Il ritorno della Cina?

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, fabio.sdogati@gsom.polimi.it

23 02 18

Introduzione

Ci fu facile, in un articolo del 28 marzo 2020, cioè a soli due mesi dalla rilevazione dell’inizio della pandemia, prevedere che la crisi innescata dalla pandemia sarebbe stata lunga, complessa da gestire, costosa in termini di occupazione e di crescita. Oggi, a quasi tre anni, possiamo dire che avevamo colto le grandi linee della evoluzione congiunta e asincrona della pandemia e della crisi economica.

Uno dei fenomeni che avevamo previsto con chiarezza è quello della asincronia con cui tanto la crisi sanitaria che quella economica si sarebbero sviluppate in paesi diversi. Nella fase inizio 2020-fine 2022 l’asimmetria tra Cina e paesi ad alto reddito pro capite (l’occidente, per brevità) prese la forma della contrapposizione netta tra le politiche sanitarie: covid zero in Cina, cioè chiusura di attività produttive, centri commerciali, condomini residenziali per contenere la diffusione del contagio; e in occidente, con poche eccezioni nazionali, chiusure solo parziali e vaccinazioni di massa. L’8 dicembre 2022 il governo cinese rimuove questa asimmetria archiviando la politica ‘Covid zero’ e adottando in sua sostituzione quella che a noi piace chiamare ‘Covid per tutti.’

In occidente questo cambiamento di indirizzo nella politica sanitaria cinese è stato interpretato come riapertura dell’economia cinese. In breve, si è immaginato che certo gli ospedali sarebbero stati in grande difficoltà nel fornire servizi sanitari adeguati nelle nuove condizioni di forte eccesso di domanda; ma si è anche immaginato che la riapertura delle attività produttive e distributive, facilitata dalla ‘liberalizzazione’ degli spostamenti, si sarebbe tradotta in una ripresa dell’attività produttiva e distributiva importante, che avrebbe riportato l’economia cinese nei pressi della posizione che ricopriva nel mercato mondiale alla vigilia della pandemia.

In questo breve articolo noi siamo interessati a questo quesito: quali saranno gli effetti economici sull’economia globale dell’adozione della nuova politica, annunciata l’8 dicembre 2022? La letteratura sul tema consiste di ricerche e previsioni di case finanziarie di centri di ricerca di stampo più accademico, oltre che di interventi di osservatori e opinionisti indipendenti. Il nostro obiettivo è passare in rassegna questa letteratura per fornire un quadro della varietà di analisi e opinioni in questa fase. Ciò che emerge dalla nostra rassegna è da un lato la sostanziale uniformità delle previsioni per quanto riguarda i tassi di crescita dell’economia cinese nel 2023 e 2024; dall’altro, emergono differenze marcate circa i tempi e le dimensioni dell’impatto che la stessa potrà avere sull’economia del resto del mondo. Ovviamente, gli effetti economici della ripresa cinese sul resto del mondo non sono indipendenti dalla rapidità e dalle caratteristiche che assumerà la ripresa dell’economia cinese. La discussione va dunque articolata in tre parti:

  1. Il tasso di crescita dell’economia cinese nel 2023, cioè la velocità a cui l’attività produttiva riprenderà in presenza di una situazione sanitaria in ogni caso poco favorevole;
  2. Il grado in cui la ripresa dell’attività produttiva in Cina si riverserà sulle importazioni dal resto del mondo; e
  3. Il grado in cui la domanda dei paesi ad alto reddito pro capite in particolare alimenterà la ripresa cinese mediante domanda estera per le sue esportazioni.

Il lavoro si articola in tre paragrafi. Nel primo riportiamo le stime e le previsioni circa la consistenza e la ripresa dell’economia interna; nel secondo una sintesi delle misure di politica economica già decise; nel terzo riportiamo le stime e le analisi circa il potenziale di crescita che l’economia cinese potrebbe aggiungere alla crescita dell’economia globale e, parallelamente, riportiamo alcune speculazioni circa il contributo che l’economia mondiale potrebbe a sua volta offrire alla ripresa cinese, in questo contesto di tassi di crescita bassi e timori diffusi di una recessione in arrivo.

