Disaccoppiamento Usa-Cina, guerra, crisi energetica, friend-shoring, inflazione, deprezzamento e apprezzamento del dollaro…Verso una nuova divisione internazionale del lavoro

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@gsom.polimi.it

23 02 04

Introduzione

Con questo articolo vogliamo riprendere le fila dei ragionamenti che siamo venuti facendo, e pubblicando, negli ultimi anni sul tema delle relazioni economiche Cina-Usa e sulle possibili, nuove caratteristiche di un mondo bi- o multi-polare. È almeno dai tempi delle elezioni presidenziali Usa del 2016 che seguiamo con attenzione, documentiamo e cerchiamo di prevedere la direzione in cui evolverà il quadro della divisione internazionale del lavoro a seguito del disaccoppiamento Cina-Usa, il cui inizio fissiamo convenzionalmente nel 2013, anno del lancio della Belt and Road Initiative. A questo link è possibile consultare la raccolta dei nostri articoli riguardanti il disaccoppiamento nell’accezione con cui ne abbiamo scritto finora.

Crediamo sia tempo di riprendere questi temi la cui rilevanza è stata esaltata dalla pandemia, dalle ripetute crisi delle catene globali di produzione (supply chain disruptions, per quelli che sanno le lingue), dalla guerra e dalla conseguente, e crescente ad oggi, inflazione, dalle politiche monetarie fortemente recessive adottate dalle banche centrali dei paesi ad alto reddito pro capite ad eccezione di quella giapponese, e dal progressivo diffondersi di andamenti recessivi dell’economia globale. A nostro parere questi avvenimenti non solo non hanno scalfito l’importanza del processo di disaccoppiamento e dei suoi effetti: essi ne hanno invece progressivamente caratterizzato e determinato gli sviluppi fino a farci avanzare l’ipotesi che siamo in presenza di un processo di affermazione di un nuovo modello di divisione internazionale del lavoro o forse, come sostengono gli esperti di relazioni politiche internazionali, un nuovo equilibrio geopolitico.

Il presente articolo è la prosecuzione naturale della riflessione contenuta in questo pezzo del gennaio 2021, la cui lettura può essere utile per acquisire il background cinquantennale contro il quale interpretiamo le evoluzioni degli ultimi due anni.

Il primo paragrafo riprende le ipotesi di ricerca che abbiamo formulato tempo fa, e cioè che con il disaccoppiamento si venisse affermando la transizione dal progetto di capitalismo liberale universale a quello di capitalismo politico, come identificato da Alessandro Aresu in ‘Le potenze del Capitalismo Politico. Stati Uniti e Cina’ e da Branko Milanovic in ‘Capitalism, Alone. The Future of the System That Rules the World’. Nel secondo paragrafo scriviamo degli avvenimenti sopravvenuti dalle elezioni presidenziali Usa del 2020 e dei mutamenti che essi hanno indotto sulle relazioni economiche internazionali come è possibile ‘misurare’ attraverso la dinamica dei flussi commerciali internazionali. Noi avevamo previsto un cambiamento importante e potenzialmente di lunga durata nell’origine e nella destinazione dei flussi di commercio estero come effetto del disaccoppiamento; vogliamo ora dare avvio ad un processo di valutazione della misura in cui pandemia, guerra, crisi energetica e alimentare, inflazione e politiche monetarie restrittive hanno influito ulteriormente su tali andamenti. Inizialmente il nostro obiettivo è limitato, poiché ovviamente non abbiamo l’ambizione di verificare la forza della relazione causale tra questi fenomeni; più modestamente, vogliamo condurre un’analisi preliminare descrittiva della evoluzione dei patterns commerciali tra gli Stati uniti e alcuni paesi che potrebbero costituire una fonte di importazioni permanentemente alternativa a quella cinese. Si tratta qui di delineare l’evoluzione delle politiche commerciali statunitensi a valle del progetto trumpiano del Make America Great Again, caratterizzato da politiche protezionistiche e dal crescente desiderio Usa di separare la parte ‘cinese’ delle proprie catene globali di produzione dalle parti più prossime, politicamente se non geograficamente. Già in un articolo del 2018, scrivevamo che il progetto dell’amministrazione Trump mostrava un cambio di strategia con il passaggio dalla logica “solo gli Stati Uniti contano” a “il Nord America conta, fino a che gli Stati Uniti dettano le regole”; in aggiunta, suggerivamo che questo si sarebbe tradotto in una crescente regionalizzazione del traffico commerciale oltre che delle catene di produzione. Ad inizio 2020 avevamo poi avanzato l’ipotesi che le caratteristiche merceologiche del commercio bilaterale mondiale mostravano già come la globalizzazione avesse imboccato in via definitiva la strade della regionalizzazione o, meglio, della ‘aggregazione’ attorno a due poli, Cina e Stati uniti.

