Dal disaccoppiamento tra Cina e Usa ad un nuovo ordine n-polare?

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com
Fabio Sdogati, sdogati@gsom.polimi.it

25 02 09

Introduzione
“Con nuove tariffe, Donald Trump minaccia di innescare un’era di guerre commerciali”. Così titola un articolo del Financial Times pubblicato il 31 gennaio, alcune ore prima che il piano dell’Amministrazione Trump di imporre dazi del 25% su Canada e Messico entrasse in vigore. Trump ha anche esteso la minaccia includendo l’Unione europea. Conclusa dunque l’applicazione dell’approccio denominato ‘friend-shoring’? Dal nostro punto di vista, no: piuttosto, il dazio diventa uno strumento negoziale per allineare le politiche dei paesi agli obiettivi dell’Amministrazione Trump. Da alcuni anni, scriviamo di disaccoppiamento Cina-Usa e abbiamo provato ad argomentare che la Belt & Road Initiative del Presidente Xi Jinping e la strategia Make America Great Again (MAGA) della prima Amministrazione Trump (2017-2021) hanno rappresentato e rappresentano il tentativo di creare delle ‘regioni’ attorno a due poli. Progressivamente, anche durante l’Amministrazione Biden (2021-2025), le politiche industriale e commerciale del Governo Usa e Cinese hanno perseguito la creazione dei due poli.

Obiettivo finale di questo articolo è identificare i possibili scenari di regionalizzazione che potrebbero prendere corpo per effetto dei dazi sugli scambi commerciali e, indirettamente, sugli investimenti diretti esteri. Certamente vedremo in primo luogo un aumento dei flussi di investimento diretto dall’estero verso gli Usa, come è nelle intenzioni dell’Amministrazione. Ma l’adozione di misure di protezione tariffaria sulla scala dichiarata indurrà necessariamente imprese e governi ad adottare iniziative di contrasto, o di difesa che dir si voglia che, per dimensione della distorsione ‘punitiva’ rappresentata dal dazio, e per la dimensione relativa delle economie interessate, porterebbero alla riconfigurazione della divisione internazionale del lavoro e delle catene globali di produzione. Queste ‘iniziative di contrasto’ genereranno una ri-direzione dei flussi commerciali a danno degli Usa e il rifiorire di flussi di investimenti diretti esteri dalla Cina verso paesi altri dagli Usa e tra paesi ‘terzi’.

Per quanto sia bene astenersi da previsioni vista la complessità del gioco strategico tra paesi messo in moto dalle politiche protezionistiche Usa, possiamo ipotizzare due modelli di regionalizzazione delle catene globali di produzione che abbiamo a provato a schematizzare in Figura 1:

  1. Modello 1: modello bipolare ‘puro’. Due poli, ciascuno dei paesi ‘minori’ sceglie attorno a quale dei due poli gli sia più conveniente ruotare, cioè a quali catene globali di produzione aderire; simmetricamente, ciascuno dei due poli scegli i paesi ai quali consentirà di vivere della propria luce (friendly shoring);
  2. Modello 2: modello bipolare con emergere dei paesi ‘non allineati’-‘connettori’. Due poli, ma anche un elevato numero di paesi ‘indipendenti’ che adotteranno politiche di vicinanza con entrambi i poli senza rapporti di esclusività e, così facendo, manterranno anche i propri spazi di manovra per sviluppare rapporti economici tra di loro.
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Dazi su tutto? Alcuni effetti potenziali su divisione internazionale del lavoro e catene globali di produzione e approvvigionamento

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@gsom.polimi.it

24 10 13

Introduzione e sommario

È tempo di elezioni negli Stati uniti. E uno dei candidati ha già reso molto chiaro che, se eletto, intende replicare le scelte di politica commerciale che aveva già adottato durante il suo primo mandato: dazi. La differenza è che stavolta si tratterebbe di dazi su tutto l’universo delle merci ed i servizi importati dagli Stati uniti. Dazi su tutto, viene da dire, un uso del dazio massiccio al punto di snaturare l’obiettivo tradizionale del dazio, che era ‘proteggere‘ dalla concorrenza estera i produttori nazionali di un settore produttivo ben delimitato mediante l’innalzamento artificiale del prezzo interno del prodotto importato.

