Politiche fiscale e monetaria possono influenzare i tassi di interesse nel breve periodo, ma quali sono gli effetti del disaccoppiamento Usa-Cina su tassi di interesse e prezzi?

24 03 03

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@gsom.polimi.it

Introduzione

L’attuale discussione sull’andamento del tasso di interesse è molto incentrata sulle scelte di politica monetaria delle Banche centrali e di politica fiscale dei Governi. Senza dubbio, sia la politica fiscale sia, in modo ancor più diretto, la politica monetaria hanno la capacità di influenzare l’andamento dei tassi di interesse nel breve periodo. Secondo noi, tuttavia, è necessario includere nell’analisi del futuro andamento del tasso di interesse anche un elemento chiave su cui stiamo scrivendo da alcuni anni a questa parte: lo sforzo di Usa e Cina di ridurre dipendenze commerciali che è stato in origine definito disaccoppiamento.

Perché introdurre le relazioni Usa-Cina nell’analisi delle prospettive del tasso di interesse? Perché la relazione economica tra Usa e Cina intercorsa a seguito dell’accesso della Cina all’Organizzazione mondiale del commercio è uno dei fattori che hanno contribuito a mantenere bassi i tassi di interesse negli Usa. In sintesi, la domanda di merci cinesi da parte degli Usa ha permesso alla Cina di avere un surplus commerciale e, quindi, risparmi che sono stati usati per comprare titoli di debito del Governo Usa: e maggiore domanda di titolo di debito implica tassi di interesse minori sullo stesso.

L’obiettivo di questo articolo è inserire gli effetti del disaccoppiamento Usa-Cina nell’attuale dibattito sull’andamento dei tassi di interesse e, quindi, provare ad analizzare le implicazioni per i tassi di interesse in uno scenario in cui:

  1. la Cina non abbia un consumatore di ultima istanza (gli Usa, e tendenzialmente anche l’Europa)) che le consenta di esportare i propri risparmi, ipotizzando che almeno nel breve periodo la Cina continui a esportare più di quanto importi;
  2. gli Usa non trovino un volume comparabile di risparmi che consentano di finanziare il proprio debito pubblico ai tassi storicamente bassi del periodo 2003-2016.
  1. Lo sfondo: il disaccoppiamento Cina-Usa

Il periodo di circa quarant’anni che va dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso al 2015 è stato identificato con il termine ‘globalizzazione. ’Ma ‘globalizzazione’ è un termine che non può caratterizzare un periodo di alcuni decenni, poiché la globalizzazione è un fenomeno presente in tutte le epoche storiche.

Alcuni, più attenti, hanno definito questo periodo, e gli anni ’90 in particolare, ‘iper-globalizzazione.’ Noi suggeriamo di identificare questa fase come quella in cui la globalizzazione è stata guidata dalla crescente libertà di cui le imprese sono state messe in grado di godere dai governi nazionali, i quali hanno adottato un approccio definito ‘neoliberista’: in breve, concedendo alle imprese una libertà mai conosciuta prima di vendere, approvvigionarsi, investire ovunque al mondo. Questo approccio è stato codificato in quello che è stato chiamato ‘Il consenso di Washington’ tra Tesoro Usa, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale

Si è trattato dunque di un periodo caratterizzato dal trionfo del paradigma del libero mercato (globale), da cui la sua caratterizzazione come ‘neoliberista’. Una delle caratteristiche particolari di questa fase è il comportamento cooperativo di Usa e Cina: ad esempio, in questo periodo più che mai venivano aboliti o fortemente ridotti i dazi all’importazione, così che sui mercati nazionali comparivano merci di produzione estera a prezzi più contenuti di quelli praticati dai produttori nazionali; oppure, e ancor più, le imprese diversificavano la catena dei propri fornitori da quasi esclusivamente nazionali a fornitori esteri, dando vita all’espansione delle catene globali di produzione e di approvvigionamento.