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Disaccoppiamento Usa-Cina, guerra, crisi energetica, friend-shoring, inflazione, deprezzamento e apprezzamento del dollaro…Verso una nuova divisione internazionale del lavoro

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@gsom.polimi.it

23 02 04

Introduzione

Con questo articolo vogliamo riprendere le fila dei ragionamenti che siamo venuti facendo, e pubblicando, negli ultimi anni sul tema delle relazioni economiche Cina-Usa e sulle possibili, nuove caratteristiche di un mondo bi- o multi-polare. È almeno dai tempi delle elezioni presidenziali Usa del 2016 che seguiamo con attenzione, documentiamo e cerchiamo di prevedere la direzione in cui evolverà il quadro della divisione internazionale del lavoro a seguito del disaccoppiamento Cina-Usa, il cui inizio fissiamo convenzionalmente nel 2013, anno del lancio della Belt and Road Initiative. A questo link è possibile consultare la raccolta dei nostri articoli riguardanti il disaccoppiamento nell’accezione con cui ne abbiamo scritto finora.

Crediamo sia tempo di riprendere questi temi la cui rilevanza è stata esaltata dalla pandemia, dalle ripetute crisi delle catene globali di produzione (supply chain disruptions, per quelli che sanno le lingue), dalla guerra e dalla conseguente, e crescente ad oggi, inflazione, dalle politiche monetarie fortemente recessive adottate dalle banche centrali dei paesi ad alto reddito pro capite ad eccezione di quella giapponese, e dal progressivo diffondersi di andamenti recessivi dell’economia globale. A nostro parere questi avvenimenti non solo non hanno scalfito l’importanza del processo di disaccoppiamento e dei suoi effetti: essi ne hanno invece progressivamente caratterizzato e determinato gli sviluppi fino a farci avanzare l’ipotesi che siamo in presenza di un processo di affermazione di un nuovo modello di divisione internazionale del lavoro o forse, come sostengono gli esperti di relazioni politiche internazionali, un nuovo equilibrio geopolitico.

Il presente articolo è la prosecuzione naturale della riflessione contenuta in questo pezzo del gennaio 2021, la cui lettura può essere utile per acquisire il background cinquantennale contro il quale interpretiamo le evoluzioni degli ultimi due anni.

Il primo paragrafo riprende le ipotesi di ricerca che abbiamo formulato tempo fa, e cioè che con il disaccoppiamento si venisse affermando la transizione dal progetto di capitalismo liberale universale a quello di capitalismo politico, come identificato da Alessandro Aresu in ‘Le potenze del Capitalismo Politico. Stati Uniti e Cina’ e da Branko Milanovic in ‘Capitalism, Alone. The Future of the System That Rules the World’. Nel secondo paragrafo scriviamo degli avvenimenti sopravvenuti dalle elezioni presidenziali Usa del 2020 e dei mutamenti che essi hanno indotto sulle relazioni economiche internazionali come è possibile ‘misurare’ attraverso la dinamica dei flussi commerciali internazionali. Noi avevamo previsto un cambiamento importante e potenzialmente di lunga durata nell’origine e nella destinazione dei flussi di commercio estero come effetto del disaccoppiamento; vogliamo ora dare avvio ad un processo di valutazione della misura in cui pandemia, guerra, crisi energetica e alimentare, inflazione e politiche monetarie restrittive hanno influito ulteriormente su tali andamenti. Inizialmente il nostro obiettivo è limitato, poiché ovviamente non abbiamo l’ambizione di verificare la forza della relazione causale tra questi fenomeni; più modestamente, vogliamo condurre un’analisi preliminare descrittiva della evoluzione dei patterns commerciali tra gli Stati uniti e alcuni paesi che potrebbero costituire una fonte di importazioni permanentemente alternativa a quella cinese. Si tratta qui di delineare l’evoluzione delle politiche commerciali statunitensi a valle del progetto trumpiano del Make America Great Again, caratterizzato da politiche protezionistiche e dal crescente desiderio Usa di separare la parte ‘cinese’ delle proprie catene globali di produzione dalle parti più prossime, politicamente se non geograficamente. Già in un articolo del 2018, scrivevamo che il progetto dell’amministrazione Trump mostrava un cambio di strategia con il passaggio dalla logica “solo gli Stati Uniti contano” a “il Nord America conta, fino a che gli Stati Uniti dettano le regole”; in aggiunta, suggerivamo che questo si sarebbe tradotto in una crescente regionalizzazione del traffico commerciale oltre che delle catene di produzione. Ad inizio 2020 avevamo poi avanzato l’ipotesi che le caratteristiche merceologiche del commercio bilaterale mondiale mostravano già come la globalizzazione avesse imboccato in via definitiva la strade della regionalizzazione o, meglio, della ‘aggregazione’ attorno a due poli, Cina e Stati uniti.

