Dal disaccoppiamento tra Cina e Usa ad un nuovo ordine n-polare?

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com
Fabio Sdogati, sdogati@gsom.polimi.it

25 02 09

Introduzione
“Con nuove tariffe, Donald Trump minaccia di innescare un’era di guerre commerciali”. Così titola un articolo del Financial Times pubblicato il 31 gennaio, alcune ore prima che il piano dell’Amministrazione Trump di imporre dazi del 25% su Canada e Messico entrasse in vigore. Trump ha anche esteso la minaccia includendo l’Unione europea. Conclusa dunque l’applicazione dell’approccio denominato ‘friend-shoring’? Dal nostro punto di vista, no: piuttosto, il dazio diventa uno strumento negoziale per allineare le politiche dei paesi agli obiettivi dell’Amministrazione Trump. Da alcuni anni, scriviamo di disaccoppiamento Cina-Usa e abbiamo provato ad argomentare che la Belt & Road Initiative del Presidente Xi Jinping e la strategia Make America Great Again (MAGA) della prima Amministrazione Trump (2017-2021) hanno rappresentato e rappresentano il tentativo di creare delle ‘regioni’ attorno a due poli. Progressivamente, anche durante l’Amministrazione Biden (2021-2025), le politiche industriale e commerciale del Governo Usa e Cinese hanno perseguito la creazione dei due poli.

Obiettivo finale di questo articolo è identificare i possibili scenari di regionalizzazione che potrebbero prendere corpo per effetto dei dazi sugli scambi commerciali e, indirettamente, sugli investimenti diretti esteri. Certamente vedremo in primo luogo un aumento dei flussi di investimento diretto dall’estero verso gli Usa, come è nelle intenzioni dell’Amministrazione. Ma l’adozione di misure di protezione tariffaria sulla scala dichiarata indurrà necessariamente imprese e governi ad adottare iniziative di contrasto, o di difesa che dir si voglia che, per dimensione della distorsione ‘punitiva’ rappresentata dal dazio, e per la dimensione relativa delle economie interessate, porterebbero alla riconfigurazione della divisione internazionale del lavoro e delle catene globali di produzione. Queste ‘iniziative di contrasto’ genereranno una ri-direzione dei flussi commerciali a danno degli Usa e il rifiorire di flussi di investimenti diretti esteri dalla Cina verso paesi altri dagli Usa e tra paesi ‘terzi’.

Per quanto sia bene astenersi da previsioni vista la complessità del gioco strategico tra paesi messo in moto dalle politiche protezionistiche Usa, possiamo ipotizzare due modelli di regionalizzazione delle catene globali di produzione che abbiamo a provato a schematizzare in Figura 1:

  1. Modello 1: modello bipolare ‘puro’. Due poli, ciascuno dei paesi ‘minori’ sceglie attorno a quale dei due poli gli sia più conveniente ruotare, cioè a quali catene globali di produzione aderire; simmetricamente, ciascuno dei due poli scegli i paesi ai quali consentirà di vivere della propria luce (friendly shoring);
  2. Modello 2: modello bipolare con emergere dei paesi ‘non allineati’-‘connettori’. Due poli, ma anche un elevato numero di paesi ‘indipendenti’ che adotteranno politiche di vicinanza con entrambi i poli senza rapporti di esclusività e, così facendo, manterranno anche i propri spazi di manovra per sviluppare rapporti economici tra di loro.
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Dazi su tutto? Alcuni effetti potenziali su divisione internazionale del lavoro e catene globali di produzione e approvvigionamento

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@gsom.polimi.it

24 10 13

Introduzione e sommario

È tempo di elezioni negli Stati uniti. E uno dei candidati ha già reso molto chiaro che, se eletto, intende replicare le scelte di politica commerciale che aveva già adottato durante il suo primo mandato: dazi. La differenza è che stavolta si tratterebbe di dazi su tutto l’universo delle merci ed i servizi importati dagli Stati uniti. Dazi su tutto, viene da dire, un uso del dazio massiccio al punto di snaturare l’obiettivo tradizionale del dazio, che era ‘proteggere‘ dalla concorrenza estera i produttori nazionali di un settore produttivo ben delimitato mediante l’innalzamento artificiale del prezzo interno del prodotto importato.

