Dal progetto di capitalismo liberale universale ad un mondo tripolare?

21 01 01

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it

Introduzione

È dalle elezioni Usa del novembre 2016 che gli interventi di uno di noi, in aula come in altre occasioni pubbliche, riportano i risultati di riflessioni sull’andamento del commercio internazionale e, in particolare, sui rapporti economici tra Cina e Stati uniti. La prima parte di questo lavoro, condotto anche con i miei coautori, si è conclusa nell’ottobre 2020, in occasione del plenum del Comitato centrale del Partito comunista cinese e l’annuncio delle linee fondamentali del XIV piano quinquennale che, nella interpretazione di Langiu e Sdogati (novembre 2020), costituisce il compimento di quel percorso che avevamo definito, a inizio 2020, di disaccoppiamento tra Cina e Stati uniti.

Il disaccoppiamento a cui eravamo, e siamo ancora interessati, è quello che passa per la dinamica del saldo commerciale bilaterale tra le esportazioni dei due paesi di interesse. Con il progredire della nostra analisi, tuttavia, questa accezione di disaccoppiamento, seppur corretta, non ci è sembrata sufficiente a rappresentare la trasformazione delle economie statunitense, cinese ed europea avvenute tra la fine del XX secolo ed il primo decennio del XXI secolo. Quanto avvenuto negli anni Novanta del secolo scorso sembrava infatti aver rappresentato il punto di svolta per l’affermarsi del modello economico degli Stati uniti: il capitalismo liberale. Esistevano delle solide ragioni per ritenere che questo sarebbe avvenuto, e tra le tante pensiamo sia sufficiente citarne tre: il crollo dell’Unione sovietica, la crescente volontà della Cina di aderire all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) e la formazione dell’Unione economica e monetaria. La nostra tesi è che il primo ventennio del XXI secolo abbia disatteso le aspettative di un mondo unipolare e che lo scenario economico e geopolitico si stia sempre più configurando come un mondo tripolare.

Dal punto di vista economico, lo scoppio della bolla dot-com nel 2001, la crisi finanziaria del 2007 e la seguente Grande Recessione, la crisi del debito sovrano nell’Uem hanno mostrato che il capitalismo liberale emerso dopo la fine degli Accordi di Bretton Woods poteva essere soggetto a crisi endogene che hanno messo a rischio la sopravvivenza delle più importanti società, finanziarie e non, delle economie transatlantiche. Parallelamente, ad Oriente, l’adesione della Cina alle regole del commercio globale non ha portato gli effetti attesi dalle economie occidentali, in particolare dagli Stati uniti, di maggiore liberalismo economico. La Cina, inizialmente, ha seguito un percorso di crescita ‘tradizionale’ per le economie in via di sviluppo: attrazione di forti investimenti nel settore industriale e crescita guidata dalle esportazioni di merci. Tuttavia, il controllo del Governo sull’economia cinese è sempre stato forte e capillare anche nel settore finanziario. Lungi dall’essere un capitalismo liberale, la Cina ha sviluppato la propria forma di capitalismo, il capitalismo politico, che le ha consentito una crescita economica senza precedenti nella sua storia, di iniziare a competere con i settori statunitensi tecnologicamente avanzati, di rappresentare una delle ancore di salvezza dell’economia mondiale dopo il fallimento di Lehman Brothers nel 2008[1] e di avviare un percorso strategico di internazionalizzazione con la Belt & Road Initiative.

Rispetto allo scenario della Guerra fredda che vedeva Usa e Unione sovietica in competizione tra loro ma con due economie totalmente indipendenti, il mondo tripolare che analizziamo nell’articolo è interconnesso dalle catene globali di produzione e da un settore finanziario globale, un mondo articolato in almeno due modelli di capitalismo che, sotto aspetti differenti, hanno entrambi contribuito alla crescita economica di Usa, Europa e Cina.

Sosteniamo che il percorso verso un mondo tripolare è stato avviato e che esso è centrale per capire l’attuale contesto geopolitico che pone Usa, Cina ed Europa in un confronto che va oltre il commercio di merci e servizi, che noi abbiamo studiato in particolare, ma si estende alla tecnologia, alla proprietà intellettuale, ai dati e a temi di sicurezza nazionale.

1       Un contesto di stagnazione secolare

Il contesto economico delle economie ad alto reddito pro-capite è il nostro punto di partenza per analizzare le relazioni economiche internazionali.  Nel nostro caso, il contesto economico è ben descritto dall’espressione sintetica ‘stagnazione secolare’. La letteratura scientifica su questo tema è ormai vasta e ben consolidata. Una rapida sintesi può cominciare dal lavoro di Robert J. Gordon (2016), The Rise and Fall of American Growth, nel quale si mostra come il tasso di crescita della produttività media del lavoro negli Usa sia venuto sistematicamente decrescendo a partire dagli anni ’60.

La teoria della stagnazione secolare sostiene che da circa trenta, quarant’anni i tassi di crescita dell’economia dei paesi ad alto reddito pro-capite sono molto più bassi di quanto non fossero nel periodo 1870-1970. Il che si è tradotto in un eccesso di offerta di immobili industriali e da abitazione, un eccesso di offerta di capacità produttiva, un eccesso di offerta di lavoratori qualificati e soprattutto non, un eccesso di offerta di anziani. Tutto questo ha posto un problema non da poco: produrre è sempre meno profittevole. Non è profittevole produrre impianti industriali, abitazioni, beni di consumo.  In un discorso pronunciato al Fondo Monetario Internazionale nel novembre 2013, Lawrence Summers ha posto la domanda esplicitamente: siamo nel mezzo, o forse solo all’inizio, di una stagnazione secolare? Summers ha sottolineato che l’eccessiva propensione al risparmio e la diminuzione della propensione ad investire agiscono come un freno sulla domanda – riducendo la crescita economica e l’inflazione – e tendono a far diminuire i tassi di interesse. Quindi, i tassi di interesse “naturali” – cioè i tassi di interesse reali che bilanciano il risparmio e gli investimenti alla piena occupazione – sono così bassi che non possono essere raggiunti attraverso le politiche monetarie convenzionali (Summers, 2016). Tale impossibilità è dovuta, nelle parole di Paul Krugman, al fatto che: “la domanda privata è così debole che anche con un tasso di interesse a breve termine pari a zero la spesa è molto al di sotto di quanto sarebbe necessario per la piena occupazione. E i tassi di interesse non possono scendere sotto lo zero (eccetto banalmente per periodi molto brevi), perché gli investitori hanno sempre la possibilità di detenere semplicemente contanti.” (Krugman, 2013).