È noto che la volontà trumpiana di separare la parte ‘cinese’ delle proprie catene globali di produzione dalle parti più prossime è rimasta la linea politica dell’amministrazione Biden, per la quale Janet Yellen, ministro del Tesoro Usa, ha elaborato la dottrina del friend-shoring. La nostra ipotesi di ricerca è che la diffusione della pandemia prima e la guerra poi, generando inattese e gravi conseguenze e difficoltà per le catene globali di produzione abbiano giocato a favore del processo di disaccoppiamento: è qui che riportiamo evidenza empirica del fatto che, progressivamente a partire dal 2020, i flussi di scambio internazionale hanno cominciato a mostrare che le ‘aree di influenza’ dei due poli si stavano diversificando in termini geografici e merceologici, un processo che da tempo abbiamo chiamato ‘regionalizzazione del commercio internazionale, delle catene di approvvigionamento e di destinazione delle esportazioni’.

1. Dal modello del capitalismo liberale al capitalismo politico

L’evoluzione delle relazioni commerciali tra Usa e Cina e le più recenti scelte di politica del governo statunitense (si pensi ad esempio ai controlli sulle esportazioni di semiconduttori annunciate già nello scorso ottobre) e di quello cinese mostrano in maniera chiara che entrambi i paesi hanno avviato da tempo una strategia ‘interventista’ in ambito industriale. Il lettore attento, sicuramente, non metterà in dubbio che tale strategia per la Cina è rimasta sempre valida dall’avvio delle riforme durante la presidenza Deng. Nemmeno per gli Usa, tale strategia deve sorprendere; infatti, considerando un orizzonte storico sufficientemente esteso, il Governo Usa ha adottato scelte economiche e industriali per indirizzare la struttura produttiva del paese e le relazioni internazionali: si pensi al Piano Marshall annunciato nel 1947 dall’amministrazione statunitense o agli investimenti sostenuti dal governo Usa per la corsa allo spazio durante la Guerra fredda con l’Urss. Si potrebbero fare molti altri esempi simili e potrebbe sembrare che il capitalismo sia sempre stato caratterizzato dall’intervento del Governo, non solo come regolatore o garante del funzionamento di un’economia di mercato, ma come decisore in materia di politica industriale. Tuttavia, la fine della Guerra fredda con il crollo dell’Urss e del suo modello economico, sembrava aver sancito la consacrazione di un’unica forma di capitalismo: il capitalismo liberale. Tale forma di capitalismo si è progressivamente affermata negli Stati uniti e nelle economie occidentali. Con il crollo dell’Urss, poi, sembrava che tale modello economico potesse essere esteso dagli Stati uniti al resto del mondo: lasciare libero il mercato di operare riducendo il ruolo ‘interventista’ dei governi sembrava essere la scelta vincente sia in materia economica sia in materia di relazioni economiche e sociali all’interno di ciascun paese e tra paesi. La crescita economica della Cina, tuttavia, ha mostrato che esiste un’altra forma di capitalismo dove il ruolo e la rilevanza delle scelte del Governo sono predominanti: il capitalismo politico.