Questo modello è entrato in crisi a partire dal 2016, quando gli Usa hanno adottato l’orientamento noto come Make America Great Again (MAGA) ripristinando dazi e restrizioni quantitative alle importazioni, in particolare dalla Cina. Tale orientamento ha guidato tutta la fase dell’Amministrazione Trump ed è poi stato adottato anche dall’Amministrazione Biden.

In un discorso del 27 aprile 2023 davanti ad una platea di economisti, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan ha definito l’approccio neoliberista errato dal punto di vista degli interessi Usa, argomentando che da un lato tale approccio ha fallito nel salvaguardare il benessere dei lavoratori Usa di settori esposti alla concorrenza estera; e dall’altro non ha prodotto quella espansione a livello globale del modello di democrazia Usa che pure ci si era attesi sarebbe avvenuto. E tutto questo senza salvaguardare la sicurezza nazionale Usa.

Oggi ci troviamo dunque in una fase di transizione da un modello neoliberista di ‘regolazione’ dei rapporti economici mondiali, ad un modello centrato sul concetto di sicurezza nazionale. Nel nuovo modello la politica commerciale (esportazioni e importazioni) e la politica industriale (investimenti pubblici, sussidi alle imprese) sono gli strumenti che i governi usano per indirizzare l’economia nazionale e quella mondiale nella direzione desiderata, cioè la specializzazione produttiva del proprio paese e dei paesi ‘friendly’ secondo la definizione introdotta dalla Ministro del tesoro Janet Yellen e ripresa da Jake Sullivan.

Ecco, dunque, che cosa sta avvenendo sul piano del governo delle catene globali di produzione e approvvigionamento: meno mercato, più Stato. E così sarà per decenni a venire.

2. Le prospettive della politica fiscale

In questo quadro di modifica strutturale, la politica fiscale raccomandata dal Fondo Monetario Internazionale ai governi nazionali è di carattere recessivo. Per bocca di Pierre-Olivier Gourinchas, consigliere economico e direttore del dipartimento ricerca del FMI, l’economia globale si sta avvicinando ad un atterraggio morbido, ma rischi ne restano. La raccomandazione è che il focus delle politiche economiche debba spostarsi verso “il risanamento delle finanze pubbliche e il miglioramento delle prospettive di crescita di medio e lungo termine.”

Politiche fiscali restrittive si sostanziano, a parità di tutte le altre condizioni, in una riduzione del fabbisogno di finanziamento pubblico. Ciò, secondo il modo di pensare illuminato che molti decisori di politica economica e i loro consulenti condividono, dovrebbe ‘liberare’ risparmio privato che si riverserebbe a finanziare l’investimento privato: in un corto circuito spettacolare, i risparmi dei governi diventano investimenti dei privati, e l’economia cresce grazie alla riduzione della domanda pubblica!

Non v’è chi non veda che siamo daccapo a dodici: austerità! È istruttivo, tuttavia, notare come il governo federale degli Stati uniti non sembri avere alcuna intenzione di adottare il cambio di direzione della politica fiscale raccomandata dal Fondo, avendo impegnato migliaia di miliardi di dollari da spendere nei prossimi dieci anni in opere pubbliche, istruzione, ricerca nell’ottica della conversione verde e della sostenibilità ambientale ed economica.

3. Le prospettive della politica monetaria

Politiche fiscali restrittive inducono, a parità di tutte le altre condizioni, una riduzione del fabbisogno pubblico di finanziamento e, quindi una riduzione del tasso di interesse sulle nuove emissioni di debito pubblico. Forse che ciò implica che dobbiamo attenderci tassi di interesse in progressiva caduta, diciamo nei prossimi cinque anni? Beh, non necessariamente, poiché pur assumendo che il meccanismo funzioni davvero, l’autorità preposta al governo dei tassi di interesse è la Banca Centrale delle singole realtà nazionali e sovranazionali come nel caso dell’area euro, e non è detto che esse siano disposte a validare una caduta dei tassi. Si osservi l’andamento del rendimento nominale del decennale Usa negli ultimi 60 anni:

Per quarant’anni, dal 1980 al 2020, il rendimento del decennale Usa è stato in caduta. Ora guardate l’andamento del deficit del governo federale: vedete una similitudine tra le due dinamiche?