Una comparazione che coinvolga tutte le variabili macroeconomiche e il loro movimento nei due periodi è ovviamente al di là dello scopo di questo lavoro. In questa sede vogliamo evidenziare quelle che riteniamo essere le differenze fondamentali tra i periodi pre- e post-1980 in termini di prodotto interno lordo e produttività. L’espansione economica fu rapida e generalizzata all’indomani della Seconda guerra mondiale, quando i paesi d’Europa e il Giappone erano in fase di ricostruzione e, allo stesso tempo, alcuni dei benefici derivanti dal progresso tecnologico del periodo prebellico si diffondevano in molte economie. Il tasso di crescita del prodotto interno lordo reale passava poi da una media del 5,0% del periodo 1960 – 1980, al 2.6% nel ventennio 1981 – 2000, e all’1.6% negli ultimi sedici anni. Da notare il tasso di crescita negativo dell’Italia nell’ultimo periodo, per la quale la Grande Recessione è stata forte e difficile da combattere.

La caduta del tasso di crescita annuo del pil dei passati decenni si è accompagnata alla caduta della produttività del lavoro. La crescita tendenziale dell’output per ora lavorata è diminuita infatti da circa il 4,3% annuo durante il periodo post-bellico a circa l’1% durante l’ultimo decennio. Il declino rallentò negli anni ’80, ma riemerse alla metà degli anni ’90. A partire dalla metà degli anni ’90 un periodo di forte crescita della produttività, dovuto alla forte espansione dell’ICT, interessò gli Stati uniti. Ma si trattò di una ripresa temporanea, che aveva luogo all’interno di uno scenario di declino di lungo periodo.

Una propensione a risparmiare eccessiva da un lato, ed una caduta della propensione ad investire dall’altro, sono fattori di rallentamento della dinamica della domanda aggregata e, di conseguenza, della crescita dell’attività produttiva e dell’inflazione, oltre ad esercitare una pressione alla riduzione dei tassi di interesse (Summers, 2013; Rachel and Smith, 2015).

Molteplici sono le cause che possono aver contribuito ad un eccesso di risparmi rispetto alla domanda di investimento. I flussi di risparmio provenienti dai paesi ad economia emergente possono aver contribuito in maniera sostanziale all’eccesso di offerta di risparmi disponibili sui mercati finanziari dei paesi ad alto reddito pro capite (Bernanke, 2005; Bernanke, 2015); l’eccesso di indebitamento accumulato da imprese e famiglie nel periodo che va fino alla fine del 2005, e al successivo deleveraging (Rogoff, 2015). Ma altri trends secolari hanno contribuito in maniera indipendente a far crescere negli ultimi decenni la propensione al risparmio nei paesi ad alto reddito pro capite: il mutamento nella struttura demografica della popolazione da un lato, e la radicalizzazione della distribuzione del reddito dall’altra; sia l’aumento delle persone in età lavorativa sia la maggiore diseguaglianza nella distribuzione del reddito che della ricchezza hanno determinato un aumento dei risparmi aggregati.

Il ridimensionamento della domanda di beni di investimento è l’altro fattore determinante della caduta secolare del tasso di interesse naturale. Gordon (2012, 2014) fa risalire il basso tasso di crescita reale medio al declino del tasso di crescita della produttività, declino a sua volta determinate dalla progressiva riduzione della spesa per investimenti. Lo stesso FMI (2014a) documenta come nei paesi ad alto reddito pro capite il rapporto investimenti/Pil abbia cominciato a declinare fin dal 1980, e mostra come la causa del declino possa essere dovuta da un lato al diminuire del prezzo relative dei beni di investimento, e dall’altro alla caduta del tasso di remunerazione dell’investimento stesso. Un minor prezzo dei beni di investimento implica che un determinato progetto diventa progressivamente meno costoso al passare del tempo, così che determinati volumi di investimento possono essere realizzati a costi decrescenti, cioè in proporzione decrescente del pil. A peggiorare la situazione sta poi il fatto che non è stato soltanto l’investimento privato a diminuire nell’ultimo quarantennio circa: il declino dell’investimento pubblico è stato altrettanto rilevante, come documentato dal FMI (2014b).

La tesi di stagnazione secolare, così come presentata, sembra descrivere bene il ciclo economico di lungo corso in cui si sono venuti a trovare i paesi ad alto reddito pro-capite. Lo scenario ad Oriente, invece, è estremamente differente: non solo dalla fine degli anni Settanta il reddito pro-capite cinese è aumentato di venticinque volte e più di 800 milioni di cinesi sono usciti dalla povertà[2], ma dal 2009 è la crescita cinese a trainare la crescita mondiale[3]. Se estendere il modello di capitalismo statunitense ed europeo al resto del mondo fu il desiderio a partire dalla fine degli accordi di Bretton Woods (1971), il punto di partenza dell’analisi non può è che essere il progetto politico che nasce con Deng-Nixon.

2       Il progetto politico Deng-Nixon: estendere alla Cina il modello di capitalismo liberale (il ‘Washington consensus’)

La tesi che sosteniamo in questo articolo è che con il 2020 si è conclusa una fase dei rapporti Cina-Usa che abbiamo definito di disaccoppiamento. Per ricostruire i passaggi che hanno portato al disaccoppiamento, e per evidenziarne la portata storica, utilizziamo una periodizzazione che, largamente condivisa in letteratura, è pur sempre arbitraria, tanto più quanto abbiamo cercato di ‘sincronizzare’ le periodizzazioni relative ai due paesi. In sintesi essa è così rappresentabile:

PeriodoUsaCina
1945-1973Dalla fine della Seconda guerra mondiale alla caduta di Bretton Woods (1971-1973)Dalla costituzione della Repubblica Popolare Cinese (1949) alla morte di Mao (1976)
1975-2000  Verso il capitalismo liberale e il Washington consensusSuperamento delle politiche egualitarie di Mao e apertura alla filosofia degli incentivi di Deng
1980-2013Il periodo del compromesso: il surplus commerciale cinese finanzia il deficit pubblico UsaLa Cina diventa membro dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO)
2013 Il governo Xi Jinping lancia il progetto Belt and Road
2017Il governo Trump lancia il programma Make America Great AgainBelt and Road nella Costituzione della repubblica Popolare cinese
2017-2020Gli anni del disaccoppiamentoGli anni del disaccoppiamento
2020 Il Comitato Centrale del PCC lancia il XIV piano quinquennale; filosofia della doppia circolazione

2.1      Dagli accordi di Bretton Woods all’emergere del progetto Deng-Nixon

La sigla degli accordi di Bretton Woods nel 1944 rappresentò il momento chiave per stabilire l’ordine mondiale che sarebbe emerso alla fine della Seconda guerra mondiale. Dagli accordi nacquero il Fondo Monetario Internazionale (1945), la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, o Banca Mondiale (1945) e l’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio, conosciuto come GATT (1947). Questi accordi nascono in un contesto politico-economico afflitto dalla Guerra mondiale ancora in corso e dalla recente esperienza della Grande depressione del 1929. Furono indiscutibilmente gli Stati Uniti a guidare la firma di questi accordi che avrebbero costituito il perno del nuovo ordine che si sarebbe formato negli anni a venire. Da questi accordi emerge in maniera lampante l’interesse a formare un sistema economico internazionale basato sul capitalismo che permettesse di superare le divergenze tra paesi e soprattutto evitare conflitti mondiali. In tal senso, il GATT ha avuto l’obiettivo di posare la pietra angolare del regime di accordi multilaterali, progettato come fu con l’ambizione di aprire i mercati e limitare la possibilità dei governi di restringere le importazioni. Anche la Cina fu tra i ventitré firmatari del GATT nel 1947, ma la sua adesione fu di breve durata: nel 1950, il Governo Nazionalista cinese ritirò il Paese dal GATT[4].