Riconoscere l’esistenza di queste due forme di capitalismo non è un mero esercizio teorico. Sebbene Cina e Usa operino secondo le regole del capitalismo caratterizzate da produzione organizzata per fare profitto usando lavoratori liberi e retribuiti e tramite capitale prevalentemente privato, con coordinamento decentralizzato, come mostra Branko Milanovic in ‘Capitalism Alone, alcune importanti differenze esistono. In particolare, gli Stati uniti sono l’esempio più lampante di capitalismo liberale in cui il ruolo del Governo è progressivamente stato limitato a quello di regolatore e garante del funzionamento del mercato e le imprese private sono lasciate prevalentemente libere di operare; la Cina, invece, mostra le caratteristiche più stringenti del capitalismo politico, data non solo la rilevanza delle imprese a controllo statale ma anche una presenza forte e rilevante dello Stato in tutte le sue articolazioni centrali e locali su scelte di finanziamento e di allocazione delle risorse tra i settori economici.

Tuttavia, una distinzione così netta tra chi ha ‘scelto’ capitalismo liberale e chi capitalismo politico non è semplice e può essere messa in discussione dall’attuale contesto geopolitico che pone Usa e Cina in un confronto che va oltre il commercio di merci e servizi, e si estende alla tecnologia, alla proprietà intellettuale, ai dati e a temi di sicurezza nazionale. Usando l’accezione di capitalismo politico di Alessandro Aresu in  ‘Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina’, sia Stati uniti che Cina mostrano le principali espressioni del capitalismo politico. Aresu pone l’accento sulla compenetrazione di economia e politica che si verifica a più livelli e secondo diverse modalità nelle economie: “come simbiosi di Stato e partito comunista in Cina; come presenza di numerosi apparati burocratici deputati alla sicurezza nazionale negli Stati Uniti; come utilizzo a scopi politici della tecnologia e delle grandi imprese tecnologiche nella competizione internazionale; come capacità di definire industrie e settori ‘strategici’ da sostenere e di aziende ‘nemiche’ da avversare per la loro collocazione geopolitica; come capacità delle grandi potenze di guardare alle proprie economie secondo l’ottica della sicurezza nazionale”. (Dalla recensione di Lorenzo Masini del libro di Aresu).

Attraverso questa accezione, è più semplice dare una chiave di lettura ‘politica’ alle scelte di intervento del governo statunitense e del governo cinese, che non sembrano essere disposti a lasciare alcuni domini alle regole del mercato, ma piuttosto siano intenzionati a indirizzarli verso il proprio interesse. Sembra, quindi, necessario riconoscere l’esistenza di due modelli di capitalismo contrapposti tra loro e che dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca nel gennaio 2017 sono entrati in conflitto inizialmente e prioritariamente sul piano commerciale. La direzione in cui la situazione sta evolvendo comincia ad essere chiara: sia Usa che Cina e, in minor misura anche l’Unione europea, sembrano essere attratte dalla forma di capitalismo politico nell’accezione di Aresu, ciascuno secondo le priorità che attualmente sembrano essere concentrate attorno alla sicurezza nazionale e tutte le sue possibili declinazioni (energetica, cyber sicurezza, accesso a materie prime, etc.). Noi sosteniamo da anni che le scelte di politica commerciale avrebbero ridefinito il quadro geopolitico e i flussi di scambio tra le grandi aree economiche Usa, Cina e Unione europea; ma è ormai chiaro che non solo dazi all’importazione e restrizioni all’esportazione, ma anche la proibizione di fusioni e acquisizioni hanno contribuito a produrre questo nuovo quadro che sta ormai prendendo forma in modo non ambiguo.