In questo articolo vogliamo spostare l’attenzione dagli effetti sui prezzi, a quelli sulla direzione dei flussi internazionali degli investimenti produttivi e, quindi, sulla riconfigurazione delle catene globali di produzione. L’ipotesi alla base di questa prima riflessione è che i paesi le cui merci esportate vengono sottoposte a protezione mediante dazi cercheranno modi di reagire adottando politiche di investimento diretto (produttivo) in paesi diversi da quelli che impongono il dazio, con ciò forzando politicamente la allocazione degli investimenti e dei siti produttivi a livello mondiale.

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Dalla globalizzazione alla regionalizzazione: come sta cambiando la composizione geografica dei flussi commerciali bilaterali degli Usa?

24 04 07

Daniele Langiu, Daniele.Langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@gsom.polimi.it

Introduzione

Da alcuni anni stiamo affrontando da un punto di vista teorico alcune questioni inerenti la nuova forma di globalizzazione che sembra progressivamente emergere dalle spinte di disaccoppiamento / derisking dei Governi, in particolare Usa e Ue. Questa nuova forma ha la caratteristica di essere ‘regionale’, con un’accezione sia geografica sia politica. In sintesi, sulla base delle dichiarazioni dei Governi e delle politiche industriali e commerciali adottate, siamo arrivati a formulare la tesi secondo cui la crescita degli scambi di merci e gli investimenti, a parità di altre condizioni, sarà maggiore all’interno di una regione formata da paesi affini dal punto di vista politico e, in secondo luogo, vicini da un punto di vista geografico, rispetto a quella tra due regioni ‘non affini’ dal punto di vista politico. Per dirlo in modo più eclatante: ci sembra che il modello ricardiano del vantaggio comparato, con il quale per due secoli abbiamo spiegato direzione e composizione dei flussi commerciali internazionali, stia perdendo progressivamente di importanza come spiegazione della direzione e della composizione merceologica dei flussi commerciali i quali, sembrerebbe di poter dire, sono (e saranno) in primo luogo determinati dalla politica in qualche forma di combinazione con la geografia, e solo infine dal vantaggio comparato. Il che è sostanzialmente quello che avviene nella transizione da un modello di globalizzazione ‘di mercato’ ad uno di ‘globalizzazione’ politica a fondamento nazionalista.

È evidente che il concetto di ‘regione’ che abbiamo appena introdotto è difficile da definire perché, molteplici sono i criteri che concorrono a identificare una ‘regione’: le scelte politiche, la posizione geografica, la specializzazione produttiva, probabilmente in questo ordine di importanza. In quel che segue non avremo la presunzione di perseguire il problema sul piano teorico per determinare quali siamo i contributi relativi di ciascuna di queste forze alla definizione di ‘regione.’ Piuttosto, obiettivo di questo articolo è proseguire l’analisi empirica che abbiamo già avuto modo di trattare qui e qui riguardante l’evoluzione della composizione merceologica e della direzione geografica degli scambi di merci degli Stati uniti a partire dal 2016, e provare ad individuare dei tratti ‘misurabili’ del processo di regionalizzazione degli scambi.