È noto che l’accordo di Bretton Woods prevedeva un accesso limitato ad un numero esiguo di Paesi, quelli che sarebbero stati ammessi al sistema degli stati ad economia di mercato. Esso non prevedeva invece obiettivi specifici per quanto riguardava i rapporti tra queste economie e le economie pianificate né, in generale, con quelle che oggi definiremmo ‘alla periferia’ dell’economia mondiale.

Dal punto di vista della divisione internazionale del lavoro, il carattere essenziale del sistema di Bretton Woods sta nella divisione del mondo in (sostanzialmente) tre aree: noi, loro, e gli altri.  ‘Noi’ saremmo stati quei paesi che, vincitori o perdenti sul piano militare, sarebbero stati identificati come paesi ‘ad economia di mercato’. ‘Loro’ sarebbero stati i paesi d’oltre cortina; gli ‘altri’ sarebbero stati i paesi del resto del mondo. Con ‘loro’, ‘noi’ non avremmo trattato, mentre verso ‘gli altri’ saremmo stati sostanzialmente indifferenti, se non per assicurarci la fornitura di materie prime e prodotti energetici. È forse utile sottolineare che la divisione del lavoro tra le economie di mercato avrebbe seguito un modello di specializzazione commerciale basato sul principio del vantaggio comparato quasi da libro di testo. In questo scenario, la Cina era uno dei tanti ‘altri’ che aveva scelto sotto la guida di Mao Zedong di creare un sistema economico completamente isolato dal commercio globale.

Gli anni dalla fine della Seconda guerra mondiale alla fine degli anni Settanta, per il capitalismo occidentale, sono stati denominati, correttamente, ‘età dell’oro’. Certo, il conflitto sulla distribuzione del reddito c’è, in particolare tra le famiglie (lavoro) da un lato e le imprese produttive dall’altro; ma questa forma di capitalismo, appare a tutti un miglioramento epocale rispetto al modello economico precedente, nel quale profitti e salari erano in guerra per la spartizione di un reddito la cui dimensione complessiva era fortemente condizionato dalla rendita. Molti hanno autorevolmente scritto di una alleanza tra capitale e lavoro per l’abbattimento delle rendite, realizzata mediante il progresso tecnico: gli incrementi di produttività di capitale e lavoro garantivano a questi due fattori quote crescenti del reddito nazionale.  Che i destini di lavoro e capitale siano migliorati enormemente tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio dell’ultimo quarto del Novecento è fuori discussione. Se si guarda al capitale, si osserva una crescente libertà di movimento, politiche di spesa pubblica a favore della ricerca e dell’innovazione, sussidi e protezioni tariffarie; se si guarda al lavoro, basta ricordare la riduzione del tempo di lavoro, il sorgere dei diritti all’organizzazione sindacale, la difesa del lavoro femminile e minorile, i programmi pubblici di sicurezza sociale.

2.2      Il progetto Deng-Nixon: dalla fine degli accordi di Bretton-Woods all’ingresso della Cina nel WTO

L’ordine economico mondiale stabilito dopo la Seconda guerra mondiale subì una trasformazione decisiva con la fine degli accordi di Bretton Woods nel 1971. Nel 1971 il presidente Nixon, infatti, annunciò la decisione (unilaterale) degli Stati Uniti di revocare la parità del dollaro Usa contro l’oro, mentre rinnovava la disponibilità a del suo governo a continuare a venderne al prezzo di mercato. Nonostante ciò, FMI, Banca Mondiale e GATT vennero mantenuti; così come il ruolo di primo piano degli Stati Uniti e della loro forma di capitalismo. Con particolare attenzione al GATT, in una serie successiva di cosiddetti round, altri paesi aderirono agli accordi per ridurre le tariffe e aprire i propri mercati al commercio internazionale; tra questi, forse il più importante è stato l’Uruguay Round (1994) che ha sancito la nascita dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO).

Gli anni Settanta non segnano solo la fine di un sistema monetario internazionale basato sugli accordi di Bretton Woods. La teoria economica keynesiana, che aveva guidato le scelte di politica economica, subì un grave contraccolpo ed una perdita di consenso per non riuscire a spiegare il periodo di stagflazione. Emerge e si afferma con grande forza la teoria economica basata sull’efficienza dei mercati e sul fatto che i mercati, cioè capitale privato, se lasciati agire in libertà avrebbe assicurato un’allocazione efficiente delle risorse. Assicurando la massima efficienza delle risorse, non ci sarebbe stata la necessità di un intervento dei Governi per aumentare la crescita economica dato che il mercato aveva indicato qual era la situazione ottimale data la disponibilità delle risorse. Le stesse organizzazioni emerse dagli accordi di Bretton Woods adottarono questa linea di pensiero che viene definita Washington Consensus,di cui John Williamson (1990) ha fornito una chiara articolazione. Per provare a dare una definizione al Washington Consensus possiamo fare riferimento a Serra e Stiglitz (2008) secondo cui il Washington Consensus è l’insieme di opinioni su strategie di sviluppo che sono state associate alle istituzioni con sede a Washington: il FMI, la Banca Mondiale e il Tesoro degli Stati Uniti. I fautori del Washington Consensus sostengono che la concezione originale si fondava su tre grandi idee: economia di mercato, apertura al mondo, disciplina macroeconomica. L’attuale interpretazione, invece, è più restrittiva in quanto si concentra principalmente sulla privatizzazione, la liberalizzazione e la stabilità macroeconomica. Più in generale, il Washington Consensus è stato associato al “fondamentalismo del mercato”, l’opinione secondo cui i mercati risolvono da soli la maggior parte, se non tutti, i problemi economici.

Da questa linea, scaturisce in maniera chiara che l’obiettivo è creare le condizioni perché un numero crescente di paesi aderiscano alle medesime regole e alla forma di capitalismo di cui hanno beneficiato le economie di Stati Uniti, direi Europa e Regno unito. E, dopo che i diversi paesi avessero adottato tali regole, il mercato e il capitale privato avrebbe fatto il resto. Questo vale non solo in ambito di politica economica nazionale, ma anche negli accordi di scambio internazionale. In tal senso, l’adesione della Cina all’Organizzazione mondiale del commercio è stata voluta non solo dalla guida politica cinese, in primis da Deng Xiaoping e, poi, da Zhu Rongji e dal Governo degli Stati uniti, a partire dall’amministrazione Nixon[5] per poi finalizzarsi sotto l’amministrazione Clinton ma anche dalle imprese statunitensi[6].  È importante sottolineare ancora una volta la rilevanza degli Stati uniti nel contesto geopolitico: nonostante l’accesso al WTO dovesse essere negoziato bilateralmente con ogni paese membro, negoziare l’accesso al WTO con gli Stati Uniti significava aver superato il principale ostacolo per accedere all’Organizzazione[7].