4. Il contesto in cui abbiamo avuto tassi di interesse e di inflazione bassi: la cooperazione tra Cina e Usa

Ci sarà certamente qualche sofisticato econometrico pronto a dirci che l’ispezione visiva di due grafici non basta a verificare l’esistenza di una correlazione. Ma a noi invece si, basta, poiché noi sappiamo che l’andamento dei tassi di interesse non è determinato soltanto, né in massima parte, dall’andamento della spesa pubblica finanziata in disavanzo: molte, e importanti, sono le determinanti dei tassi di interesse. E per noi, nel periodo 1980-2020, più importante dell’andamento del disavanzo pubblico è stato il meccanismo cooperativo che Stati uniti e Cina hanno adottato per quei quattro decenni. Il meccanismo di tale accordo è ormai sufficientemente studiato per poter essere facilmente delineato a grandi linee.

Nel ‘vecchio’ modello di divisione internazionale del lavoro, diciamo tra il 1980 e il 2016 ma ancora oggi tutt’altro che completamente estinto, Stati uniti e Cina costituivano una coppia formidabile nella quale ciascun membro lavorava certo per il proprio benessere, ma in fondo anche per quello dell’altro. Durante gli anni Settanta, gli Stati uniti avevano cominciato a sperimentare una nuova forma di divisione internazionale del lavoro, quella che sarebbe divenuta nota come ‘frammentazione internazionale della produzione’ o, in altri ambienti, catene globali di produzione. La sperimentazione avvenne essenzialmente con Corea del sud, Hong Kong, Singapore e Taiwan, con ciascuno del quali si sperimentava in settori merceologici diversi: tessile-abbigliamento prevalentemente con Hong Kong, componentistica elettronica con gli altri.  Verificata la fattibilità del progetto, gli Usa ne ampliarono a dismisura la scala coinvolgendo la Cina per le sue caratteristiche da un lato simili a quelle delle ‘quattro tigri asiatiche’ quali costo del lavoro bassissimo associato all’assenza di rivendicazioni salariali e, quindi, un pericolo remoto di aumento dei salari.

Ma la Cina era ancor più attraente delle piccole tigri asiatiche, poiché oltre a condividere le caratteristiche suddette, essa da un lato possedeva un esercito industriale di riserva immenso, e dall’altro costituiva un mercato potenziale enorme sia per le tecnologie Usa più mature che per le esportazioni Usa in genere, se così si fosse deciso. Fu così che la produzione di parti e componenti per il settore manifatturiero Usa venne progressivamente affidata ai produttori cinesi, assicurando loro un mercato di sbocco e un surplus crescente di bilancia commerciale. Questo surplus veniva versato dai produttori cinesi nelle casse della banca centrale in cambio di yuan necessari per soddisfare le esigenze della produzione, e i dollari così ottenuti venivano impiegati dalla Banca del Popolo per l’acquisto del debito pubblico (e privato) Usa. Il risparmio cinese finanziava dunque in quantità crescente il debito Usa, ‘sostenibile’ non per la sobrietà del governo emittente, come credono i semplici, ma per via dei tassi di interesse bassi resi possibili dall’offerta crescente di risparmio cinese (e, certo, a partire dal 2008, dalla politica monetaria espansiva della Federal Reserve).

