Globalizzazione: de-globalizzazione o ri-globalizzazione?

23 04 23

daniele.langiu@gmail.com

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Introduzione

Sembra necessario affrontare con chiarezza un tema sollevato da alcuni a proposito della cosiddetta globalizzazione, e cioè che la globalizzazione stia di fatto avviandosi a conclusione, processo quest’ultimo che viene chiamato de-globalizzazione. La tesi che sosteniamo in questo articolo, come abbiamo fatto tangenzialmente e in modo non organico in altri nostri scritti recenti, è che in questo momento storico c’è poco valore aggiunto nell’interpretare il termine globalizzazione come aumento dei flussi di scambio internazionale, o di investimento diretto estero. La globalizzazione è meglio rappresentata come il processo di  internazionalizzazione di processi produttivi attuata mediante la frammentazione di processi produttivi precedentemente centralizzati in un solo paese e, spesso, in un solo impianto. In questo momento storico, invece, ciò che è interessante piuttosto, è identificare l’apparato teorico che informa le decisioni d’impresa, vale a dire, estremizzando per chiarezza, se le imprese si internazionalizzino come risultato della ricerca del proprio profitto massimo in (sostanziale) assenza di indicazioni, costrizioni o incentivi da parte del proprio governo nazionale, o se invece le scelte aziendali vengano guidate in maniera sostanziale da indicazioni, costrizioni o incentivi da parte del governo. In breve, la globalizzazione c’è stata, c’è, e ci sarà; ciò che cambia è il rapporto di forza tra il mercato e la politica nel determinare le scelte di globalizzazione quanto a intensità, forma, localizzazione geopolitica dei flussi commerciali, di investimento diretto estero, di imprese fornitrici e distributrici.

Abbiamo recentemente sottolineato il fatto che un numero crescente di stati-nazione sta re-introducendo misure organiche di politica industriale e politica commerciale con l’obiettivo di abbandonare nel più breve tempo possibile il regime di libero scambio internazionale che ha crescentemente caratterizzato il quarantennio 1975-2016. Ci sembra ora necessario offrire alcuni elementi utili all’inquadramento storico e teorico di questo cambiamento, del quale i più giovani in particolare hanno probabilmente difficoltà a percepire la portata epocale. La periodizzazione macro di riferimento (assai schematica) che utilizziamo suddivide gli 80 anni trascorsi dalla fine della Seconda guerra mondiale in tre fasi:

  • il periodo 1945-1972, cioè gli anni della ricostruzione e dell’ascesa del ruolo dello Stato nelle questioni economiche;
  • il periodo 1972-2013, il periodo che inizia con il viaggio del presidente Usa Nixon a Pechino da un lato per affrontare la questione della chiusura della guerra in Vietnam ma dall’altro anche, dal nostro punto di vista immediato, per avviare il processo di ‘ammissione’ dell’economia cinese nel mondo del libero scambio internazionale; questo periodo termina con la decisione del parlamento cinese di lanciare il programma Belt&Road che, abbiamo detto altrove, costituisce il prodromo del disaccoppiamento tra le economie cinese ed Usa;
  • e infine il periodo 2016-2023, che inizia con il rilancio delle politiche commerciali restrittive da parte del governo Usa.

Qui non siamo interessati a ricostruire o commentare gli avvenimenti di questi ultimi 80 anni, poiché il nostro obiettivo è mettere in evidenza le differenze essenziali tra l’approccio liberista del periodo 1975-2015, che informa la modalità in cui si sviluppa quella che è stata chiamata ‘globalizzazione’ e l’approccio susseguente, che è stato chiamato ‘de-globalizzazione’, termine il cui uso noi troviamo fuori luogo dal punto di vista fattuale e irrilevante da quello gnoseologico. Come abbiamo già avuto modo di argomentare in articoli precedenti, infatti, la nostra ipotesi è che, stanti le misure adottate finora da Usa e Cina, non siamo di fronte ad una de-globalizzazione, ma ad una regionalizzazione che dal punto di vista di scambi di merci dovrebbe comportare un aumento degli scambi tra paesi all’interno di una regione, nell’accezione di area di influenza economico-politica, maggiore rispetto alla crescita degli scambi tra questi paesi e paesi esterni a tale ‘regione’.