Per aderirvi, la Cina dovette proseguire e intensificare il percorso di riforme avviato alla fine degli anni Settanta, sotto mandato di Deng Xiaoping. La scelta riformista di Deng ha permesso alla Cina di rimuovere alcuni vincoli alla crescita della produttività e contribuito a mantenere un tasso di crescita medio annuo dal 1977 al 2018 superiore al 7% in tutti gli anni ad eccezione del 1989, 1990 e 1991[8]. Su questa spinta riformista, non solo gli Stati Uniti avevano interessa all’adesione della Cina al WTO: anche la Cina stessa vedeva l’adesione all’Organizzazione come un passo verso l’obiettivo di creare un’economia socialista di mercato (socialist market economy)[9] e continuare la crescita economica guidata da investimenti e da esportazioni. Questo percorso ha previsto delle riforme importanti nell’economia cinese anche portando all’effetto di mettere in difficoltà parte delle imprese controllate dal governo (state-owned firms)[10]. Le riforme includevano anche l’apertura del mercato cinese agli investitori esteri che avrebbero così portato capitale e know how e questo fu ciò che accadde: nonostante gli eventi legati alla Protesta di Piazza Tienanmen che rallentarono la ri-ammissione della Cina nel GATT, la Cina nel 1993 rappresentava la destinazione di circa il 25% degli investimenti diretti esteri verso i paesi in via di sviluppo[11].

2.3      L’adesione della Cina al WTO e il rafforzamento delle relazioni Usa-Cina

La Cina aderì al WTO nel novembre 2001 e il concetto di integrazione economica assunse un significato ancora più importante. L’ondata di globalizzazione cresciuta negli ultimi decenni del XX secolo dovuta al calo dei costi di trasporto, alla riduzione delle protezioni e alla riduzione dei costi di coordinamento dei processi di acquisto, produzione e vendita a livello globale è stata ulteriormente rafforzata dall’adesione della Cina all’Organizzazione mondiale del commercio.

L’incessante ricerca di costi di produzione sempre più bassi, di competenze/risorse ‘specifiche del paese’ e la parallela ricerca di domanda per i propri prodotti e servizi, hanno portato le imprese alla graduale frammentazione del processo produttivo. Durante gli anni Settanta, gli Stati uniti avevano cominciato a sperimentare una nuova forma di divisione internazionale del lavoro, quella che sarebbe divenuta nota come ‘frammentazione internazionale della produzione’ o, in altri ambienti, catene globali di produzione. La sperimentazione avvenne essenzialmente con Corea del sud, Hong Kong, Singapore e Taiwan, con ciascuno del quali si sperimentava in settori merceologici diversi: tessile-abbigliamento prevalentemente con Hong Kong, componentistica elettronica con gli altri.

Insieme, il successo della sperimentazione con il modello «delle quattro tigri» e il processo di integrazione europea, che stava facendo la sua parte per minare il sistema di Bretton Woods, convinsero il governo degli Stati Uniti che era giunto il momento di cercare tra i paesi della periferia uno o più paesi rispetto ai quali porsi facilmente come consumatore di ultima istanza: e nel febbraio 1972, cioè immediatamente dopo aver annunciato la cessata validità degli accordi di Bretton Woods (nell’agosto 1971), il presidente Nixon si recò in visita ufficiale in Cina.

Verificata la fattibilità del progetto, gli Usa ne ampliarono a dismisura la scala coinvolgendo la Cina per le sue caratteristiche da un lato simili a quelle delle ‘quattro tigri asiatiche’ quali costo del lavoro bassissimo associato all’assenza di organizzazioni sindacali e, quindi, un pericolo remoto di aumento dei salari. Nel modello di divisione internazionale del lavoro, Stati Uniti e Cina sono andate così a costituire una coppia formidabile nella quale ciascun membro lavorava certo per il proprio benessere, ma in fondo anche per quello dell’altro. L’adesione della Cina al WTO ha quindi intensificato il processo di integrazione economica e ha creato le condizioni per le imprese di accedere ad un mercato in cui l’offerta di lavoro era ampia e disponibile.

La Cina, infatti, era ancor più attraente delle piccole tigri asiatiche, poiché da un lato possedeva un esercito industriale di riserva immenso[12], e dall’altro costituiva un mercato potenziale enorme sia per le tecnologie Usa più mature che per le esportazioni Usa in genere, se così si fosse deciso. Nel quadro del modello interpretativo qui adottato, rispondere al quesito «perché proprio la Cina?» non è difficile. Anzitutto, perché era indispensabile che il paese destinato a recepire il modello sperimentato con le «quattro tigri» – e cioè a funzionare da «fornitore di ultima istanza» – fosse grande abbastanza, per territorio e popolazione potenzialmente impiegabile, da assicurare le funzioni di produzione di merci e servizi che gli Stati Uniti avrebbero progressivamente allocato alle nuove sedi produttive; inoltre, il prescelto doveva essere grande abbastanza in termini di forza lavoro potenzialmente impiegabile, così che la rilocalizzazione dei processi produttivi non generasse nel giro di pochi anni pressioni sulla domanda di lavoro tali da spingere verso l’alto i salari espressi in valuta locale. Inoltre, esso doveva possedere una struttura amministrativa e politica capace di sostenere e comandare un processo di crescita adeguato alle esigenze poste dalla fornitura del paese più ricco del mondo, il quale intendeva continuare ad esserlo pur riducendo gradualmente la propria base produttiva interna di merci ad alto contenuto di lavoro non qualificato in generale, e manifatturiero in particolare.

Fu così che la produzione di parti e componenti per il settore manifatturiero Usa venne progressivamente affidata ai produttori cinesi, assicurando loro un mercato di sbocco e un surplus crescente di bilancia commerciale. Questo surplus veniva versato dai produttori cinesi nelle casse della banca centrale in cambio di yuan necessari per soddisfare le esigenze della produzione, e i dollari così ottenuti venivano impiegati dalla Banca del Popolo per l’acquisto del debito pubblico (e privato) Usa. Il risparmio cinese finanziava dunque in quantità crescente il debito Usa, ‘sostenibile’ non per la sobrietà del governo Usa, ma per via dei tassi di interesse bassi resi possibili dall’offerta crescente di risparmio cinese e durante i primi anni duemila dalla politica monetaria espansiva della Federal Reserve.

Agli occhi delle economie di mercato, il fatto che la Cina, per accedere al WTO, avesse dovuto accettare di ridurre le tariffe, i sussidi e altre barriere al commercio era un segnale che la Cina avrebbe rispettato le regole del capitalismo liberista di stampo occidentale. Non solo, l’allora presidente degli Stati Uniti vedeva l’adesione della Cina al WTO come un percorso di importazione non solo di prodotti americani ma anche di libertà economica di stampo statunitense[13]. Con la crescita del reddito pro-capite, infatti, ci si attendeva che le spinte della futura classe media ad una maggiore libertà avrebbero portato all’instaurarsi di una democrazia[14].