In questo articolo vogliamo spostare l’attenzione dagli effetti sui prezzi, a quelli sulla direzione dei flussi internazionali degli investimenti produttivi e, quindi, sulla riconfigurazione delle catene globali di produzione. L’ipotesi alla base di questa prima riflessione è che i paesi le cui merci esportate vengono sottoposte a protezione mediante dazi cercheranno modi di reagire adottando politiche di investimento diretto (produttivo) in paesi diversi da quelli che impongono il dazio, con ciò forzando politicamente la allocazione degli investimenti e dei siti produttivi a livello mondiale.

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Dalla globalizzazione alla regionalizzazione: come sta cambiando la composizione geografica dei flussi commerciali bilaterali degli Usa?

24 04 07

Daniele Langiu, Daniele.Langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@gsom.polimi.it

Introduzione

Da alcuni anni stiamo affrontando da un punto di vista teorico alcune questioni inerenti la nuova forma di globalizzazione che sembra progressivamente emergere dalle spinte di disaccoppiamento / derisking dei Governi, in particolare Usa e Ue. Questa nuova forma ha la caratteristica di essere ‘regionale’, con un’accezione sia geografica sia politica. In sintesi, sulla base delle dichiarazioni dei Governi e delle politiche industriali e commerciali adottate, siamo arrivati a formulare la tesi secondo cui la crescita degli scambi di merci e gli investimenti, a parità di altre condizioni, sarà maggiore all’interno di una regione formata da paesi affini dal punto di vista politico e, in secondo luogo, vicini da un punto di vista geografico, rispetto a quella tra due regioni ‘non affini’ dal punto di vista politico. Per dirlo in modo più eclatante: ci sembra che il modello ricardiano del vantaggio comparato, con il quale per due secoli abbiamo spiegato direzione e composizione dei flussi commerciali internazionali, stia perdendo progressivamente di importanza come spiegazione della direzione e della composizione merceologica dei flussi commerciali i quali, sembrerebbe di poter dire, sono (e saranno) in primo luogo determinati dalla politica in qualche forma di combinazione con la geografia, e solo infine dal vantaggio comparato. Il che è sostanzialmente quello che avviene nella transizione da un modello di globalizzazione ‘di mercato’ ad uno di ‘globalizzazione’ politica a fondamento nazionalista.

È evidente che il concetto di ‘regione’ che abbiamo appena introdotto è difficile da definire perché, molteplici sono i criteri che concorrono a identificare una ‘regione’: le scelte politiche, la posizione geografica, la specializzazione produttiva, probabilmente in questo ordine di importanza. In quel che segue non avremo la presunzione di perseguire il problema sul piano teorico per determinare quali siamo i contributi relativi di ciascuna di queste forze alla definizione di ‘regione.’ Piuttosto, obiettivo di questo articolo è proseguire l’analisi empirica che abbiamo già avuto modo di trattare qui e qui riguardante l’evoluzione della composizione merceologica e della direzione geografica degli scambi di merci degli Stati uniti a partire dal 2016, e provare ad individuare dei tratti ‘misurabili’ del processo di regionalizzazione degli scambi.

Abbiamo già avuto modo di esplicitare le ragioni per la scelta degli Stati uniti come Paese di interesse primario e dell’anno 2016 come punto di partenza della nostra analisi: in breve, le nostre ragioni sono riconducibili al fatto che il modello di globalizzazione che abbiamo sperimentato a partire dalla metà degli anni Settanta è entrato in crisi a partire dal 2016, quando gli Usa hanno adottato l’orientamento noto come Make America Great Again (MAGA) ripristinando dazi e restrizioni quantitative alle importazioni, in particolare quelle provenienti dalla Cina. Tale orientamento ha guidato tutta la fase dell’Amministrazione Trump ed è poi stato adottato anche dall’Amministrazione Biden con un’enfasi ancora maggiore sulle implicazioni della priorità delle considerazioni di sicurezza nazionale degli Usa rispetto al ‘libero commercio’.

