito in eccesso di un importo minimo all’anno e limitino la spesa annuale per assicurare che i deficit non superino l’1,5% del Pil. 

    A mò di conclusione

    La nostra ricerca dei passati sei anni sugli effetti del disaccoppiamento tra Usa e Cina ci ha portato ad apprezzare l’importanza del ritorno sulla scena mondiale delle politiche industriali nazionali, come abbiamo avuto modo di commentare qui e qui. Ai tempi della prima generazione di austeri del ventunesimo secolo i tagli di bilancio servivano essenzialmente a contrarre la spesa per consumi, pubblici e privati e, nella testa degli austeri, a ‘liberare’ risparmio che l’imprenditoria privata avrebbe utilizzato per finanziare investimenti produttivi. Sappiamo che ciò non è avvenuto (e sapevamo già ex ante che non sarebbe avvenuto). Ma un simile ragionamento oggi non ha futuro: gli investimenti che servono all’Europa sono non quelli effettuati dai privati sulla base del principio della massimizzazione dei profitti, bensì quelli finanziati e indirizzati direttamente dai governi verso i settori produttivi ritenuti ‘strategici’. Per chiarezza, come sempre guardiamo agli Stati uniti, dove le scelte di politica industriale sono guidate in modo non ambiguo dalle scelte di politica della sicurezza nazionale.

    One thought on “L’austerità torna a colpire. Ma la politica industriale richiede spesa pubblica in disavanzo

    1. Gentile prof. Sdogati,
      Sento spesso le ragioni di chi vorrebbe tassi bassi e raramente di chi preferisce tassi non bassi. Sono del parere che debba esservi una discriminante. D’accordo per i tassi più bassi, ma non fino al punto che la gente perda l’attitudine al risparmio e che le banche, non potendo contare su depositanti di lungo periodo, pur se a rotazione – so benissimo che chi lascia ammuffire i soldi in banca non sa gestire i frutti del suo lavoro – dovranno sempre rivolgersi alla Banca Centrale a cui darà, inconsapevolmente, un potere politico non pertinente.
      Sembrerebbe che il mondo si sia d’improvviso diviso fra monetaristi e Keynesiani, entrambi arrabbiati estremisti. Non lasciamo che si perda l’attitudine al risparmio fra la gente comune.

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