Questa convinzione derivava forse dal declino e successivo crollo dell’Unione sovietica. La caduta del muro di Berlino e il crollo dell’URSS avevano fatto ipotizzare che lo scenario economico internazionale si sarebbe evoluto secondo una dinamica chiara a cavallo di XX e XXI secolo: trionfo del modello economico e sociale guidato dagli Usa, ridimensionamento del ruolo del governo nell’economia, abbattimento delle barriere alla libera circolazione di prodotti e capitali finanziari, stabilizzazione dell’inflazione come target primario della politica economica e centralità della politica monetaria nel contrapporsi alle crisi economiche degli anni successivi. Sembrava, quindi, che il capitalismo nella sua accezione statunitense fosse il modello che avrebbe prevalso nell’economia mondiale. In particolare, trionfava il mercato: maggiore crescita economica e migliori standard in tutti i campi sarebbero stati raggiunti ridimensionando il ruolo del governo.

Tuttavia, nessuno, o forse pochi, immaginavano che la Grande Recessione 2008-2009 e la crisi economica dovuta alla pandemia da Covid-19 avrebbero fatto emergere l’importanza del governo per affrontare molteplici recessioni economiche presentatesi in tanto rapida successione. E, forse, ancor meno analisti, politologi ed economisti si sarebbero immaginati che la Cina non si sarebbe adeguata al modello capitalistico statunitense ma avrebbe scelto il proprio modello capitalistico (‘Capitalismo di Stato’, ‘China Inc.’, …).  La crisi finanziaria del 2007 e la seguente Grande Recessione, crisi endogena al capitalismo occidentale, avevano messo in evidenza che il mondo non era più unipolare ma bensì multipolare[15].

3       BR&I e MAGA: due strategie, lo stesso obiettivo: il controllo delle catene di produzione mediante la loro regionalizzazione

Il modello della catena globale di produzione sviluppatasi a partire dagli anni Settanta era basato sul verificarsi di poche condizioni abilitanti:

  1. Caduta dei costi di trasporto;
  2. Caduta dei costi di comunicazione e coordinamento (internet);
  3. Caduta delle barriere tariffarie e quantitative al libero scambio internazionale.

Il realizzarsi di queste condizioni rendeva progressivamente meno costoso il movimento internazionale di prodotti finiti, ma rendeva tale anche il movimento di semilavorati e intermedi. Il processo produttivo veniva così progressivamente frammentato tra diversi luoghi produttivi in diversi paesi, e in traffico mondiale di merci diventava progressivamente sempre più traffico di semilavorati che di prodotti finiti (a titolo di esempio si pensi che le importazioni di Singapore dal resto del mondo sono per oltre l’80% costituite da semilavorati e intermedi. Dello stesso ordine di grandezza la composizione delle importazioni. Da sottolineare che, a differenza di quanto si è creduto per decenni in Italia, il differenziale di costo del lavoro non è probabilmente la ragione principale della frammentazione della produzione: competenze del lavoro locale, vicinanza a fornitori, vicinanza a mercati di sbocco, diversità di regolamentazione, disponibilità del governo centrale e dei governi locali del paese ospite a fornire incentivi importanti quali sgravi fiscali al 100% o quasi per periodi assai lunghi, sono altrettanto, e spesso più, importanti del costo del lavoro).

3.1      La Belt and Road Initiative, 2013

L’inizio del processo di graduale svincolo tra le economie cinese e statunitense che altrove abbiamo definito disaccoppiamento può essere fatto risalire al 2013, anno in cui il presidente Xi annunciò un progetto di sviluppo infrastrutturale globale mirante fin dall’inizio a coinvolgere almeno settanta paesi in Asia orientale e meridionale, Asia centrale, Europa, Africa. L’importanza del progetto è chiara quando si pensi che nel 2017 esso è stato inserito nella Costituzione della Repubblica Popolare Cinese: in linguaggio occidentale, il progetto ha quindi forza di norma costituzionale, una forza immensa.

La caratteristica fondamentale del progetto risiede nella interconnessione tra l’essere un progetto di investimento in infrastrutture per la connettività e, coerentemente, di allargamento dei mercati sia di sbocco che di approvvigionamento per le imprese di tutti i paesi ed aree geografiche aderenti al progetto. Dal punto di vista strettamente economico Belt and Road ha le seguenti caratteristiche ed implicazioni:

  1. B&RI è la mobilitazione di enormi stanziamenti pubblici (governi e istituzioni sovranazionali) per il potenziamento di connessioni logistiche esistenti e per la loro integrazione tra i paesi aderenti al progetto. Esso rappresenta dunque uno stimolo potenzialmente gigantesco alla domanda mondiale di beni di investimento, e la conseguente creazione di occupazione su scala comparabile;
  2. B&RI ha un impatto potenziale sulla composizione geografica e merceologica dei flussi di commercio internazionale comparabile, forse, soltanto all’apertura delle vie marittime a partire dal XIII secolo. Ciò avviene per due serie di ragioni: potenziando fortemente le connessioni infrastrutturali, B&RI consente alle merci di arrivare a mercati l’accesso ai quali era reso proibitivo dai costi di trasporto, che si trattasse di mercati di sbocco o di approvvigionamento, moltiplicando i benefici dello scambio basato sul principio del vantaggio comparato e quelli legati all’inserimento di nuove imprese nelle catene globali di produzione. E in secondo luogo, come sappiamo da Adam Smith in avanti, la dimensione del mercato porta necessariamente ad ulteriore divisione del lavoro: in linguaggio moderno, cresce la specializzazione produttiva e, quindi, la produttività.

3.2      Make America Great Again

Nel 2017, subito dopo la vittoria alle elezioni presidenziali, l’amministrazione Trump inizia a rendere chiaro ai governi e alle imprese che la strategia di ‘guardiano e garante della globalizzazione’ verrà abbandonata. Nell’anno che corre tra Davos 2017 e Davos 2018 la strategia viene annunciata in maniera eloquente: le imprese estere vengono invitate ad andare a investire negli Stati uniti, e perché sia chiaro che cosa le aspetta se pensano di continuare ad esportare dal proprio paese: comincia la saga infinita dei dazi, a cominciare da quello sull’alluminio e l’acciaio, e delle minacce; le imprese Usa vengono minacciate di sanzioni pesanti se non tornano a produrre negli Usa; la Cina viene additata come un concorrente sleale e accusata di appropriarsi surrettiziamente di tecnologie Usa; ecc.

Nell’estate 2018 viene approvato dall’amministrazione Usa un piano di abbandono del North America Free Trade Agreement (NAFTA)a favore di un nuovo piano United States, Mexico and CAnada (USMCA), che contiene principi importanti per gli scambi in diversi settori, ma quello che interessa di più è quello relativo all’automobilistico. Il Trattato USMCA prevede infatti che i produttori Usa di auto possano importare, liberi da dazio, componenti prodotti in stabilimenti e paesi con un costo del lavoro minimo di $ 16/ora; e che il contenuto locale di valore aggiunto debba passare dal 64% al 72%. L’effetto combinato delle due misure è di eliminare i fornitori localizzati in paesi a costo del lavoro più basso e incentivare i fornitori esteri del settore automobilistico Usa a rilocalizzarsi negli Stati uniti se vogliono continuare ad essere tali.