È noto che la volontà trumpiana di separare la parte ‘cinese’ delle proprie catene globali di produzione dalle parti più prossime è rimasta la linea politica dell’amministrazione Biden, per la quale Janet Yellen, ministro del Tesoro Usa, ha elaborato la dottrina del friend-shoring. La nostra ipotesi di ricerca è che la diffusione della pandemia prima e la guerra poi, generando inattese e gravi conseguenze e difficoltà per le catene globali di produzione abbiano giocato a favore del processo di disaccoppiamento: è qui che riportiamo evidenza empirica del fatto che, progressivamente a partire dal 2020, i flussi di scambio internazionale hanno cominciato a mostrare che le ‘aree di influenza’ dei due poli si stavano diversificando in termini geografici e merceologici, un processo che da tempo abbiamo chiamato ‘regionalizzazione del commercio internazionale, delle catene di approvvigionamento e di destinazione delle esportazioni’.

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Prospettive della politica monetaria in Europa. Un tentativo di sintesi in vista del Consiglio Direttivo della BCE del 10 marzo [1]

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it

22 03 06

Introduzione

Scrivere di prospettive della politica monetaria in questo momento è molto complesso, ed esprimere posizioni al riguardo può essere azzardato. Ci troviamo infatti in una congiuntura forse non completamente inedita, ma certamente molto più grave che in occasioni simili (ad esempio, la guerra di Crimea del 2014).

Affermiamo anzitutto con forza che il problema colossale che abbiamo oggi di fronte è quello della cessazione della guerra guerreggiata, e che il pensiero va e deve andare anzitutto a chi soffre dolori che ci siamo illusi fossero ormai solo un ricordo del passato. Ma la guerra si inserisce in un quadro economico e di politiche preesistenti e noi, ben consci del fatto che non abbiamo nessuna qualificazione per parlare di geopolitica, ci limitiamo a un quesito più mondano ma forse un pochino di più alla nostra portata: quali sono i possibili scenari della politica monetaria europea dopo l’invasione dell’Ucraina?

Il nostro obiettivo finale è avanzare ipotesi circa la direzione che il Consiglio Direttivo della BCE (CDBCE, d’ora in avanti) imprimerà alla politica monetaria in vista degli effetti della guerra; il nostro obiettivo intermedio è delineare ‘lo sfondo’ a partire dal quale il CDBCE avvierà la propria riunione del 10 marzo. Per abbozzare una risposta a questo quesito utilizziamo la seguente periodizzazione, che corrisponde alla numerazione dei paragrafi. Nel primo paragrafo il nostro punto di partenza è il CDBCE del 16 dicembre 2021: questo è lo sfondo contro il quale va collocato il dibattito degli ultimi tre mesi. Nel secondo paragrafo passiamo alla sintesi delle deliberazioni del CDBCE del 3 febbraio; il terzo paragrafo documenta la ‘transizione’ dalla pozione di dicembre a quelle più restrittive di febbraio; facciamo ciò riportando e discutendo le analisi di due esponenti di spicco del Comitato Direttivo in altrettante interviste al Financial Times. Il quarto paragrafo presenta un abbozzo di analisi della situazione post-invasione dell’Ucraina. Qui sosteniamo che il trade-off tra inflazione e attività produttiva è peggiorato di molto a causa della guerra, e che questo pone un problema ancor più grave di quanto non fosse prima della guerra: un atteggiamento restrittivo il 10 marzo avrebbe secondo noi un effetto recessivo che si andrebbe ad aggiungere a quello generato dalla guerra; ma notiamo anche che la guerra è foriera di ulteriore inflazione, e che dunque non è escluso che il CDBCE proceda con una politica restrittiva.

Avvertenza: tentare la sintesi di un dibattito tanto articolato su di un tema tanto complesso e sovraccarico di tensioni politiche non può essere fatto in maniera neutrale. Come sempre, garantiamo la buona fede, non completezza né ottusa imparzialità.

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Inflazione: temporanea o permanente? O, forse meglio: da offerta o da domanda?