Nel primo paragrafo offriamo una ricostruzione sintetica delle caratteristiche salienti del liberismo in quanto approccio metodologico alla allocazione delle risorse internamente alla singola economia e a quella internazionale; nel secondo offriamo una ricostruzione dell’abbandono dei principi liberisti avvenuta a partire dal 2017 fino al ritorno all’approccio protezionistico e di ‘politica industriale’. Questo confronto non richiede conclusioni.

1. I caratteri salienti del neoliberismo, interno e internazionale

Con il termine liberismo ci si riferisce spesso a quel periodo di circa quarant’anni (1975-2015) che inizia con l’ascesa al potere di Ronald Reagan negli Stati uniti e di Margaret Thatcher nel Regno unito, identificato appunto con il termine liberismo (qui per una definizione introduttiva), che avrebbe identificato la teoria economica di riferimento dell’intero quarantennio.

Con la fine degli Accordi di Bretton Woods (1944-1971) l’ordine economico mondiale stabilito dopo la Seconda guerra mondiale subì una trasformazione decisiva. Ma gli anni Settanta non segnano solo la fine del sistema monetario internazionale allora conosciuto: anche la teoria economica keynesiana, che aveva guidato le scelte di politica economica, subì un grave contraccolpo ed una perdita di consenso per non riuscire a spiegare il periodo di stagflazione. In breve, il modello keynesiano sembrò inadeguato in una fase storica caratterizzata da aumenti sostanziali e generalizzati dei prezzi (inflazione), dato che esso si fondava sull’ipotesi di sostanziale stabilità di prezzi.

Emerge e si afferma con grande forza la teoria economica del neoliberismo che rigetta l’ipotesi keynesiana secondo cui l’economia capitalistica ha necessità di politiche economiche espansive, in assenza delle quali essa non è in grado di generare domanda di merci e servizi in misura adeguata a creare la piena occupazione delle forze produttive. All’opposto, la teoria neoliberale abbraccia l’ipotesi di efficienza dei mercati e sostiene che i mercati privati, se lasciati agire in libertà, assicurerebbero un’allocazione efficiente delle risorse. Ne consegue che assicurando la massima efficienza delle risorse, il paradigma neoliberale esclude che possa sorgere la necessità di un intervento dei Governi per stimolare la crescita economica, dato che il mercato indica sistematicamente quale sia la situazione ottimale date le risorse disponibili.

La fine del periodo di cambi fissi stabilito a Bretton Woods non mette in discussione l’esistenza di istituzioni e accordi volti a preservare la stabilità economica internazionale: FMI, Banca Mondiale e GATT (Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio) rimasero al loro posto, né la loro missione venne sostanzialmente modificata. Con particolare attenzione agli scambi internazionali, in una serie successiva di cosiddetti round, altri paesi aderirono agli accordi per ridurre i dazi alle importazioni e aprire i propri mercati al commercio internazionale; tra questi, forse il più importante è stato l’Uruguay Round (1986-1993) che ha sancito la nascita dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO).

A livello di attività economiche internazionali, e cioè scambi di merci e servizi, investimento diretto estero, formazione di catene globali di produzione e di fornitura, il regime neoliberista è stato codificato nel 1989 da John Wlliamson all’Institute for International Economics (oggi Peterson Institute for International Economics, PIEE). Nonostante Williamson avesse formulato le proprie raccomandazioni essenzialmente in termibni di raccomandazioni di politica economica per le economie sud-americane, il suo ‘decalogo’ divenne presto un blueprint per la riforma in senso liberista delle relazioni economiche internazionali. Per provare a dare una definizione al Washington Consensus possiamo fare riferimento a Serra e Stiglitz (The Washington Consensus Reconsidered, 2008) secondo cui il Washington Consensus è l’insieme di opinioni su strategie di sviluppo che sono state associate alle istituzioni con sede a Washington: appunto il FMI, la Banca Mondiale e il Tesoro degli Stati uniti.