3.3      Dalla globalizzazione alla regionalizzazione: vecchie e nuove catene globali di produzione

B&RI cinese e MAGA statunitense avranno necessariamente un impatto sulla permanenza o meno di ciascuna impresa nella catena globale di produzione di appartenenza. Soltanto le imprese di maggiori dimensioni, capaci di contrattare direttamente con gli stati sovrani, potranno per l’appunto contrattare la collocazione degli impianti e delle attività che controllano direttamente. I loro fornitori, anche di dimensioni importanti, dovranno adattarsi alle scelte del capofila, o ricollocarsi in catene di produzione alternative. L’esempio che viene in mente è quello della Merloni di Fabriano che anni fa, avendo deciso di centrare le proprie linee di assemblaggio in Turchia e Russia, indusse una netta separazione tra i fornitori che decisero di ‘seguire’ il capofila e quelle che decisero di non farlo. (Fabriano non ospita più, oggi, attività industriali quantitativamente degne di rilievo.)

Per quanto riguarda il polo Usa, i fornitori sono stati ‘consigliati’ ad investire direttamente negli Stati uniti; che cosa avverrà ai fornitori dei fornitori dipenderà da troppo variabili che non è il caso di discutere ora. Quanto al polo Cina, sembra ragionevole attendersi che i fornitori privilegiati saranno quelli disposti lungo le vie di terra e di mare previste, e salvi gli accordi tra Cina e governi (nazionali o, come nel caso europeo, gruppi di paesi).

4       Capitalismo liberale verso capitalismo politico

Sembra, quindi, necessario riconoscere l’esistenza di due modelli di capitalismo contrapposti tra loro e che dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca nel gennaio 2017 sono entrati in conflitto inizialmente e prioritariamente sul piano commerciale. La direzione in cui la situazione sta evolvendo comincia ad essere chiara. Noi sosteniamo da anni che le scelte di politica commerciale avrebbero ridefinito il quadro geopolitico e i flussi di scambio tra le grandi aree economiche Usa, Cina e Unione europea; ma è ormai chiaro che non solo dazi e blocco delle esportazioni, ma anche la proibizione di fusioni e acquisizioni hanno contribuito a produrre questo nuovo quadro che sta ormai prendendo forma in modo non ambiguo.

È bene enfatizzare che Cina e Usa operano secondo le regole del capitalismo. Come mostra Branko Milanovic in ‘Capitalism Alone, l’intera economia mondiale per la prima volta nella sua storia opera secondo gli stessi principi economici: produzione organizzata per fare profitto usando lavoratori liberi e retribuiti e tramite capitale prevalentemente privato, con coordinamento decentralizzato. Certo, alcune differenze esistono e sono importanti: in particolare, gli Stati uniti sono l’esempio di capitalismo liberale meritocratico, mentre la Cina mostra le caratteristiche più stringenti del capitalismo politico. In  ‘Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina’, Alessandro Aresu identifica sia in Stati uniti sia in Cina le principali espressioni del capitalismo politico. “[…] la categoria coniata da Aresu pone l’accento sulla compenetrazione di economia e politica in un ‘tutto organico’ che si verifica a più livelli e secondo diverse modalità nelle economie più avanzate: come simbiosi di Stato e partito comunista in Cina; come presenza di numerosi apparati burocratici deputati alla sicurezza nazionale negli Stati Uniti, con la loro panoplia di poteri di emergenza; come utilizzo a scopi politici della tecnologia e delle grandi imprese tecnologiche nella competizione internazionale; come capacità di definire industrie e settori ‘strategici’ da sostenere e di aziende ‘nemiche’ da avversare per la loro collocazione geopolitica; come capacità delle grandi potenze di guardare alle proprie economie secondo l’ottica della sicurezza nazionale”. [Lorenzo Masini nella sua recensione del libro di Aresu.]

Questa accezione di capitalismo è centrale per capire l’attuale contesto geopolitico che pone Usa e Cina in un confronto che va oltre il commercio di merci e servizi, che noi abbiamo studiato in particolare, ma si estende alla tecnologia, alla proprietà intellettuale, ai dati e a temi di sicurezza nazionale. Non sembra che né il governo Usa né il governo cinese siano disposti a lasciare questi domini alle regole del mercato, ma piuttosto siano intenzionati a regolamentarli.

5       L’Unione europea: il terzo polo (?)

Se gli anni Settanta hanno costituito il punto di rottura dell’equilibrio basato sugli accordi di Bretton Woods, gli anni Ottanta sono stati quelli della fase propositiva dell’integrazione europea, tanto sul piano degli allargamenti effettivi che su quello della formulazione dei progetti di rafforzamento dell’Unione (a quel tempo ancora Comunità economica europea). La candidatura greca si conclude con l’ammissione nel 1981; quelle portoghese e spagnola vanno a buon fine nel 1986; il 1984 è l’anno del Libro bianco di Jacques Delors; il 1988 l’anno del Rapporto Cecchini. L’essenza di questo processo sta nel fatto che mentre gli Stati uniti costruiscono la propria alleanza strategica con la Cina, l’Europa costruisce la propria area di influenza economica mediante allargamenti successivi e, sul piano identitario, attraverso un assetto che nel 1988 la fa apparire per la prima volta un «sistema monetario» prima della costituzione dell’Unione economica e monetaria.

Ma la grande novità la porterà il 1989, un anno cruciale per capire il ruolo emergente dell’Europa sulla scena mondiale. Il processo di transizione dei paesi dell’Europa centro-orientale da economie di comando ad economie di mercato, che inizia convenzionalmente in quell’anno si concluderà, almeno nella sua forma tumultuosa e dal punto di vista formale, il primo gennaio 2007, con l’ingresso nell’Unione di Bulgaria e Romania.

Fu proprio sulla gestione della transizione dei sistemi politico-economici dei paesi dell’Europa centro-orientale che, a partire dal 1989, si giocò la prima, importante partita globale tra Europa e Stati uniti e tra due scuole di pensiero assai diverse circa il modo in cui la transizione avrebbe dovuto essere gestita. Secondo la scuola di pensiero statunitense, fatta propria dal Fondo monetario internazionale, si rendeva necessaria una terapia d’urto del tipo di quella che il Fondo aveva suggerito per decenni ai paesi a basso reddito pro capite che incontrassero difficoltà nella gestione della propria bilancia dei pagamenti e della crescita interna: liberalizzazione del mercato del lavoro, delle merci e degli strumenti finanziari: in breve, abbandono del sistema di cambi fissi a favore di uno flessibile, mediante il quale la valuta locale potesse trovare il proprio cambio di equilibrio sul mercato mondiale; e adozione di politiche fiscali e monetarie credibilmente restrittive, allo scopo di esercitare immediatamente una forte pressione al ribasso del sistema dei prezzi.