2. Evoluzione della politica commerciale Usa dal MAGA di Trump al IRA di Biden

Le posizioni dell’amministrazione Trump in tema di libertà degli scambi internazionali erano chiare già prima delle elezioni politiche del 2016: slogan tipo Make America Great Again lasciavano poco spazio all’immaginazione, e infatti l’affermarsi della linea di politica protezionistica fu molto rapido. Inizialmente, sembrò trattarsi di politica commerciale tradizionale, consistente nell’aumento di dazi e restrizioni quantitative all’importazione; chi, come noi, metteva in luce il fatto che dazi e restrizioni quantitative all’importazione imposti su prodotti semilavorati e intermedi avrebbero avuto effetti negativi sulla profittabilità delle imprese nazionali che usavano quei prodotti come inputs, venne presto rimesso al suo posto dalla decisione dell’amministrazione Trump di rigettare l’accordo noto come North America Free Trade Association (NAFTA), in vigore dall’1 gennaio 1994 tra Canada, Messico e Stati uniti e sostituirlo con l’accordo United States, Mexico and Canada (USMCA) che sarebbe entrato in vigore l’1 luglio 2020. La novità importante dell’USMCA rispetto al NAFTA sta nel fatto che l’accordo USMCA prevede l’introduzione di concetti tipo il contenuto di valore aggiunto locale, detta le condizioni retributive nelle unità operative di tutto il mondo che vogliano essere ammesse a rifornire l’industria automobilistica Usa, prevede un trattamento dei produttori messicani e canadesi fornitori dell’industria Usa più favorevoli rispetto a quello riservato ai produttori localizzati in qualunque altro paese. Troviamo già qui, dunque, un’applicazione di quel concetto di capitalismo politico che abbiamo presentato rapidamente nel primo paragrafo.

Al momento delle elezioni di novembre 2020, l’amministrazione Biden non si trova dunque nella condizione di dover dissodare un terreno omogeneamente ostile al progressivo smantellamento, se così avesse voluto, dell’ordine commerciale, e politico, liberale che aveva caratterizzato tutta la fase della globalizzazione crescente in particolare dal momento della ammissione della Cina all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO, World Trade Organization) avvenuta l’11 dicembre 2001. In altre parole, l’amministrazione repubblicana 2017-2020 aveva aperto le porte ad eventuali amministrazioni democratiche successive che avessero voluto muoversi nell’ambito della tradizione che vuole i democratici tanto protezionisti quanto i, e forse più dei, repubblicani.

La firma dell’Inflation Reduction Act (IRA) nell’agosto 2022 da parte del Presidente statunitense ha sollevato molta attenzione. Il nome della legge non contiene solo misure volte a ridurre l’inflazione, come suggerisce il nome stesso. Particolare rilevanza hanno i fondi destinati alle misure di contrasto al cambiamento climatico a favorire la transizione energetica. E tra queste misure che, all’interno della legge, si possono leggere incentivi fiscali mirati alla produzione di materiali di origine statunitense, requisiti per l’approvvigionamento nazionale, ad esempio per l’uso di acciaio nazionale nei progetti eolici, e per i salari prevalenti e gli apprendistati, per garantire la creazione di posti di lavoro ben retribuiti; qui elenchiamo alcuni requisiti per l’approvvigionamento di materie prime e componenti:

  • La percentuale del valore dei minerali critici contenuti nella batteria delle macchine elettriche che sono stati (i) estratti o lavorati in un paese con cui gli Stati Uniti hanno un accordo di libero scambio in vigore, o (ii) riciclati in Nord America è pari o superiore ad una percentuale progressivamente crescente (da 40% all’80%);
  • La percentuale del valore dei componenti contenuti nella batteria dei veicoli elettrici che sono stati fabbricati o assemblati in Nord America è pari o superiore ad una percentuale progressivamente crescente (da 50% al 100%);
  • Perché i consumatori possano beneficiare di un credito d’imposta di 7.500 dollari, le auto elettriche devono essere assemblate in Nord America.