Abbiamo già avuto modo di esplicitare le ragioni per la scelta degli Stati uniti come Paese di interesse primario e dell’anno 2016 come punto di partenza della nostra analisi: in breve, le nostre ragioni sono riconducibili al fatto che il modello di globalizzazione che abbiamo sperimentato a partire dalla metà degli anni Settanta è entrato in crisi a partire dal 2016, quando gli Usa hanno adottato l’orientamento noto come Make America Great Again (MAGA) ripristinando dazi e restrizioni quantitative alle importazioni, in particolare quelle provenienti dalla Cina. Tale orientamento ha guidato tutta la fase dell’Amministrazione Trump ed è poi stato adottato anche dall’Amministrazione Biden con un’enfasi ancora maggiore sulle implicazioni della priorità delle considerazioni di sicurezza nazionale degli Usa rispetto al ‘libero commercio’.

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Politiche fiscale e monetaria possono influenzare i tassi di interesse nel breve periodo, ma quali sono gli effetti del disaccoppiamento Usa-Cina su tassi di interesse e prezzi?

24 03 03

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@gsom.polimi.it

Introduzione

L’attuale discussione sull’andamento del tasso di interesse è molto incentrata sulle scelte di politica monetaria delle Banche centrali e di politica fiscale dei Governi. Senza dubbio, sia la politica fiscale sia, in modo ancor più diretto, la politica monetaria hanno la capacità di influenzare l’andamento dei tassi di interesse nel breve periodo. Secondo noi, tuttavia, è necessario includere nell’analisi del futuro andamento del tasso di interesse anche un elemento chiave su cui stiamo scrivendo da alcuni anni a questa parte: lo sforzo di Usa e Cina di ridurre dipendenze commerciali che è stato in origine definito disaccoppiamento.

Perché introdurre le relazioni Usa-Cina nell’analisi delle prospettive del tasso di interesse? Perché la relazione economica tra Usa e Cina intercorsa a seguito dell’accesso della Cina all’Organizzazione mondiale del commercio è uno dei fattori che hanno contribuito a mantenere bassi i tassi di interesse negli Usa. In sintesi, la domanda di merci cinesi da parte degli Usa ha permesso alla Cina di avere un surplus commerciale e, quindi, risparmi che sono stati usati per comprare titoli di debito del Governo Usa: e maggiore domanda di titolo di debito implica tassi di interesse minori sullo stesso.

L’obiettivo di questo articolo è inserire gli effetti del disaccoppiamento Usa-Cina nell’attuale dibattito sull’andamento dei tassi di interesse e, quindi, provare ad analizzare le implicazioni per i tassi di interesse in uno scenario in cui:

  1. la Cina non abbia un consumatore di ultima istanza (gli Usa, e tendenzialmente anche l’Europa)) che le consenta di esportare i propri risparmi, ipotizzando che almeno nel breve periodo la Cina continui a esportare più di quanto importi;
  2. gli Usa non trovino un volume comparabile di risparmi che consentano di finanziare il proprio debito pubblico ai tassi storicamente bassi del periodo 2003-2016.
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L’austerità torna a colpire. Ma la politica industriale richiede spesa pubblica in disavanzo

23 12 10

Daniele Langiu daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati    sdogati@gsom.polimi.it

Obiettivo di questo articolo è sottolineare la contraddizione tra volontà politica di ritorno all’austerità da un lato e necessità di finanziare la spesa pubblica per investimenti a fronte della sempre più scarsa spesa privata. Due notizie ci aiutano a identificare l’obiettivo dell’articolo. Il 15 novembre scorso, Il Governo tedesco ha ordinato il blocco di tutti i pagamenti del suo fondo centrale per la trasformazione climatica (KFT), dopo che la Corte Suprema del Paese ha stabilito come incostituzionale la riallocazione di 60 miliardi di euro precedentemente stanziati ma non spesi durante la pandemia da Covid-19. Ad inizio 2023, inoltre, la Commissione europea ha proposto di rivedere le norme che regolano il debito e i deficit nei paesi dell’Unione europea, note come Patto di Stabilità e Crescita, a favore di piani di spesa pluriennali e ‘personalizzati,’ dando in sostanza ai Paesi membri più tempo per ridurre il debito eccessivo (ci si aspetta che tale revisione avvenga prima delle elezioni del Parlamento europeo del prossimo giugno).