Daniele Langiu,  daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it

22 02 09

Il titolo di questo articolo riflette i termini del dibattito che ha tenuto banco tra gli economisti macro accademici, commentatori e giornalisti per tutto il 2021 e in questo inizio del 2022. Il punto più alto di questo dibattito è il secondo confronto sulle origini dell’inflazione Usa tra Paul Krugman e Lawrence Summers, tenutosi il 21 gennaio scorso. Il confronto va seguito perché, oltre ad essere ovviamente interessante, ha dato forte rilevanza alla modellazione teorica delle cause l’inflazione come condizione necessaria per la formulazione di politiche economiche adeguate. La registrazione dell’incontro è a questo link

La genesi di tale dibattito, incluso il confronto tra Krugman e Summers  è, ovviamente, la feroce, per quanto tutto sommato breve, recessione[1] indotta dallo shock sanitario che a partire dalla fine del 2019-inizio 2020 ha colpito le economie di tutto il mondo. La caratteristica principale dello shock sanitario fu l’aver colpito l’economia più o meno simultaneamente dal lato dell’offerta e da quello della domanda: dal lato dell’offerta perché, pur non avendo distrutto capacità produttiva come avviene in caso di guerra, ha reso inutilizzabili impianti produttivi a causa della necessità di isolamento dei lavoratori; e dal lato della domanda, perché quei lavoratori si sono trovati per periodi prolungati con redditi ridotti e, inoltre, aumentarono la propria propensione a risparmiare in vista di una durata incerta del periodo di inattività.[2]

La ragione per cui qualunque ragionamento sugli effetti della pandemia, inclusi quelli sull’inflazione che ne è derivata, deve partire da questa considerazione, cioè dal fatto che lo shock sanitario ha colpito, e continua a colpire, la capacità produttiva, e ha modificato il profilo temporale e la composizione merceologica della spesa per consumi, sta nel fatto che i due impatti negativi si sono auto-rafforzati, intrecciati, alimentati a vicenda in maniera asincrona, ripercuotendosi l’uno sull’altro nel tempo e nello spazio della globalizzazione delle catene di produzione e della logistica.[3]

L’enfasi che stiamo mettendo sul concatenarsi delle difficoltà dell’offerta e della domanda aiuta a capire che la ripresa non può che essere difficile, ostacolata ora da un lato e ora dall’altro, con caratteri caotici che non possono essere sottovalutati: si pensi, a scopo illustrativo, alla successione assenteismo in aumento nelle imprese a causa degli isolamenti-difficoltà a produrre-dipendenti in cassa integrazione-imprese a valle in carenza di prodotti intermedi e conseguente loro difficoltà a rifornire clienti-imprese e clienti finali. In questo modello, il controllo dei contagi è la variabile cruciale per la stabilizzazione della ripresa, ma questo non sta avvenendo. Ne consegue che le difficoltà delle imprese permangono, quelle dei piccoli distributori crescono, quelle delle imprese della logistica si moltiplicano. 

Ma le difficoltà dal lato delle quantità possono generare mostri sul fronte dei prezzi.  Sinteticamente, per vedere come le difficoltà produttive e distributive si possono tradurre in spinte inflazionistiche, sono concepibili due scenari, uno in cui le imprese posseggono potere di mercato, ed uno in cui le condizioni della concorrenza prevalgono in tutti i mercati. Nel primo caso, le imprese che si trovano di fronte ad aumenti dei costi degli input possono aumentare i prezzi dei propri prodotti senza eccessive preoccupazioni per gli effetti sul fatturato, anzi: se l’elasticità della domanda di quei prodotti è inferiore ad uno, il fatturato aumenterà all’aumentare del prezzo. Se, invece, l’impresa opera in un mercato in cui l’elasticità della domanda è superiore ad uno, e non esistono barriere all’ingresso di nuove imprese su quel mercato o impedimenti normativi, allora aumenti dei prezzi verranno adottati con assai maggior cautela ma, alla fine, verranno comunque adottati in un processo in cui il comportamento rialzista di un’impresa apre la strada a comportamenti rialzisti di tutte le altre. In breve, il potere di mercato delle imprese determina la velocità della crescita dei prezzi, ma il processo inflazionistico c’è: e in assenza di spinte salariali, che in Unione Economica e Monetaria non si stanno ancora realizzando, l’aumento dei prezzi va tutto a favore dei profitti aziendali. 

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Pandemie, epidemie, tramezzini e ricerca scientifica

2022 01 12

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it

La diffusione violenta del Sars-CoV-2 ha prodotto una serie di problemi economici la cui portata, estensione e combinazione sono, dopo due anni dall’inizio della pandemia, ancora in gran parte sul tappeto. Il più grave tra questi problemi economici è sicuramente la perdita di produzione e occupazione attraverso cui sono passati tutti i paesi ad alto reddito pro capite e molti di quelli a reddito pro capite medio e basso, con l’eccezione di poche economie asiatiche. In un articolo del 28 marzo 2020 argomentavamo che all’impatto immediato della recessione, uno shock dal lato dell’offerta, sarebbe seguito uno shock da domanda dovuto alla caduta dei redditi dei fattori della produzione conseguente allo shock sanitario e alla necessaria riduzione del livello dell’attività produttiva, riduzione che si sarebbe trasmessa da economia a economia proprio come avrebbe continuato a trasmettersi il contagio. Ricordiamo questo piccolo contributo per sottolineare che già a marzo 2020 gli effetti dello shock sanitario apparivano gravi e persistenti, e che dunque le autorità di politica economica dovevano prepararsi ad interventi tanto di politica fiscale che di politica monetaria mirati al sostegno della domanda e delle attività produttive.