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Politiche fiscale e monetaria possono influenzare i tassi di interesse nel breve periodo, ma quali sono gli effetti del disaccoppiamento Usa-Cina su tassi di interesse e prezzi?

24 03 03

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@gsom.polimi.it

Introduzione

L’attuale discussione sull’andamento del tasso di interesse è molto incentrata sulle scelte di politica monetaria delle Banche centrali e di politica fiscale dei Governi. Senza dubbio, sia la politica fiscale sia, in modo ancor più diretto, la politica monetaria hanno la capacità di influenzare l’andamento dei tassi di interesse nel breve periodo. Secondo noi, tuttavia, è necessario includere nell’analisi del futuro andamento del tasso di interesse anche un elemento chiave su cui stiamo scrivendo da alcuni anni a questa parte: lo sforzo di Usa e Cina di ridurre dipendenze commerciali che è stato in origine definito disaccoppiamento.

Perché introdurre le relazioni Usa-Cina nell’analisi delle prospettive del tasso di interesse? Perché la relazione economica tra Usa e Cina intercorsa a seguito dell’accesso della Cina all’Organizzazione mondiale del commercio è uno dei fattori che hanno contribuito a mantenere bassi i tassi di interesse negli Usa. In sintesi, la domanda di merci cinesi da parte degli Usa ha permesso alla Cina di avere un surplus commerciale e, quindi, risparmi che sono stati usati per comprare titoli di debito del Governo Usa: e maggiore domanda di titolo di debito implica tassi di interesse minori sullo stesso.

L’obiettivo di questo articolo è inserire gli effetti del disaccoppiamento Usa-Cina nell’attuale dibattito sull’andamento dei tassi di interesse e, quindi, provare ad analizzare le implicazioni per i tassi di interesse in uno scenario in cui:

  1. la Cina non abbia un consumatore di ultima istanza (gli Usa, e tendenzialmente anche l’Europa)) che le consenta di esportare i propri risparmi, ipotizzando che almeno nel breve periodo la Cina continui a esportare più di quanto importi;
  2. gli Usa non trovino un volume comparabile di risparmi che consentano di finanziare il proprio debito pubblico ai tassi storicamente bassi del periodo 2003-2016.
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Glossario per analizzare i termini alla base del processo di ri-globalizzazione / regionalizzazione

2023 10 01

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@gsom.polimi.it

Introduzione

Pochi dubitano ormai che il processo di superamento del modello cooperativo Cina-Usa prevalente fino al 2017 stia procedendo alacremente. In questo modello, che abbiamo illustrato e discusso ad esempio qui e qui, la Cina accumulava nei confronti degli Usa attivi commerciali crescenti, il cui saldo veniva destinato in buona parte all’acquisto di titoli emessi dal governo Usa. In estrema sintesi, il modello produceva industrializzazione per la Cina e finanziamento del debito pubblico, e indirettamente privato, per gli Usa.

Come per tutti gli episodi di transizione importanti, si è creato anche in questo caso uno scarto tra la realtà del mutamento materiale, la ‘transizione’ appunto, e il linguaggio che possiamo usare per rappresentare, per modellare, per interpretare i fenomeni che danno corpo al cambiamento. Non a caso il dibattito italiano fa ricorso ad un miscuglio di italiano e singole parole in inglese, mentre gli Stati uniti, cioè i suoi politici, i suoi amministratori, i suoi manager, i suoi intellettuali sono assai più vicini al processo di transizione in oggetto, e hanno quindi sviluppato un linguaggio più adeguato di quello che abbiamo sviluppato in Italia / in italiano.

