We take care of our own (B. Springsteen)

Scrivevo in un pezzo del 28 aprile scorso che il risultato del referendum era ovvio, e lasciavo anche intendere tra le righe che la vittoria sarebbe stata di dimensioni comparabili a quella ottenuto dal remain nel referendum del 1973, quando due terzi degli aventi diritto al voto si espressero a favore della permanenza. Di più: ieri, giovedi 23, ho scritto il pezzo che avrei pubblicato oggi, debitamente ‘ripulito’, a vittoria confermata. E adesso debbo scriverne un altro. Ben mi sta. Perché?

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Brexit? Ma no!

Preistoria

Correva l’anno 1973, e Danimarca, Irlanda e Regno Unito diventavano membri della Comunità Economica Europea (CEE, che non c’è più dal 31 dicembre 1992, ma bisogna dirlo perché molti non se ne sono ancora accorti). Soltanto due anni dopo la Gran Bretagna teneva il suo primo referendum di verifica sulla voglia di quel popolo di restare o meno nella CEE. La storia si ripete. Allora, ci ricorda Gavin Davies, che c’era , il quadro era ben diverso: esistevano le elites politiche, il popolino ubbidiva (‘egemonia’, direbbe Gramsci in tono più nobile)….e il risultato del referendum fu che due terzi dei votanti si espressero a favore dello status quo.

Questa breve premessa per dire due cose: che i britannici hanno sempre pensato che le tempeste sul canale della Manica isolano l’Europa, non loro; e che stavolta il clamore è tanto perché non ci sono più le elites politiche di un tempo. Ma la ciccia è la stessa, sostengo io, e il risultato del referendum pure. Come lo so? Perché il popolo votante è conservatore, perché il cambiamento lo impaurisce.

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Gli anni a venire

 Mala tempora currunt,

sed peiora parantur

Vorrei provare a fare alcune riflessioni su cosa dovremmo aspettarci dal prossimo paio d’anni (o forse più). E vorrei farlo ricordando il passato, perché la perdita della memoria è una tragedia immensa per i processi di apprendimento. Con la memoria si perde il senso dell’equilibrio, scompare l’origine degli assi cartesiani, non è più possibile comparare, distinguere ciò che è da ciò che non è, immaginare che forma potrebbe prendere il futuro. E allora sarà bene fare un esercizio che ci aiuti a capire ciò che avviene, e che potrebbe avvenire, alla luce di ciò che è avvenuto nel passato non troppo lontano. Ricordando sempre che la conoscenza del passato non basta certo prevedere il futuro, ma anche che la sua ignoranza è perdita di memoria e, dunque, condanna all’ignoranza. Cominciamo perciò dal passato. Continue reading “Gli anni a venire”

Fino a quando!?

Il 22 febbraio 2013 sarà ricordato dagli storici e dagli esperti di comunicazione come un’altra gemma nella gestione dell’informazione sulla recessione attuale. Per gli economisti, invece, o quanto meno per quelli che hanno studiato e capito la buona teoria economica, sarà l’ennesima conferma del fatto che questa recessione, pur nata apparentemente non per loro volontà, è attivamente stimolata e aggravata dai governi europei e dai loro consulenti ‘liberisti’.

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Recessione in Europa. I governi si rifiutano di intervenire. La domanda verrà dalla Cina?

di Fabio Sdogati e Yiwen Zhou

La crisi attuale dura ormai da cinque anni, e sta peggiorando. Negli ultimi tre anni i governi dei paesi maggiormente colpiti dalla recessione si sono rifiutati, e continuano ad evitare, di compiere l’unica azione che invertirebbe questa evoluzione drammatica: ovvero, stimolare la domanda aggregata.

Ma non è stato sempre così. C’è stato un tempo, non molto addietro, in cui gli stimoli fiscali da parte dei governi non erano considerati un peccato.

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Ed ecco che torniamo alle politiche keynesiane

Il pezzo pubblicato su questo sito il 7 marzo scorso chiedeva esplicitamente “Più Europa, non meno; e più spesa pubblica, non meno.” Dopo poco più di sei mesi la nostra previsione si sta avverando.
Certo non avevamo previsto le forme precise che la crisi del credito avrebbe assunto, né i tempi, e tantomeno la sua gravità. Ma avevamo chiaramente percepito i segni della stagnazione, e mettevamo in guardia contro le tentazioni nazionaliste entro l’Unione Economica e Monetaria.

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Con l’accordo di oggi, la Grecia ha salvato l’Europa

Adesso l’Europa si impegni a salvare la Grecia (e se stessa)Il Sole24 Ore oggi titola che si è scelto di salvare la Grecia. Eppure non è così. Il titolo di questo mio articolo non è invertito per errore rispetto a quello del Sole, ma perché esso rappresenta quello che è veramente avvenuto e quello che dovrà necessariamente avvenire se si vuole uscire dalla recessione in cui le scelte europee di politica economica hanno gettato la Grecia, l’Italia, la Spagna, l’area euro, l’Unione tutta.

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Euro nelle mani di Merkel e Sarkozy. Si salverà

Fabio Sdogati, ordinario di Economia internazionale al Politecnico di Milano e al Mip, scrisse già nel novembre del 2009: «L’euro e l’Europa sono sotto attacco». Ha continuato a ripeterlo finchè i fatti non gli hanno dato ragione. «Ma quale Grecia? — continua a dire — Qui i mercati hanno semplicemente intuito che una sola banca centrale non può reggere con 17 diversi governi nazionali. E hanno agito di conseguenza puntando sull’eurocrash». Ma oggi Sdogati è pronto a scommettere che l’euro non salterà.

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Fra il dire e il fare … prospettive della politica fiscale statunitense e di quella europea

La crisi portata all’attenzione del pubblico nell’estate del 2007 era una crisi del debito privato: del settore finanziario, anzitutto, ma anche di quello delle famiglie. Le imprese produttive non sembravano soffrire dello stesso problema, né sembrava particolarmente preoccupante la situazione dei debiti pubblici -se non per coloro che in questa sede abbiamo definito ‘le vestali dell’ortodossia’, cioè coloro per i quali il pareggio dei bilanci pubblici dei paesi dell’UE è una questione di principio e non una di politica economica, di occupazione, di benessere. Oggi, dopo tre anni e mezzo, la crisi è essenzialmente crisi del debito pubblico. Il 2010 è stato l’anno in cui questa metamorfosi si è estrinsecata in tutta la sua chiarezza: dapprima la cosiddetta ‘crisi greca’ o, come si potrebbe anche chiamarla se si volesse essere un pochino più rigorosi, la crisi del debito pubblico greco, la quale ci ha preoccupato in particolare nella prima metà dell’anno; poi la ‘crisi irlandese’, che a voler essere un pochino più rigorosi, potremmo anche identificare come la crisi del sistema bancario e finanziario irlandese, la quale ha assorbito la nostra attenzione nella seconda metà. Il tutto nel quadro di una campagna di stampa dedicata alla crisi del progetto europeo, alle (vere o presunte) diatribe tra un primo ministro e l’altro e tanti, tanti giornalisti e opinionisti impegnati nella battaglia contro i deficit pubblici e a favore di bilanci in pareggio. Europei, ovviamente.

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