5. Le prospettive della cooperazione Cina-Usa? Non buone

Ma non basta. Il progetto cooperativo Cina-Usa è stato anche responsabile per un lungo periodo di stabilità dei prezzi, grazie ai bassi costi di produzione delle merci esportate dalla Cina: chi non ricorda gli anni ’90, quando i prezzi contenuti delle nostre importazioni dalla Cina venivano interpretati come qualità scadente di quei prodotti? Certo, non siamo tanto ingenui da non aver notato gli effetti cumulati sulla dinamica dei prezzi in occidente di pandemia, crisi della logistica internazionale, guerra in Ucraina, prezzi dell’energia: tanto ne siamo coscienti che in diversi scritti abbiamo messo in forte dubbio la teoria della BCE secondo cui per controllare l’inflazione occorresse piegare la domanda, mentre noi abbiamo enfatizzato, in particolare per l’Europa, il ruolo altrettanto importante, se non preponderante, giocato da fattori di offerta. E infatti, non è stato necessario scatenare recessioni sanguinose perché la dinamica dei prezzi tornasse ‘nella norma’, cioè a quel due percento o poco più indicato come obiettivo strategico e fattibile dalle banche Centrali.

Oggi, nonostante l’avvio del tramonto del progetto cooperativo Cina-Usa, l’enorme apparato esportatore cinese è ancora un fattore di controllo dei prezzi in occidente, anche se è vero che il disaccoppiamento e l’avvio della fase di regionalizzazione richiederanno più alti differenziali di competitività perché il surplus cinese continui ad essere assorbiti da Stati uniti ed Europa. Come è stato notato da Brad Setser, infatti, non esiste alcun ‘blocco di paesi emergenti’ in grado di rimpiazzare la domanda Usa di merci cinesi, per cui sembra lecito aspettarsi una scarsa dinamica dei tassi di interesse e dei prezzi almeno per tutta la fase di transizione necessaria ad instaurare il cambiamento di regime da cooperazione a regionalizzazione, cioè ‘come se fosse ancora in atto un modello collaborativo Usa-Cina.

6. Ipotesi conclusive

Gli anni di inflazione bassa o nulla e di tassi di interesse nominali bassi sono gli anni dell’accordo cooperativo tra Cina e Stati uniti. Mentre sarebbe sbagliato ricondurre il loro andamento interamente a questa sola causa, è tuttavia importante sottolinearlo perché la cooperazione è stato probabilmente il fattore più importante nel lungo periodo. Come dicono i libri di testo le politiche, monetaria e fiscale, vengono usate per la stabilizzazione di breve. Soltanto gli estremisti sostengono che le politiche possono determinare le caratteristiche della crescita nel lungo periodo. In attesa di osservare le azioni che il Consiglio Direttivo della Banca Centrale Europea prenderà giovedì 7 marzo e l’Open Market Committee della Federal Reserve mercoledì 20 marzo, dalle quali ci aspettiamo non ridurranno il tasso di interesse, secondo noi è opportuno guardare al futuro del processo di regionalizzazione degli scambi. Il processo non è complicato solo per chi deve trovare paesi diversi da cui approvvigionarsi (Usa e Ue) ma anche per chi (Cina) da tempo ha basato la propria crescita economica sulla domanda di tali paesi. A meno di un processo di transizione molto veloce dell’economia cinese da crescita basata sulla domanda estera a crescita basata su domanda interna, vale a dire più consumi e meno investimenti per ridurre l’eccesso di risparmi, l’eccesso di risparmi cinese persisterà e dovrà trovare una destinazione. Realisticamente, i destinatari saranno i paesi ad alto reddito pro capite e ancora per un periodo potremo assistere a risparmi che contribuiscono a tenere bassi i tassi di interesse Usa e globali. Ma tutto questo avverrà mentre si realizzerà una tendenza al loro aumento per affrontare l’aumento dei prezzi dovuto alla regionalizzazione degli scambi e la riduzione dell’eccesso di risparmi cinese che ci aspettiamo avvenga se la Cina deciderà di costruire un blocco economico alternativo agli Usa.

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