Oggi, a due anni dall’inizio della crisi, possiamo notare due fatti importanti:

  1. Il primo è che, con la drammatica eccezione dei paesi a reddito pro capite basso e bassissimo, gran parte delle economie nazionali si sta riprendendo più rapidamente del previsto. Noi crediamo che ciò sia dovuto ai programmi di politica fiscale e monetaria adottati e/o appena avviati a livello nazionale e sovranazionale (vedi NextGeneration EU);
  2. Il secondo è che di fronte all’accertata difficoltà a continuare a produrre nel modo tradizionale, negli uffici e nelle fabbriche, si è stabilito e diffuso un modo di produrre che è stato designato con molteplici espressioni più o meno in inglese, ma che noi chiamiamo Lavoro Remoto.

Qui ci occupiamo di questo secondo tema, e ci chiediamo se esso costituisca l’inizio di una tendenza destinata a modificare permanentemente l’organizzazione del lavoro. In questo breve scritto non è possibile discutere di tutte le implicazioni dell’adozione di questo modo di produrre: ad esempio, non si discute del contributo che esso può dare alla riduzione della velocità di diffusione del virus, né degli effetti della didattica a distanza sulla formazione dei giovani. Qui ci limitiamo piuttosto al seguente quesito:

chiarito che non è vero che siamo in una situazione ‘post-pandemica’, assumendo che la situazione sanitaria si vada avvicinando asintoticamente alla normalità (qualunque cosa essa sia) e/o all’epidemia, che probabilità esiste che il Lavoro Remoto resti pratica diffusa o, addirittura, crescentemente diffusa anche in futuro?

Il nostro filo logico è il seguente:

  1. Il lavoro remoto ha costituito, e costituisce, un fenomeno quantitativamente rilevante? In altri termini, vale la pena parlarne?
  2. Se lo è, cioè se le imprese vi hanno fatto ricorso come strumento di importanza strategica per il contenimento della compressione della produzione indotta dalla pandemia, allora sarà bene tenere presente che ciò avverrà ancora, quantomeno in situazioni comparabili a quelle che stiamo vivendo;
  3. Ammesso che il lavoro remoto sia uno strumento rilevante per le imprese, può diventare un fattore determinante per i lavoratori per scegliere la loro prossima occupazione?
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Prospettive della ripresa dell’economia italiana a quasi due anni da un evento sconvolgente

Daniele Langiu e Fabio Sdogati

daniele.langiu@gmail.com, fabio.sdogati@mip.polimi.it

21 12 31

Premessa

Ci sorprende la sorpresa di cui alcuni fanno mostra di fronte alle caratteristiche della ripresa economica che, pur con intensità e problematiche diverse, molte economie nazionali stanno sperimentando. Siamo sorpresi perché sembra quasi che il 2020 sia stato un anno ‘normale’, caratterizzato da una recessione ‘normale’, dalla quale ci si attende di rientrare in modo ‘normale’. E invece non è così: il 2020 è stato un anno straordinario, gli effetti della pandemia su domanda e offerta di beni di consumo e di investimento sono stati senza precedenti, e le difficoltà della logistica internazionale sono enormi a causa di ciò; le reazioni delle autorità di politica monetaria e fiscale sono state spesso, particolarmente nel caso dell’Ue, ortogonali a quelle che caratterizzarono il periodo della Grande Recessione 2007-2011; e ci sorprende la sorpresa davanti ai movimenti dei prezzi, un fatto che non vogliamo sminuire ma che a noi sembra fisiologico quando la struttura produttiva e distributiva mondiale subisce uno stravolgimento come quello che abbiamo vissuto nel 2020. Si tratta dunque anzitutto di valutare e ‘assorbire’ la dimensione dello sconvolgimento portato dalla pandemia, e quindi di valutare se e quanto le caratteristiche della ripresa in atto siano ‘coerenti’ con quello sconvolgimento.