La scuola di pensiero europea sosteneva, invece, che il processo di transizione non poteva essere semplicemente «lasciato» alle forze di mercato, e ciò per due ragioni: primo, perché in quei paesi le «forze di mercato» non si erano mai affermate prima o, alternativamente, da almeno due generazioni non esercitavano più il loro potere e la cultura di mercato ed imprenditoriale dei cittadini era di fatto inesistente; la seconda ragione era che, nell’esperienza delle economie di mercato, la politica economica aveva sempre giocato un ruolo importante nel guidare i comportamenti economici, che si erano affermati anche grazie a scelte politico-istituzionali di grande rilevanza per il funzionamento del mercato.

Ovviamente, il confronto non era banalmente culturale e ideologico: si trattava di definire chi avrebbe avuto influenza sui paesi e sulle economie di un’area del mondo che, da Bretton Woods in avanti, era stata definita come non esistente dal punto di vista tanto della divisione internazionale del lavoro che del suo ruolo nel sistema dei pagamenti internazionali. Quale «scuola di pensiero» abbia prevalso è ormai ovvio, come ovvii sono i successi ottenuti: ciò che oggi chiamiamo sinteticamente Ue-27 è un’area economica caratterizzata da un’integrazione produttiva e commerciale importante, nella quale la vecchia Ue-15 rappresenta il mercato di sbocco di gran lunga più importante per i nuovi paesi membri, e nella quale le strutture produttive si sono venute integrando mediante il trasferimento verso est di parti importanti della manifattura. Infine, si tratta di un’area che gode di una mobilità delle persone e dei capitali impensabile solo fino a trent’anni fa, e in cui esiste una sola moneta ed una sola banca centrale per diciannove dei ventisette membri, e in cui i membri residui sono impegnati a realizzare le condizioni di adesione all’Uem; e così via. Le due politiche di espansione sullo scenario internazionale adottate dall’Ue, il ‘mercato unico’ e gli ‘accordi di associazione’ con i paesi in transizione dell’Europa centro-orientale, hanno avuto l’esito atteso di eliminare molti ostacoli alla ristrutturazione industriale, raggiungere economie di scala, consentire alle imprese con sede nell’Ue di frammentare la produzione e accedere ai nuovi mercati di esportazione dell’Europa centro-orientale.

Sorge allora la domanda: quali sono stati gli effetti dell’integrazione europea sul posizionamento dell’Ue nell’economia mondiale?

Il progetto tanto ambizioso quanto importante di un’Europa integrata ha avuto l’obiettivo, dal punto di vista economico, di creare condizioni migliori entro cui potesse avvenire la produzione, un mercato grande che, secondo gli insegnamenti di Adam Smith, favorisse con la crescita dimensionale dei mercati la crescita della produttività, la disponibilità di merci e servizi per tutti i residenti dei paesi membri a prezzi accessibili, opportunità di occupazione e di istruzione per molti se non per tutti. La crisi dell’Europa nel 2010, a seguito della Grande Recessione, è autenticamente europea (Tooze, 2018). La gestione di questa crisi e la volontà disgregatrice di parte del personale politico degli stati membri, si veda ad esempio il processo della Brexit, hanno creato una sensazione di smarrimento di molti di fronte al concetto di ‘Europa’ e ancor di più hanno portato l’Unione europea a porre molta più enfasi sulla difesa dell’Unione. Dal nostro punto di vista, questo è stato necessario, e fondamentale durante il periodo della Presidenza Trump, per creare le condizioni perché l’Europa possa divenire il ‘terzo polo’ del mondo multipolare che si sta configurando.

Conclusioni

La tesi presentata in questo articolo è che lo scenario economico e geopolitico internazionale è caratterizzato da un mondo tripolare. Il nostro pensiero è partito dall’analisi del processo di disaccoppiamento Usa-Cina presentata in una serie di articoli pubblicati tra 2019 e 2020, il cui obiettivo era mostrare se e quali cambiamenti sugli scambi di merci erano in corso.

La nostra analisi, tuttavia, ci ha condotto a adottare una prospettiva storica più profonda e un approccio esteso oltre gli scambi di merci tra paesi. Abbiamo voluto provare ad introdurre i passaggi e l’evoluzione storica delle relazioni tra i tre poli Usa, Cina ed Europa, per mostrare che lo scenario internazionale sta andando nella direzione della multipolarità. Il modello economico di capitalismo liberale che sembrava potesse essere esteso dagli Stati uniti al resto del mondo è stato crescentemente sfidato dal modello economico con caratteristiche cinesi che abbiamo presentato come capitalismo politico.

Il progetto di sviluppo infrastrutturale Belt & Road Initiative cinese, il progetto MAGA dell’amministrazione Usa tra 2017 e 2020 hanno rafforzato la prospettiva di uno scenario geopolitico a due poli. E in questa direzione spinge anche quanto emerso dal quinto Plenum del XIX Comitato centrale del Partito comunista cinese che ha annunciato il piano di sviluppo economico e sociale per gli anni 2021-25 insieme al programma Vision 2035, ponendo le basi per il disaccoppiamento dell’economia cinese da quella americana. Sembra dunque che il disaccoppiamento stia ora entrando nella sua fase di completamento logico secondo la reazione specificata da Xi Jinping: «È necessario promuovere la formazione di un nuovo modello di sviluppo in cui il grande ciclo domestico sia il corpo principale e nel quale la doppia circolazione si promuove a vicenda». Xi Jinping, in pratica, si prepara a sancire un passaggio storico della Cina, da luogo di produzione a luogo anche di consumi.

Due poli. A cui potrebbe (è legittimo e necessario utilizzare il condizionale) aggiungersene un terzo: l’Unione europea. Dal punto di vista economico, nei primi due decenni del XXI secolo, l’Unione è stata più attenta a gestire prima l’integrazione dei paesi dell’Est Europa, poi la crisi del debito sovrano e quindi gli accordi con il Regno unito a seguito della decisione di procedere con la Brexit. Alla fine del 2020, l’accordo tra Ue e Cina sugli investimenti raggiunto a fine dicembre sembra segnare la formazione di un terzo polo.

La nostra interpretazione, seppur parziale, vuole presentare questi ultimi anni come un momento di cesura rispetto al passato sullo scenario geopolitico. Solo il tempo ci dirà se avremo ragione, ma gli elementi presentati finora sembrano confermare che il percorso verso un mondo tripolare sia già stato intrapreso.

Bibliografia

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[1] È utile ricordare che nell’autunno 2008, con la decisione congiunta del governo e della banca centrale Usa di lasciar fallire Lehman Brothers, non solo diventa chiara la dimensione della crisi finanziaria del 2007, ma si manifesta in maniera lampante il ruolo della Cina nell’economia mondiale. Nel novembre 2008, a Washington D.C., viene presa la decisione di avviare una controffensiva congiunta contro la crisi incombente: al governo cinese viene demandato uno sforzo di spesa in disavanzo per 586 miliardi dollari, il 12,5% del Pil del paese del 2008.