Ciò detto, ci sembra dunque utile avere a disposizione un ‘glossario’ che aiuti a chiarire il senso che attribuiamo ai termini usati nel dibattito sulla transizione in atto. Abbiamo, ovviamente, scarso interesse ad un approccio normativo; piuttosto, vogliamo chiarire il significato che noi attribuiamo ai termini usati nel dibattito nella speranza che questo sia anche il modo in cui altri ricercatori li interpretano. Inoltre, non vogliamo produrre un elenco di termini, ma per ogni termine vogliamo fare riferimento al contesto in cui esso viene usato nel dibattito.

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Globalizzazione: de-globalizzazione o ri-globalizzazione?

23 04 23

daniele.langiu@gmail.com

sdogati@gsom.polimi.it

Introduzione

Sembra necessario affrontare con chiarezza un tema sollevato da alcuni a proposito della cosiddetta globalizzazione, e cioè che la globalizzazione stia di fatto avviandosi a conclusione, processo quest’ultimo che viene chiamato de-globalizzazione. La tesi che sosteniamo in questo articolo, come abbiamo fatto tangenzialmente e in modo non organico in altri nostri scritti recenti, è che in questo momento storico c’è poco valore aggiunto nell’interpretare il termine globalizzazione come aumento dei flussi di scambio internazionale, o di investimento diretto estero. La globalizzazione è meglio rappresentata come il processo di  internazionalizzazione di processi produttivi attuata mediante la frammentazione di processi produttivi precedentemente centralizzati in un solo paese e, spesso, in un solo impianto. In questo momento storico, invece, ciò che è interessante piuttosto, è identificare l’apparato teorico che informa le decisioni d’impresa, vale a dire, estremizzando per chiarezza, se le imprese si internazionalizzino come risultato della ricerca del proprio profitto massimo in (sostanziale) assenza di indicazioni, costrizioni o incentivi da parte del proprio governo nazionale, o se invece le scelte aziendali vengano guidate in maniera sostanziale da indicazioni, costrizioni o incentivi da parte del governo. In breve, la globalizzazione c’è stata, c’è, e ci sarà; ciò che cambia è il rapporto di forza tra il mercato e la politica nel determinare le scelte di globalizzazione quanto a intensità, forma, localizzazione geopolitica dei flussi commerciali, di investimento diretto estero, di imprese fornitrici e distributrici.

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La ritrovata importanza di politiche industriali e politiche commerciali per ri-pensare le catene globali di produzione

23 04 01

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@gsom.polimi.it

Sommario e introduzione

Piuttosto avventatamente, alcuni hanno definito ‘deglobalizzazione’ la fase attuale dell’economia mondiale. Noi sosteniamo che il potere esplicativo di tale caratterizzazione sia sostanzialmente nullo, e crediamo che la fase attuale, diciamo dal 2017, sarebbe meglio caratterizzata come il ritrovato orientamento dei governi nazionali a determinare direttamente le scelte di costruzione della catene di produzione e di approvvigionamento e produzione (si veda un recentissimo bell’articolo di Tyler Cowen qui). In questa sede non siamo interessati a valutare se le motivazioni di questa politica siano corrette o meno; piuttosto, siamo interessati a capire quali possano esserne gli effetti sulla strategia di progettazione e costruzione della propria supply chain delle singole imprese. Il nostro caso di riferimento è, per ovvie ragioni, quello statunitense.

Il primo paragrafo presenta il contesto storico e teorico entro cui si muove l’analisi che segue; il secondo illustra brevemente l’Inflation Reduction Act statunitense, l’atto legislativo che più di ogni altro consente di identificare le misure di politica industriale e commerciale che dispiegheranno effetti importanti negli anni a venire; nel terzo  paragrafo sono sintetizzate le reazioni dell’Unione europea alla manovra Usa e alcuni esempi di come le imprese stiano reagendo alle manovre combinate di politica industriale e commerciale Usa.