Introduzione

Obiettivo di questo articolo è verificare quale sia lo stato della ripresa economica italiana e offrire uno sguardo sugli scenari evolutivi nei prossimi anni. Un compito oneroso per un articolo breve, il che richiede che gli indicatori utilizzati nell’analisi siano accuratamente specificati, pochi, e i relativi dati facilmente reperibili.

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Ancora su inflazione e offerta di lavoro (2/n)

21 11 24

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it

Riassunto della puntata precedente

Ha sostenuto recentemente uno di noi che quando si vuol parlare di inflazione, vera o presunta, che la si ipotizzi di breve o, ancor più, di lungo periodo, occorre chiedersi anche quale sia il comportamento presente e atteso dell’offerta di lavoro in questa fase storica. In particolare, ho cercato di attirare l’attenzione su di un fenomeno che in Italia è stato (vergognosamente) additato al pubblico ludibrio quale effetto del Reddito di Cittadinanza, ma che è in realtà diffuso nei paesi a reddito pro capite medio alto e, si diceva, diffuso trasversalmente tra coorti anagrafiche, qualifiche professionali, generi, classi di retribuzioni.

Nel primo paragrafo riprendiamo alcune considerazioni circa le caratteristiche specifiche della dinamica recente dei prezzi definita, per brevità, inflazione. Nel secondo paragrafo ritorniamo in maniera un poco più esaustiva sulla questione della Great Resignation, e cioè della contrazione dell’offerta di lavoro ad ogni livello del salario, e argomentiamo che si tratta di un fenomeno importante quantitativamente e probabilmente mostrerà di qui in avanti un qualche grado di permanenza. La tesi è che la dinamica al ribasso dei salari, nominali e reali, che ha caratterizzato questi ultimi tre decenni in tutti i paesi ad alto reddito pro capite e in Italia in particolare, ha indotto un grande, generalizzato ripensamento circa il rapporto desiderato tra, da un lato, tempo di lavoro e condizioni di lavoro in generale e, dall’altro, tempo libero o condizioni di vita in generale, il tutto ovviamente a retribuzione data. Il terzo paragrafo riporta evidenza preliminare del fenomeno: non la chiamiamo certamente ‘evidenza empirica’, ma i numeri sono rilevanti. Il quarto paragrafo conclude.

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Inflazione permanente in arrivo? Davvero? Dovremmo chiederci anche che cosa stia succedendo all’offerta di lavoro?

21 11 08

Fabio Sdogati

“Inflation will likely subside in 2022 but remain above the FED’s 2 percent target.

Supply disruptions, pent up demand, and higher household savings have pushed inflation to its highest rate since the early 1990s. But PIIE’s Karen Dynan argues inflation and wage growth data do not suggest the spike will endure, and high inflation will not persist beyond 2022.”

Fonte: Peterson Institute for International Economics 21 10 20

Lo stato del dibattito sull’inflazione

Chi ha poca familiarità con lo studio dell’economia, così come chi ne ha ma solo con l’economia neoclassica (o di piena occupazione, o ‘mainstream’ come dicono quelli che sanno le lingue) tende a ritenere che l’inflazione sia “sempre e dovunque un fenomeno monetario”, il quale è un modo roboante per dire che la causa dell’inflazione è da cercarsi “sempre e dovunque” nelle espansioni monetarie condotte dalle Banche centrali. Look no further. Come sa chi mi ha letto in passato, ritengo che questa sia una proposizione teoricamente molto debole, politicamente motivata: come si fa a sostenere una tesi simile oggi, dopo quattordici (14) anni di espansioni monetarie in Giappone, Europa e Stati uniti, le quali non hanno sortito l’effetto desiderato di produrre un tasso di inflazione annuo di un miserabile 2%?

Fortunatamente, proprio l’evidenza accumulata negli ultimi 14 anni, dalla grande Crisi Finanziaria in poi, ha prodotto linee di pensiero meno ideologiche e nuove generazioni di economisti meno succubi dei loro predecessori ai dictat della scuola del libero-mercato-aggiusta-tutto, contraria alla politica economica a scopi anticiclici per motivi squisitamente politici per quanto ben camuffati da principi economici. La citazione che ho posto all’inizio dell’articolo mostra bene che cosa io intenda: il Peterson Institute for International Economics (PIIE) include tra le cause potenziali di inflazione: 1. le oramai note ‘supply disruptions’, 2. l’aumento della domanda di beni di consumo seguito alla fase acuta della pandemia, 3. la disponibilità di risparmi privati più alta di quanto sia mai stata osservata, risparmi accumulati durante tutto il 2020; ma, sorpresa sorpresa, il PIIE non accenna alla politica monetaria come causa di inflazione in questa fase storica. Possiamo dire che l’enfasi del titolo dell’articolo è su ragioni ‘reali’ dell’eventuale inflazione, non su ragione monetarie. Il che è bene, se vogliamo provare a capire che cosa ci aspetta in termini di dinamica dei prezzi.