[2] Davis & Wei (2020, pagina 42): “Over the following four decades [dalla visita di Nixon in Cina nel 1972], China increased per capita income 25-fold and lifted more than 800 million Chinese people out of poverty, according to the World Bank-more than 70 percent of the total poverty reduction in the world. China evolved from a nation filled with famine and deprivation into the world’s second-largest economy, and Americas’ greatest competitor for leadership in the twenty-first century”.

[3] Tooze (2018, pagina 280): “Nel 2009, per la prima volta in epoca moderna, era il movimento dell’economia cinese a trainare l’intera economia mondiale. Insieme all’enorme stimolo alla liquidità messo in atto dalla Federal Reserve americana, lo stimolo fiscale e finanziario combinato avviato dalla Cina era la principale forza attivata in risposta alla crisi globale. Benché non si trattasse di politiche coordinate, esse concretizzavano la visione di un G2: Cina e America a capo del mondo.”.

[4] Blustein, P. (2019): “China’s status as a GATT contracting party, however, was short lived. The Chinese officials signing the compact represented the Nationalist government, which was driven form the mainland in the fall of 1949 by Communist revolutionaries under the leadership of Mao Zedong, who triumphantly proclaimed the founding of the People’s Republic of China (PRC). From their base in Taiwan, the only Chinese province they controlled, the Nationalists formally withdrew China’s GATT status the following year. That was of little concern to Mao, who was forging a system almost fully isolated from the global commerce.”.

[5] Washburn (2012): “While developments in China have largely been driven by internal factors, had President Richard Nixon not made his historic trip, it is entirely possible that the internal changes which transformed the People’s Republic in the decades that followed would not have occurred — and the country might have evolved in a very different way.”; “The Nixon opening generated enormous, lasting benefits for America. Clearly it did so for China, as well.”; “Had Nixon not gone to China, it is hard to imagine how U.S.-China relations would not have been a great deal more unstable than they currently are. ”If Nixon had not made his visit, the process of China’s international emergence and economic development would have been delayed, perhaps by a decade or more.”

[6] Davis & Wei (2020, pagina 56): “Eleven days after Bill Clinton was elected president, the National Association of Manufacturers, the nation’s largest manufacturing trade association, wrote the Clinton transition team to make the case that granting China MFN [most-favored-nation] status was essential to the revival of U.S. competitiveness, which candidate Clinton had promised. Without the trade preferences, business “cannot afford to make the investments that would be necessary to take advantage of market opportunities in China,” NAM’s president wrote.”.

[7] Blustein, P. (2019, pagina 15): “Joining the WTO – “acceding”, in WTO speak – is a lot more complicated than submitting an application form and paying dues. To get in, a country must negotiate bilaterally with any WTO member that wishes to obtain some changes to the prospective member’s trade regime, and all changes that are agreed are extended to the entire membership in accord with the MFN [most-favored-nation] principle. Any one member dissatisfied with the terms can block the accession. Striking a deal with the United States was therefore not the only hurdle China had to surmount. But it was by far the most important.”. Davis & Wei (2020): “No negotiation was more important than the one with the United States, the nation that had the most to offer – untrammeled access to the worlds’ largest market – and drove the hardest bargain. Under WTO rules, any concession China made to the United States (or another nation) had to be offered to every other member.”.

[8] Klein & Pettis (2020, pagina 105): “To prevent collapse, the Chinese economy had to be transformed in a way that eliminated the many constraints on economic productivity that had developed over the preceding decades. Deng Xiaoping’s reforms did just that and, what is more, were immediately successful.”

[9] Davis & Wei (2020, pagina 66): “China had begun negotiations to join the WTO’s predecessor organization, called the General Agreement on Tariffs and Trade, in 1986. It wasn’t an easy decision for Beijing. At the time, China’s economy was nearly fully controlled by the Communist Party and the governments’ state-owned firms. Private real estate barely existed. Export industries and foreign investors were confined to special export zones along the coast. It wasn’t until 1992 that the Communist Party, at the 14th Communist Party Congress, adopted the goal of creating an “socialist market economy”.”.

[10] Davis & Wei (2020, pagina 68): “If China wants to join the WTO, wants to be integrated in international community, then China must play by the rules of the game,” Zhu [Zhu Rongji, Primo ministro del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese (1998–2003)] explained later. “China can’t do that without making concessions. Of course, such concessions might bring about a very hug e impact on such state-owned enterprises, and also on China’s market.”.”

[11] Blustein (2019, pagine 22-23): “Although Chinese exports retained access to the US market under MFN terms, the “butchers of Beijing” (the term used by Clinton in his 1992presidential campaign) were unwelcome at the international trade negotiating table. This stance would continue in the early 1990s, even as capital from the world’s biggest multinationals – Coca-Cola, Volkswagen, General Electric (GE), Fujitsu and Ericsson, to name a few – poured into China, which by 1993 accounted for almost one-quarter of all foreign direct investment (FDI) in developing countries.”.

[12] Blutein (2019, pagina 23): “Much of the investment was aimed at using low-wage Chinese labour for manufacturing goods that would be exported abroad. Per-capita income in 1993 was estimated at $380 a year, and about 900 million Chinese – three quarters of the population – were peasants, migrating by the tens of millions each year from the rural interior in search of factory jobs affording better living standards than they could hope for in their villages.”.

[13] Davis & Wei (2020, pagina 87): “By joining the WTO, China is not simply agreeing to import more of our products; it is agreeing to import one of democracy’s most cherished values: economic freedom,” the president [Bill Clinton] said on March 8, 2000. “the more china liberalizes its economy, the more fully it will liberate the potential of the people…And when individuals have the power not joust to dream, but to realize their dreams they will demand a greater say.”. 

[14] Henry S. Rowen, che fu economista e poi presidente della RAND Coporation e guidò il National Intelligent Council durante la presidenza di Ronald Regan, nel 1999 scriveva: “For twenty years, China’s economy has been growing at a remarkable 6 percent a year on average, measured in international prices. If all continues to go well (not a sure thing), by 2015 China will have a per capita GDP of about $7,000—the level at which all previous countries have become at least “partly free” in the Freedom House ratings. Although no one is likely to confuse China that year with, say, Sweden, it’s likely the Chinese will join the club of nations well along on the road to democracy within two decades from now.”.

[15] Tooze (2018, pagina 157): “Fu in questo contesto che il presidente [francese] Sarkozy dichiarò all’Assemblea generale delle nazioni Unite: “L’Europa non vuole la guerra. Non vuole una guerra fredda…Questo non è più un mondo unipolare con una sola superpotenza, e non è nemmeno un mondo bipolare con un Oriente e un Occidente. Questo di oggi è un mondo multipolare”.”.

One thought on “Dal progetto di capitalismo liberale universale ad un mondo tripolare?

  1. molto interessante grazie!; tuttavia mi permetto di farvi notare un piccolo particolare: a Singapore è presente soprattutto l’industria petrochimica (Exxon, Shell) e farmaceutica con Novartis e GSK piuttosto che la componentistica come riportato nel testo al punto 2.3

    Gentilissimo, nell’articolo parliamo dell’inizio del ianni settanta.
    Grazie,
    fs

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