Si nota chiaramente un’attenzione a che i fondi dell’IRA vengano destinati a ‘regionalizzare’ gli scambi e ad attrarre investimenti privati in Nord America e, in particolare, negli Stati Uniti.

In un articolo pubblicato il 12 dicembre dal New York Times Paul Krugman, probabilmente il più brillante studioso di politica commerciale della sua generazione, pone il problema oggi cruciale per chi studi il commercio internazionale, la divisione internazionale del lavoro, le politiche commerciali: Why America is Getting Tough on Trade. Noi crediamo che gli atteggiamenti fortemente protezionistici che caratterizzano l’amministrazione Biden siano dovuti derivino sia da fattori storici che da fattori ideologici. Tra i fattori storici ricordiamo il ‘lavoro preparatorio’ fatto dall’amministrazione Trump nel 2017-2020, menzionato qui sopra e discusso nel nostro articolo; l’emergere della pandemia da Sars-CoV-2, evento cui l’amministrazione Biden ha risposto in maniera nazionalistica e, quindi, intrinsecamente protezionistica; l’invasione russa dell’Ucraina, che ha consentito di esasperare il carattere di ‘difesa nazionale’ che l’amministrazione Trump aveva attribuito alla protezione commerciale; l’adesione ad una interpretazione strettamente nazionalista della questione climatica.

3. Flussi commerciali e flussi di investimento diretto estero

La progressiva riduzione delle barriere commerciali e l’adesione della Cina al WTO ha determinato dagli anni settanta del secolo una crescente divisione internazionale del lavoro; tale divisione del lavoro è caratterizzata dalla frammentazione del processo produttivo in più paesi cosicché le imprese potessero importare le merci input alla propria produzione dai paesi che permettevano di avere un costo più basso. Progressivamente, e ancor più dagli anni novanta, possiamo sostenere che si era consolidato un modo di pensare in cui i governi nazionali avrebbero continuato a ridurre i costi di scambio di merci e facilitare gli investimenti diretti esteri. Quanto descritto nel paragrafo precedente mostra, tuttavia, che la direzione è stata opposta: i governi hanno agito secondo le proprie priorità (che possiamo far ricadere in ‘sicurezza nazionale’ per Usa e ‘benessere comune’ per la Cina) assumendo un ruolo crescentemente protezionistico.

Così come la politica commerciale ha avuto un ruolo nella divisione internazionale del lavoro che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni, le attuali scelte di politica commerciale stanno avendo un effetto diretto sulle scelte di approvvigionamento (importazioni) delle imprese localizzate negli Stati uniti. In aggiunta, le imprese stanno valutando le scelte di investimento sulla base delle relazioni tra paesi: in particolare, nelle proprie scelte di approvvigionamento e di investimento le imprese statunitensi (e non solo) devono scontare il rischio di possibili sanzioni e restrizioni previste per chi operi in un determinato paese, ad esempio in Cina. I dati pubblicati dagli uffici di statistica non necessariamente riescono a riflettere fenomeni e processi di trasformazione delle catene globali di produzione, processi che richiedono anni o addirittura decenni prima di diventare statisticamente rilevanti. Può pertanto essere utile analizzare gli articoli che quotidiani economici quali il Financial Times, Bloomberg, ecc. pubblicano sulle scelte di diversificazione delle catene di approvvigionamento. Come riportato dal Financial Times Apple, ad esempio ha in programma di spostare per la prima volta la produzione di alcuni MacBook in Vietnam, allontanandosi dalla Cina. E ancora: “Dopo il trasferimento della produzione dei MacBook, tutti i prodotti di punta di Apple avranno un’altra sede di produzione oltre la Cina … gli iPhone in India e i MacBook, l’Apple Watch e gli iPad in Vietnam”. […] “Quello che Apple vuole ora è un’opzione ‘fuori dalla Cina’ per almeno una parte della produzione di tutti i suoi prodotti”. (Traduzione nostra, DL e FS). Un altro esempio è Dell. Come riportato da Nikkei Asia, il produttore statunitense di computer Dellintende smettere di utilizzare chip prodotti in Cina entro il 2024 e ha chiesto ai fornitori di ridurre in modo significativo la quantità di altri componenti ‘made in China’ nei suoi prodotti. Un altro esempio è dato dalle imprese produttrici di autoveicoli. Come riportato ancora dal Financial Times, alcune di queste imprese hanno avviato uno sforzo per ridurre la propria dipendenza dalla rete di produttori cinesi di componenti. Riportiamo di seguito la traduzione di alcune parti rilevanti dell’articolo del FT (link qui sopra) il quale aiuta a capire che che diverse imprese stanno considerando pandemia e confronti commerciali tra paesi come fattori chiave per le scelte di approvvigionamento (Traduzione nostra, DL e FS):