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I prezzi delle commodities sono prezzi di attività finanziarie? È per questa ragione che sono saliti tanto velocemente, mentre i prezzi al consumo sono ancora stabili?

21 06 19

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it

Premessa

Nel nostro pezzo del 25.05.21, che vorremmo essere il primo di una serie sulla tematica della dinamica dei prezzi, abbiamo cominciato a riflettere sulla questione del cosiddetto ritorno dell’inflazione o del suo spettro per usare i termini del New York Times. In un intervento pubblico recente, Joseph Stiglitz ha sostenuto con forza che

“dovremmo riconoscere il ‘dibattito sul ritorno dell’inflazione’ per quello che è: una falsa pista indicata da quelli che vorrebbero boicottare gli sforzi che l’amministrazione Biden sta facendo per affrontare alcuni dei problemi più profondi degli Stati uniti” @JosephStiglitz

Sarà questo il nuovo mantra, che l’inflazione è sempre e dovunque un fenomeno politico? Mentre almeno uno di noi due sospetta che la tesi di Stiglitz sia sostanzialmente corretta, riteniamo che mentre Stiglitz possa permettersi di avanzarla pubblicamente, noi faremmo bene a tenerci il sospetto ma procedere sul piano dell’analisi positiva. In questo articolo, quindi, discuteremo ancora del fenomeno dell’aumento del prezzo delle materie prime introducendo una dimensione di analisi che si affianca a quella del mercato delle merci, il mercato delle attività finanziarie. Precisiamo che in questo articolo non estendiamo l’analisi a tutte le materie prime, ma proviamo a porre l’attenzione su quelle per cui la contrattazione avviene attraverso contratti futures.

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Ma le disruption della supply chain!? E lo shortage?? Si, però le auto usate… C’è davvero il rischio di inflazione al consumo?

Avvertenza

Da qualche settimana stiamo provando a scrivere sulla situazione presente della dinamica dei prezzi e le aspettative sulla stessa, ma troviamo grande difficoltà a sintetizzare un dibattito che spazia dagli effetti di supposte strozzature nelle catene di fornitura, alle supposte implicazioni della politica fiscale del governo Biden, alla combinazione tra le due. Qui cerchiamo di iniziare a sistematizzare e semplificare le posizioni espresse sulla stampa periodica ma anche da professionisti ed economisti in versione accademica e non.

Premessa

Negli anni della Grande Recessione, convenzionalmente 2007-2009 negli Usa e 2008-2012 in Europa, una delle grandi preoccupazioni di una parte di economisti e di gran parte della stampa era che gli stimoli monetari e fiscali adottati, dove lo furono, per contrastare la recessione, avrebbero prodotto inflazione. Come si sa, non solo ciò non è avvenuto, ma mentre le banche centrali statunitense (dal 2008 al 2014) ed europea (dal 2012 al 2019) adottavano misure di espansione monetaria mai viste prima per intensità e durata, il tasso di inflazione continuava a cadere, e raggiungere (da sotto) il famoso 2% annuo è stato impossibile. Veniamo, dunque, da un periodo di oltre dieci anni ‘senza inflazione’. 

La crisi economica da pandemia da SARS-CoV-2 ha inizialmente determinato uno shock di offerta e, al contempo, di domanda. Noi abbiamo provato a stilizzare, forse ancor più che modellare, la probabile dinamica conseguente allo shock iniziale, concentrandoci in prima battuta sulla natura degli shocks e sui loro effetti sul prodotto interno lordo globale; in seguito abbiamo proposto alcune riflessioni sulle misure che sarebbe stato necessario adottare da parte delle Banche Centrali ma anche di alcuni Governi, misure che sarebbero state fortemente espansive; infine, e più recentemente, abbiamo prodotto alcune riflessioni circa la probabilità che le suddette politiche espansive possano attivare processi di crescita rilevante dei prezzi in Europa. Nel giro di un anno siamo dunque passati dalla preoccupazione profonda per la domanda e il livello dell’attività produttiva a quella, per noi meno impellente, per l’emergere di possibili spinte inflazionistiche. Il tutto, non dimentichiamolo, in un quadro che abbiamo fatto nostro e definito di stagnazione secolare.