Il tema di politica economica oggi al centro della discussione politica è dunque questo: come consentire ai Governi dei paesi dell’Unione, e all’Unione stessa, di finanziare investimenti pubblici senza essere limitati da norme ‘autoimposte’ in un contesto macroeconomico in cui, a differenza di 14 anni fa (torneremo a breve sul perché di questa specifica), il ruolo della politica industriale è tornato ad essere rilevante per determinare il modello economico del XXI secolo (transizione energetica, sicurezza energetica, ri-configurazione geografica e politica delle catene globali di produzione, ecc.).

Obiettivo di questo articolo è mostrare come le regole dell’austerità autoimpostesi dal Governo tedesco e i vincoli del Patto di stabilità e crescita sono scelte di un contesto macroeconomico ‘invecchiato’ velocemente tanto quanto l’apparato teorico con cui si giustificava in passato la contrazione dei disavanzi pubblici; e che mantenerle potrebbero impedire ai Governi dell’Ue e all’Unione europea stessa di intervenire per competere con le politiche industriali necessarie a competere con Usa e Cina.

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A glossary to interpret the terms of the debate about the process of re-globalization / regionalization[1]

2023 10 10

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@gsom.polimi.it

Introduction

Few still doubt that the process of moving beyond the China-U.S. cooperative model prevalent until 2017 is proceeding apace. Under this model, which we have illustrated and discussed for example here and here, China accumulated growing trade surpluses vis-à-vis the U.S., the balance of which was largely allocated to the purchase of securities issued by the U.S. government. In a nutshell, the model produced industrialization for China and public, and indirectly private, debt financing for the Us.

As with all major transition episodes, there is a gap between the reality of the material change, the ‘transition’, and the language we can use to represent, to model, to interpret the phenomena that give substance to the change. That said, we therefore feel it would be useful to have a ‘glossary’ available to help clarify the meaning we attribute to the terms used in the current transition debate. We have, of course, little interest in a normative approach; rather, we want to clarify the meaning we associate to the terms used in the debate in the hope that this will also be the way other researchers interpret them. Moreover, we do not want to produce a list of terms, rather, we want to clarify the context in which the terms we choose are being used in the debate.

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Glossario per analizzare i termini alla base del processo di ri-globalizzazione / regionalizzazione

2023 10 01

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@gsom.polimi.it

Introduzione

Pochi dubitano ormai che il processo di superamento del modello cooperativo Cina-Usa prevalente fino al 2017 stia procedendo alacremente. In questo modello, che abbiamo illustrato e discusso ad esempio qui e qui, la Cina accumulava nei confronti degli Usa attivi commerciali crescenti, il cui saldo veniva destinato in buona parte all’acquisto di titoli emessi dal governo Usa. In estrema sintesi, il modello produceva industrializzazione per la Cina e finanziamento del debito pubblico, e indirettamente privato, per gli Usa.

Come per tutti gli episodi di transizione importanti, si è creato anche in questo caso uno scarto tra la realtà del mutamento materiale, la ‘transizione’ appunto, e il linguaggio che possiamo usare per rappresentare, per modellare, per interpretare i fenomeni che danno corpo al cambiamento. Non a caso il dibattito italiano fa ricorso ad un miscuglio di italiano e singole parole in inglese, mentre gli Stati uniti, cioè i suoi politici, i suoi amministratori, i suoi manager, i suoi intellettuali sono assai più vicini al processo di transizione in oggetto, e hanno quindi sviluppato un linguaggio più adeguato di quello che abbiamo sviluppato in Italia / in italiano.