  • “È in atto un ripensamento su larga scala delle operazioni logistiche [in tutto il settore]”, ha dichiarato Ted Cannis, dirigente di Ford. “La catena di approvvigionamento sarà il fulcro di questo decennio”.
  • “Più la pandemia si prolunga, più c’è incertezza”, ha dichiarato Jim Rowan, capo di Volvo Car, all’inizio di quest’anno, annunciando che la casa automobilistica stava aumentando l’uso di componenti non cinesi.
  • “Non è più un’epoca in cui il costo è il principale fattore trainante”, ha dichiarato Masahiro Moro, Senior Managing Executive Officer di Mazda. “In questo momento è necessario considerare anche la solidità della nostra catena di fornitura per garantire un approvvigionamento stabile dei pezzi”.
  • Mazda ha dichiarato che sta spostando la produzione di alcuni componenti prodotti in Cina verso il suo mercato interno in Giappone.
  • L’azienda giapponese Honda ha dichiarato che sta valutando come ridurre i rischi insiti nella propria catena di approvvigionamento, anche se ha smentito le notizie riportate dai media secondo cui starebbe esplorando la possibilità di costruire auto e moto con il minor numero possibile di componenti prodotti in Cina. “Con una serie di impatti sulla fornitura di produzione dovuti a molteplici fattori, tra cui il blocco di Shanghai, stiamo valutando vari modi per coprire i rischi della catena di fornitura. Tuttavia, non stiamo considerando specificamente uno scenario di disaccoppiamento in Cina”, ha dichiarato l’azienda.
  • Da più di un anno, sia Ford che General Motors stanno spostando fuori dalla Cina l’approvvigionamento di componenti per le loro fabbriche statunitensi, secondo quanto riferito da diverse persone. General Motors ha dichiarato che: “La maggior parte dei componenti che utilizziamo in Nord America sono già acquistati in Nord America e le sfide della catena di approvvigionamento degli ultimi anni hanno rafforzato il valore della resilienza dei nostri approvvigionamenti”.

Abbiamo già sottolineato come scelte di politica commerciale restrittiva del Governo degli Stati uniti siano in essere almeno dal 2018. Di seguito riportiamo alcuni grafici significativi per verificare se qualche effetto di tali scelte sia già misurabile. In Figura 1 è riportata la quota di scambio di merci (somma di esportazioni e importazioni) degli Stati uniti con i principali partner commerciali. È interessante osservare che la quota della Cina nello scambio di merci degli Stati uniti, pari al 13,1% a ottobre 2022, è in calo da quando ha raggiunto il picco del 16,3% su base annua nel 2017. Poiché le aziende americane hanno cercato fornitori al di fuori della Cina durante la guerra commerciale tra Pechino e Washington, la quota di commercio degli Stati uniti con Paesi quali Vietnam e Messico è aumentata (per quest’ultimo in particolare l’accordo USMCA sta evidentemente funzionando).

