di Daniele Langiu, Francesco Morello e Fabio Sdogati
Sono ormai passati quasi sei anni dal famoso 9 agosto 2007, giorno in cui BNP Paribas ha annunciato la mancanza di liquidità di tre dei suoi fondi di investimento, motivando tale scelta come la conseguenza necessaria della scarsa liquidità in certi segmenti del mercato delle cartolarizzazioni statunitensi che rendeva impossibile valutare correttamente certi titoli. Quest’annuncio, che ha segnato l’inizio della crisi finanziaria statunitense, si è trasferito presto al mondo delle imprese non finanziarie. In tal modo la crisi finanziaria è divenuta crisi dell’economia reale dell’economia statunitense e, data l’elevata connessione internazionale dei mercati reali e, ancor di più, dei mercati dei capitali, la crisi iniziata negli Stati Uniti si è propagata a livello globale, in primo luogo in Europa, ed in particolar modo tra i paesi dell’Eurozona.
La prolungata recessione che ne è conseguita ha alla sua base una trasformazione del modello di accumulazione della ricchezza nelle economie a più alto reddito pro-capite. Più precisamente, stiamo assistendo ad un processo di deindustrializzazione e di finanziarizzazione di queste economie che ha luogo tramite la concomitanza di alcuni fattori:
1. La riduzione del rendimento delle attività industriali, non solo in termini assoluti, ma anche relativamente al rendimento delle attività finanziarie;
2. La frammentazione internazionale della produzione, intrapresa con l’obiettivo di ridurre i costi del processo produttivo;
3. Un nuovo modo di governare l’impresa che si allinea alla necessità di ‘creare valore per l’azionista’;
4. La progressiva deregolamentazione del settore finanziario e la trasformazione delle banche, specialmente quelle commerciali, da creditori dei progetti di investimento di medio-lungo termine delle imprese a gestori di patrimoni.
Al centro dell’economia reale c’è quindi un cambiamento paradigmatico dell’organizzazione del processo produttivo. Fino alla metà degli anni settanta abbiamo sperimentato un modo di produrre basato su un principio fondamentale: il processo produttivo era integrato nazionalmente. Questo modo di produrre è necessariamente entrato in crisi quando la riduzione dei costi di coordinamento di fasi del processo produttivo ha permesso di allocare tali fasi all’estero. Il processo che ha preso forma è quello della Frammentazione Internazionale della Produzione.
Con la formazione delle catene globali di produzione, il valore aggiunto nella produzione non è più direttamente associabile ad un unico paese. Il valore aggiunto delle esportazioni di un determinato paese è ‘aggiunto’ non solo da imprese del paese stesso ma anche da imprese localizzate all’estero. È possibile osservare che per quasi tutti i settori e per quasi tutti i paesi, si sia verificato un incremento della quota di valore aggiunto estero contenuta nelle proprie esportazioni. Questo ad indicare che è in atto un processo di allocazione internazionale della fasi del processo produttivo, il cui obiettivo è far svolgere ad un costo relativamente più basso fasi del processo produttivo prima svolte all’interno dei confini nazionali. In particolare sono aumentati i beni intermedi importati sul totale dei beni importati.
A questo punto, viene da domandarsi:
1) quali saranno le caratteristiche dello scenario globale in cui le imprese si troveranno a competere?
2) l’internazionalizzazione è ancora una scelta per le imprese o è una condizione necessaria per poter continuare a competere globalmente?
Alla luce della nostra interpretazione della crisi, queste sono le prospettive delineate.
In primo luogo, negli Stati Uniti, la ripresa in atto è debole e fragile, in parte per la recessione in cui si trovano alcuni paesi dell’Eurozona e per la debole e fragile crescita nei restanti paesi dell’unione monetaria, che finora erano stati considerati “immuni” dai problemi specifici dei primi. La debolezza della ripresa implica in primo luogo debolezza della domanda. Per le imprese ciò è destinato a tradursi in due tendenze: concentrazione dei settori industriali e ricerca di efficienza tramite innovazioni di prodotto e di processo; tra queste ultime, l’ottimizzazione della supply chain su scala globale svolgerà sicuramente un ruolo di primo piano e rappresenterà una delle principali fonti di vantaggio competitivo.
La debolezza della domanda aggregata e la persistenza di un elevato tasso di disoccupazione lasciano presagire che ci sia spazio per un intervento ulteriore in termini di politica monetaria – non preoccupiamoci della crescita del livello dei prezzi, dato che c’è così tanta capacità inutilizzata nel sistema produttivo – e, soprattutto, per un rinnovato intervento di politica fiscale, volto a stimolare la componente pubblica della domanda aggregata e ad accrescere l’occupazione tramite delle adeguate politiche industriali. Per le grandi imprese questo significherà un’inevitabile ingerenza nelle scelte strategiche da parte dello stato, e per le piccole un diverso contesto di incentivi e vincoli in cui operare le proprie scelte, in primo luogo quelle di internazionalizzazione.
Inoltre, nonostante il rinnovato ruolo della politica economica, l’interdipendenza dell’economia mondiale è oggi tale da non lasciar presagire alcuna inversione di tendenza nel processo di globalizzazione in atto da ormai diversi decenni. Qualsiasi scelta di politica economica dovrà ormai tenere conto, oltre che delle realtà locali, anche delle implicazioni del modello dell’impresa globalmente integrata, e i maggiori benefici di qualsiasi ulteriore intervento governativo nell’economia toccheranno sicuramente proprio alle imprese più internazionalizzate.
Infine, il processo di deindustrializzazione dell’economia statunitense e delle altre economie a più alto reddito pro-capite evidenzia che per le imprese industriali di tali paesi, se prima aveva luogo la competizione per allocare fasi del proprio processo produttivo nei paesi a basso reddito pro-capite, ora progressivamente la competizione è con l’emergente settore industriale di tali paesi. Le implicazioni della crescita di un settore industriale nelle economie emergenti da considerare anche come un’opportunità dal lato della domanda, dato che, tramite l’industrializzazione di tali paesi, aumenta il reddito pro-capite dei suoi residenti.
In questo scenario, dal punto di vista macroeconomico, le risposte dei responsabili di politica economica hanno seguito due percorsi differenti: mentre la politica monetaria è stata crescentemente e ininterrottamente espansiva sin dallo scoppio della crisi finanziaria con manovre convenzionali (riduzioni dei tassi di sconto) e non convenzionali (quantitative easing), i governi hanno adotta una politica fiscale espansiva nei primi mesi della crisi e restrittiva da fine 2009 in poi. Dal punto di vista imprenditoriale, è necessario, invece, sottolineare che il processo di deindustrializzazione e finanziarizzazione delle economie a più alto reddito pro-capite necessariamente sottrae risorse, in primo luogo profitti, al settore industriale. Tali profitti, che progressivamente vengono distribuiti agli azionisti o utilizzati per l’acquisto di attività finanziarie, non possono essere più trattenuti dall’impresa per essere investiti nuovamente in essa. Per continuare ad essere profittevoli, è necessario internazionalizzarsi. La domanda a cui rispondere non è “se internazionalizzarsi oppure no”, piuttosto la domanda è “quando intraprendere un processo di internazionalizzazione”. I benefici di tale processo sono duplici: riduzione dei costi tramite la frammentazione internazionale della produzione e accesso ad un mercato in crescita, il che corrisponde ad una domanda aggregata di beni e servizi in crescita.
Ai responsabili della supply chain spetta oggi più che mai il compito di decifrare il contesto internazionale e di coglierne le opportunità, che pur in questa prolungata Grande Recessione di certo non mancano.