Ciò detto, ci sembra dunque utile avere a disposizione un ‘glossario’ che aiuti a chiarire il senso che attribuiamo ai termini usati nel dibattito sulla transizione in atto. Abbiamo, ovviamente, scarso interesse ad un approccio normativo; piuttosto, vogliamo chiarire il significato che noi attribuiamo ai termini usati nel dibattito nella speranza che questo sia anche il modo in cui altri ricercatori li interpretano. Inoltre, non vogliamo produrre un elenco di termini, ma per ogni termine vogliamo fare riferimento al contesto in cui esso viene usato nel dibattito.

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Globalizzazione: de-globalizzazione o ri-globalizzazione?

23 04 23

daniele.langiu@gmail.com

sdogati@gsom.polimi.it

Introduzione

Sembra necessario affrontare con chiarezza un tema sollevato da alcuni a proposito della cosiddetta globalizzazione, e cioè che la globalizzazione stia di fatto avviandosi a conclusione, processo quest’ultimo che viene chiamato de-globalizzazione. La tesi che sosteniamo in questo articolo, come abbiamo fatto tangenzialmente e in modo non organico in altri nostri scritti recenti, è che in questo momento storico c’è poco valore aggiunto nell’interpretare il termine globalizzazione come aumento dei flussi di scambio internazionale, o di investimento diretto estero. La globalizzazione è meglio rappresentata come il processo di  internazionalizzazione di processi produttivi attuata mediante la frammentazione di processi produttivi precedentemente centralizzati in un solo paese e, spesso, in un solo impianto. In questo momento storico, invece, ciò che è interessante piuttosto, è identificare l’apparato teorico che informa le decisioni d’impresa, vale a dire, estremizzando per chiarezza, se le imprese si internazionalizzino come risultato della ricerca del proprio profitto massimo in (sostanziale) assenza di indicazioni, costrizioni o incentivi da parte del proprio governo nazionale, o se invece le scelte aziendali vengano guidate in maniera sostanziale da indicazioni, costrizioni o incentivi da parte del governo. In breve, la globalizzazione c’è stata, c’è, e ci sarà; ciò che cambia è il rapporto di forza tra il mercato e la politica nel determinare le scelte di globalizzazione quanto a intensità, forma, localizzazione geopolitica dei flussi commerciali, di investimento diretto estero, di imprese fornitrici e distributrici.

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La ritrovata importanza di politiche industriali e politiche commerciali per ri-pensare le catene globali di produzione

23 04 01

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@gsom.polimi.it

Sommario e introduzione

Piuttosto avventatamente, alcuni hanno definito ‘deglobalizzazione’ la fase attuale dell’economia mondiale. Noi sosteniamo che il potere esplicativo di tale caratterizzazione sia sostanzialmente nullo, e crediamo che la fase attuale, diciamo dal 2017, sarebbe meglio caratterizzata come il ritrovato orientamento dei governi nazionali a determinare direttamente le scelte di costruzione della catene di produzione e di approvvigionamento e produzione (si veda un recentissimo bell’articolo di Tyler Cowen qui). In questa sede non siamo interessati a valutare se le motivazioni di questa politica siano corrette o meno; piuttosto, siamo interessati a capire quali possano esserne gli effetti sulla strategia di progettazione e costruzione della propria supply chain delle singole imprese. Il nostro caso di riferimento è, per ovvie ragioni, quello statunitense.

Il primo paragrafo presenta il contesto storico e teorico entro cui si muove l’analisi che segue; il secondo illustra brevemente l’Inflation Reduction Act statunitense, l’atto legislativo che più di ogni altro consente di identificare le misure di politica industriale e commerciale che dispiegheranno effetti importanti negli anni a venire; nel terzo  paragrafo sono sintetizzate le reazioni dell’Unione europea alla manovra Usa e alcuni esempi di come le imprese stiano reagendo alle manovre combinate di politica industriale e commerciale Usa.

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Il ritorno della Cina?