Conclusioni

Da quando Trump ha iniziato la propria campagna presidenziale, lo slogan “Rendere nuovamente grande l’America” è stato rivendicato, sommessamente in alcuni casi e gridato in altri, da molte e diverse aree politiche, dai cambiamenti climatici al commercio internazionale. Per quanto riguarda il commercio internazionale, a partire dal primo trimestre del 2018 Trump ha introdotto misure protezionistiche standard, quali i dazi all’importazione, che si rivelano dannose in presenza di catene di produzione globali in cui i prodotti intermedi sono di provenienza internazionale e contribuiscono alla competitività delle imprese statunitensi. Ma sembra che qualcosa sia cambiato con la scrittura dell’USMCA. Con l’USMCA ha inizio una strategia attraverso la quale verrà incrementata la quota del valore delle catene globali di produzione originata all’interno del Nord America: vale a dire una crescente regionalizzazione degli scambi perché le imprese statunitensi cercheranno i propri fornitori sempre più in Messico o in Canada, e gli investimenti diretti saranno sempre più regionali, piuttosto che globali.

Se si pensava che tale strategia fosse dovuta all’allora amministrazione presidenziale Usa a guida repubblicana sotto la presidenza Trump, i primi due anni della presidenza Biden non sembrano aver invertito la rotta. La regionalizzazione assume un significato più ampio rispetto alla connotazione geografica grazie all’espressione friend-shoring usata dell’attuale ministro del Tesoro Usa. La catena del valore il cui risultato è la produzione di semiconduttori ne è un esempio lampante: 1) gli Usa impongono sanzioni unilaterali verso la Cina volte a impedire l’esportazione di semiconduttori dalle imprese statunitensi; 2) Usa prova a far sì che paesi ‘amici’ applichino una strategia simile. Ed è notizia riportata da Financial Times e New York Times il 27 gennaio ‘23 che i governi di Olanda e Giappone sembrano aver raggiunto un accordo, i cui dettagli non sono noti, con il governo statunitense per limitare l’esportazione verso la Cina non solo di semiconduttori ma anche dei macchinari necessari a produrli.

Anche la più recente legislazione firmata da Biden, l’Inflation Reduction Act (IRA) ha una connotazione fortemente regionale riguardo alla produzione di veicoli elettrici, batterie e altri componenti legati alla transizione energetica. Anche in questo caso, la scelta del governo statunitense di procedere a destinare parte dei fondi dell’IRA secondo il criterio del contenuto di valore aggiunto della merce indica una chiara strategia ‘regionalizzare’ gli scambi e ad attrarre investimenti privati in Nord America e, in particolare, negli Stati uniti.

Siamo quindi di fronte ad uno scenario di politica commerciale molto diverso rispetto a quanto abbiamo osservato fino a 10 anni fa (abbiamo già ricordato che possiamo scegliere il 2013, anno dell’annuncio della strategia Belt & Road di Xi Jinping come momento di ‘separazione’ tra Cina e Usa) e che avrà implicazioni molto rilevanti per le catene di produzioni globali. La nostra ipotesi è che, stanti le misure adottate finora da Usa e Cina, non siamo di fronte ad una de-globalizzazione, ma ad una regionalizzazione che dal punto di vista di scambi di merci dovrebbe comportare un aumento degli scambi tra paesi all’interno di una regione, nell’accezione di area di influenza economica, maggiore rispetto alla crescita degli scambi tra questi paesi e paesi esterni a tale ‘regione’.

E in questo scenario, quale saranno i modelli di catena del valore che si formeranno? Come cambieranno le strategie di approvvigionamento dall’estero delle imprese? Quali saranno gli effetti sulle scelte di investimento diretto estero delle imprese (fusioni, acquisizioni, etc.) dovuti a questo scenario? Domande che occorre porsi e a cui occorre cercare una risposta, se l’ipotesi del nostro articolo risulterà corretta.


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