La concezione originale del Washington Consensus si fondava su tre grandi idee: economia di mercato, apertura al mercato mondiale, disciplina macroeconomica. L’attuale interpretazione, invece, è più restrittiva in quanto si concentra principalmente sulla privatizzazione, la liberalizzazione e la stabilità macroeconomica. Più in generale, il Washington Consensus è stato associato al “fondamentalismo di mercato”, l’opinione secondo cui i mercati risolvono da soli la maggior parte, se non tutti, i problemi economici. Da questa linea, scaturisce in maniera chiara che l’obiettivo è creare le condizioni perché un numero crescente di paesi aderiscano alle medesime regole e alla forma di capitalismo di cui hanno beneficiato le economie di Stati uniti, Europa e Regno unito. E, dopo l’adozione di tali regole, il mercato e il capitale privato avrebbe fatto il resto. Questo vale non solo in ambito di politica economica nazionale, ma anche negli accordi di scambio internazionale.

2. Dal primato del mercato a quello dei governi

Si è detto di come, nel modello neoliberista, la decisione di internazionalizzarsi da parte delle imprese risponda alla ricerca delle modalità di massimizzazione dei profitti in un ambiente in cui ‘la politica’, cioè i governi nazionali, tende a comprimere comparativamente poco l’insieme delle scelte possibili. Questa è proprio la ragione per cui si parla di globalizzazione anziché di internazionalizzazione: lo stato del paese cui l’impresa appartiene non ha che un ruolo limitato nella scelta di localizzazione, della direzione dei flussi di scambio internazionale, di destinazione di investimenti diretti all’estero, di localizzazione geo-politica dei fornitori, di scelta delle catene di produzione in cui inserirsi: l’impresa sa, l’impresa sceglie, l’impresa farà profitti o incorrerà in perdite senza, in via di principio, poter addossare al proprio governo la responsabilità di profitti e perdite. Si dice, nel gergo degli economisti neoclassici (o mainstream come va di moda dire oggi), che è il libero mercato a fornire il quadro delle condizioni in cui l’impresa opera, senza che il governo intervenga dettando procedure, stabilendo dazi all’importazione e/o sussidi all’esportazione, rendendo noto a priori ad esempio quali siano le aree geopolitiche di riferimento ammissibili: esattamente l’opposto, insomma, della politica annunciata chiaramente dalla ministro del Tesoro usa Yellen quando ha portato alla ribalta il concetto di friend-shoring, definendo per le imprese Usa quali siano i paesi friendly, con i quali esse possono commerciare, da cui possono approvvigionarsi, con cui possono stabilire alleanze commerciali e produttive. Allo stesso modo, la ‘politica industriale’ identifica i settori produttivi nazionali che possono beneficiare di sussidi all’esportazione e quelli protetti mediante legislazione che impone che i prodotti finiti sul territorio nazionale contengano quote crescenti di valore aggiunto localmente.

Possiamo sostenere che si stanno posando le fondamenta per la costruzione di uno scenario economico post-neoliberale? Jake Sullivan, Consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden, non sembra dare spazio a questa interpretazione ma, come riportato nell’articolo di Rana Foroohar, editorialista del Financial Times, ha citato diversi principi fondamentali dell’amministrazione Biden ben coerenti con una visione post-neoliberale:

  • in primo luogo, l’idea che il sistema di mercato non sempre produce il risultato migliore, in particolare quando si tratta di beni pubblici come la sanità, l’istruzione e le infrastrutture;
  • in secondo luogo, Sullivan è stato anche chiaro sul fatto che l’aumento del commercio non si è tradotto in una maggiore libertà a livello globale; come avevamo già avuto modo di argomentare, questo è un riferimento all’errata convinzione che la Cina avrebbe adottato valori più vicini a quelli occidentali potendo sperimentare i vantaggi economici della globalizzazione; la convinzione dell’Amministrazione statunitense di allora (e non solo) era che la Cina avrebbe intrapreso un percorso di importazione di prodotti americani e, allo stesso tempo, di uno dei valori più cari alla democrazia: la libertà economica di stampo statunitense;
  • infine, Sullivan sembra sottolineare che l’accesso al mercato statunitense è un privilegio, non un diritto, e consentirne l’accesso o meno diventa un elemento di politica estera statunitense sempre più rilevante.

Anche in Unione europea si sta dando crescente attenzione al ruolo delle politiche dei governi nel guidare gli investimenti delle imprese e le scelte dei paesi ‘con cui internazionalizzarsi’. In particolare, sia i Governi nazionali sia la Commissione europea hanno criticato le misure dell’Inflation Redutcion Act definendole discriminatorie nei confronti delle imprese dell’Unione europea. E non sono solo critiche; l’Ue, infatti, sta provando a reagire a tali misure. In aggiunta, Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha parlato di strategia di de-risking nelle relazioni Ue-Cina, differenziandola dalla strategia di decoupling. Questa strategia poggia su diversi pilastri:

  1. Net-Zero Industry Act (parte del Green Deal Industrial Plan) e Raw Material Act per indirizzare gli investimenti delle imprese e diversificare la catena di approvvigionamento;
  2. Interventi di politica commerciale per affrontare i problemi di sicurezza, e adozione di nuovi strumenti di politica commerciale così che investimenti ed esportazioni non lavorino in senso contrario all’interesse e alla sicurezza dell’Ue;
  3. Nuove relazioni commerciali e/o aggiornamento degli accordi esistenti attraverso cui l’Ue possa intraprendere una comune strategia di de-risking.

È il caso di sottolineare che i concetti di friend-shoring e di de-risking, e l’implicazione politico-economica del loro uso, sono radicalmente diversi da quello di re-shoring che pur sembra andare per la maggiore nel nostro Paese: mentre infatti il re-shoring è l’atto di riportare in patria attività produttive che erano state off-shored, friend-shoring e de-risking sonoversioni del principio secondo cui il governo desidera che i flussi di scambio commerciale, gli investimenti diretti e la scelta dei fornitori avvenga in modo tale da ‘premiare’ aziende collocate in paesi ‘amici’ o potenzialmente tali. Ne consegue che friend-shoring e de-risking non tendono dunque a produrre una riduzione della globalizzazione, ma a guidare politicamente le scelte delle imprese su questi terreni (commercio, investimento, fornitura).

Lo scenario economico post-2016 è dunque, e sarà, sostanzialmente diverso da quello che ha caratterizzato il quarantennio precedente non perché vi sarà deglobalizzazione ma perché la ‘nuova globalizzazione’ sarà micro-gestita dai governi nazionali attraverso le politiche industriali e commerciali. Tale ‘nuova globalizzazione’ sarà caratterizzata da una crescente ‘frammentazione’, tema assai ben discusso nel Capitolo 4 del World Economic Outlook pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale ad aprile, per le implicazioni sulla prospettive di crescita del Pil mondiale, e anche da Christine Lagarde, Presidente della BCE, per le implicazioni che la ‘frammentazione’ può avere sulle scelte di politica monetaria. In maniera inequivocabile, il ruolo dei governi torna ad assume una centralità dimenticata da alcuni decenni. Ne consegue che l’apparato teorico-economico che ha sorretto e giustificato il periodo neoliberale difficilmente potrà essere adeguato a indirizzare, o giustificare, le scelte di governi e imprese.

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