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, fabio.sdogati@gsom.polimi.it

23 02 18

Introduzione

Ci fu facile, in un articolo del 28 marzo 2020, cioè a soli due mesi dalla rilevazione dell’inizio della pandemia, prevedere che la crisi innescata dalla pandemia sarebbe stata lunga, complessa da gestire, costosa in termini di occupazione e di crescita. Oggi, a quasi tre anni, possiamo dire che avevamo colto le grandi linee della evoluzione congiunta e asincrona della pandemia e della crisi economica.

Uno dei fenomeni che avevamo previsto con chiarezza è quello della asincronia con cui tanto la crisi sanitaria che quella economica si sarebbero sviluppate in paesi diversi. Nella fase inizio 2020-fine 2022 l’asimmetria tra Cina e paesi ad alto reddito pro capite (l’occidente, per brevità) prese la forma della contrapposizione netta tra le politiche sanitarie: covid zero in Cina, cioè chiusura di attività produttive, centri commerciali, condomini residenziali per contenere la diffusione del contagio; e in occidente, con poche eccezioni nazionali, chiusure solo parziali e vaccinazioni di massa. L’8 dicembre 2022 il governo cinese rimuove questa asimmetria archiviando la politica ‘Covid zero’ e adottando in sua sostituzione quella che a noi piace chiamare ‘Covid per tutti.’

In occidente questo cambiamento di indirizzo nella politica sanitaria cinese è stato interpretato come riapertura dell’economia cinese. In breve, si è immaginato che certo gli ospedali sarebbero stati in grande difficoltà nel fornire servizi sanitari adeguati nelle nuove condizioni di forte eccesso di domanda; ma si è anche immaginato che la riapertura delle attività produttive e distributive, facilitata dalla ‘liberalizzazione’ degli spostamenti, si sarebbe tradotta in una ripresa dell’attività produttiva e distributiva importante, che avrebbe riportato l’economia cinese nei pressi della posizione che ricopriva nel mercato mondiale alla vigilia della pandemia.

In questo breve articolo noi siamo interessati a questo quesito: quali saranno gli effetti economici sull’economia globale dell’adozione della nuova politica, annunciata l’8 dicembre 2022? La letteratura sul tema consiste di ricerche e previsioni di case finanziarie di centri di ricerca di stampo più accademico, oltre che di interventi di osservatori e opinionisti indipendenti. Il nostro obiettivo è passare in rassegna questa letteratura per fornire un quadro della varietà di analisi e opinioni in questa fase. Ciò che emerge dalla nostra rassegna è da un lato la sostanziale uniformità delle previsioni per quanto riguarda i tassi di crescita dell’economia cinese nel 2023 e 2024; dall’altro, emergono differenze marcate circa i tempi e le dimensioni dell’impatto che la stessa potrà avere sull’economia del resto del mondo. Ovviamente, gli effetti economici della ripresa cinese sul resto del mondo non sono indipendenti dalla rapidità e dalle caratteristiche che assumerà la ripresa dell’economia cinese. La discussione va dunque articolata in tre parti:

  1. Il tasso di crescita dell’economia cinese nel 2023, cioè la velocità a cui l’attività produttiva riprenderà in presenza di una situazione sanitaria in ogni caso poco favorevole;
  2. Il grado in cui la ripresa dell’attività produttiva in Cina si riverserà sulle importazioni dal resto del mondo; e
  3. Il grado in cui la domanda dei paesi ad alto reddito pro capite in particolare alimenterà la ripresa cinese mediante domanda estera per le sue esportazioni.

Il lavoro si articola in tre paragrafi. Nel primo riportiamo le stime e le previsioni circa la consistenza e la ripresa dell’economia interna; nel secondo una sintesi delle misure di politica economica già decise; nel terzo riportiamo le stime e le analisi circa il potenziale di crescita che l’economia cinese potrebbe aggiungere alla crescita dell’economia globale e, parallelamente, riportiamo alcune speculazioni circa il contributo che l’economia mondiale potrebbe a sua volta offrire alla ripresa cinese, in questo contesto di tassi di crescita bassi e timori diffusi di una recessione in arrivo.

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