Dal nostro ultimo intervento nel febbraio scorso, l’attenzione pubblica verso l’inflazione è diventata prima preoccupazione e poi parossismo. Mentre scriviamo, a maggio 2021, ci ritroviamo a doverci occupare di inflazione la quale, nel frattempo, è diventata un fenomeno dalle molteplici cause. Spingono l’immagine del rischio di processi inflazionistici devastanti e prossimi, se non impellenti, le case di investimento, le quali nello loro brochure e nei loro podcast identificano svariate cause concomitanti e almeno in parte ortogonali tra loro; ma altrettanto fanno, seppur con maggior cautela e minor grancassa, responsabili della produzione e degli approvvigionamenti, nonché qualche macroeconomista di gran livello. Queste ‘ragioni’ generalmente portate a sostegno della tesi inflazionistica possono essere significativamente suddivise in ‘politiche’ ed ‘economiche’. Definiamo ragioni politiche quelle additate da chi ritiene, essenzialmente, che l’inflazione sia, in base alla ben nota profezia, “sempre e comunque un fenomeno monetario”, anche nel caso in cui le espansioni monetarie siano adottate per ‘accomodare’ aumenti di debito pubblico. Quindi ricadono in questa categoria di cause dell’inflazione:

  1. I piani fiscali espansivi del Governo federale Usa, tanto quello già approvato dal Congresso quale il CARES Act che i piani di spesa attualmente allo studio ma mirati all’investimento pubblico più che al relief in senso stretto: American Rescue Plan (1.900 miliardi di $), diventato legge in marzo 2021, American Job Plan (2.250 miliardi di dollari) e American Families Plan (1.800 miliardi di dollari);
  2. Il Piano Next Generation EU, già deliberato in Europa e in via di progressiva adozione e annunciato in partenza già dal 2021; 
  3. Le espansioni monetarie adottate come scelta politica da tutte le maggiori banche centrali, in primo luogo quella Usa, per sostenere la ripresa economica.

Ricadono invece tra le cause economiche dell’inflazione quelle che venivano considerate tali prima della ossessione monetarista e che venivano definite cost-push e demand-pull. Nella discussione attuale sono cost-push avvenimenti quali:

  1. La regionalizzazione delle catene globali di produzione e, dunque, la rinuncia da parte delle imprese a trarre vantaggio, come han fatto per decenni, dall’appartenenza a catene globali di produzione
  2. L’interruzione di catene di approvvigionamento dovuta alla carenza di offerta di componenti, tra le quali è largamente noto il caso dei microchip
  3. Le difficoltà della rete logistica internazionale a tenere testa alla ripresa del traffico indotta dalla ripresa della domanda globale e quindi della produzione. 

Sono tutti fenomeni, questi, di cui soltanto i professionisti si occupavano fino a pochi mesi fa, ma che oggi sono diventati pan quotidiano dell’uomo della strada. Da notare che manca, tra le cause cost-push sopra riportate, il costo del lavoro, che pure nel dibattito storico sull’inflazione ha sempre avuto un’importanza primaria. Un fatto da non trascurare, questa assenza del costo del lavoro tra le cause dell’inflazione al consumo, che riprenderemo in seguito.

Infine, sono demand-pull quelle spinte all’aumento dei prezzi che derivano dal fatto che la domanda di merci e servizi cresce più rapidamente della loro offerta:

  1. Nella situazione presente, chi pensa a questo fattore inflazionistico ha in mente la ‘gran mole’ di risparmi accumulati dai consumatori benestanti durante la pandemia, risparmi che potrebbero, si dice, essere spesi in tempi rapidissimi quando la pandemia sarà ‘sotto controllo’. 

Ciò che rende la situazione presente difficile da analizzare è la molteplicità di ipotesi sul tappeto. Presa a valore facciale, già solo questa complessità induce gran parte degli osservatori a ritenere la spinta inflazionistica assai probabile: in fondo, se ci sono tante cause possibili, una se ne dovrà pur verificare, no?

Il nostro obiettivo è contribuire al dibattito sul rischio inflazione attraverso una serie di articoli da pubblicare in questa sede. Oggi, vorremmo avviare una discussione cominciando con l’esplicitare il quesito che preoccupa una parte importante di chi si occupa del tema, ed è questo: la crescita dei prezzi delle materie prime e delle commodities può innescare un fenomeno inflattivo dei prezzi al consumo?

Continue reading “Ma le disruption della supply chain!? E lo shortage?? Si, però le auto usate… C’è davvero il rischio di inflazione al consumo?”