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Disaccoppiamento Usa-Cina, guerra, crisi energetica, friend-shoring, inflazione, deprezzamento e apprezzamento del dollaro…Verso una nuova divisione internazionale del lavoro

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@gsom.polimi.it

23 02 04

Introduzione

Con questo articolo vogliamo riprendere le fila dei ragionamenti che siamo venuti facendo, e pubblicando, negli ultimi anni sul tema delle relazioni economiche Cina-Usa e sulle possibili, nuove caratteristiche di un mondo bi- o multi-polare. È almeno dai tempi delle elezioni presidenziali Usa del 2016 che seguiamo con attenzione, documentiamo e cerchiamo di prevedere la direzione in cui evolverà il quadro della divisione internazionale del lavoro a seguito del disaccoppiamento Cina-Usa, il cui inizio fissiamo convenzionalmente nel 2013, anno del lancio della Belt and Road Initiative. A questo link è possibile consultare la raccolta dei nostri articoli riguardanti il disaccoppiamento nell’accezione con cui ne abbiamo scritto finora.

Crediamo sia tempo di riprendere questi temi la cui rilevanza è stata esaltata dalla pandemia, dalle ripetute crisi delle catene globali di produzione (supply chain disruptions, per quelli che sanno le lingue), dalla guerra e dalla conseguente, e crescente ad oggi, inflazione, dalle politiche monetarie fortemente recessive adottate dalle banche centrali dei paesi ad alto reddito pro capite ad eccezione di quella giapponese, e dal progressivo diffondersi di andamenti recessivi dell’economia globale. A nostro parere questi avvenimenti non solo non hanno scalfito l’importanza del processo di disaccoppiamento e dei suoi effetti: essi ne hanno invece progressivamente caratterizzato e determinato gli sviluppi fino a farci avanzare l’ipotesi che siamo in presenza di un processo di affermazione di un nuovo modello di divisione internazionale del lavoro o forse, come sostengono gli esperti di relazioni politiche internazionali, un nuovo equilibrio geopolitico.

Il presente articolo è la prosecuzione naturale della riflessione contenuta in questo pezzo del gennaio 2021, la cui lettura può essere utile per acquisire il background cinquantennale contro il quale interpretiamo le evoluzioni degli ultimi due anni.

Il primo paragrafo riprende le ipotesi di ricerca che abbiamo formulato tempo fa, e cioè che con il disaccoppiamento si venisse affermando la transizione dal progetto di capitalismo liberale universale a quello di capitalismo politico, come identificato da Alessandro Aresu in ‘Le potenze del Capitalismo Politico. Stati Uniti e Cina’ e da Branko Milanovic in ‘Capitalism, Alone. The Future of the System That Rules the World’. Nel secondo paragrafo scriviamo degli avvenimenti sopravvenuti dalle elezioni presidenziali Usa del 2020 e dei mutamenti che essi hanno indotto sulle relazioni economiche internazionali come è possibile ‘misurare’ attraverso la dinamica dei flussi commerciali internazionali. Noi avevamo previsto un cambiamento importante e potenzialmente di lunga durata nell’origine e nella destinazione dei flussi di commercio estero come effetto del disaccoppiamento; vogliamo ora dare avvio ad un processo di valutazione della misura in cui pandemia, guerra, crisi energetica e alimentare, inflazione e politiche monetarie restrittive hanno influito ulteriormente su tali andamenti. Inizialmente il nostro obiettivo è limitato, poiché ovviamente non abbiamo l’ambizione di verificare la forza della relazione causale tra questi fenomeni; più modestamente, vogliamo condurre un’analisi preliminare descrittiva della evoluzione dei patterns commerciali tra gli Stati uniti e alcuni paesi che potrebbero costituire una fonte di importazioni permanentemente alternativa a quella cinese. Si tratta qui di delineare l’evoluzione delle politiche commerciali statunitensi a valle del progetto trumpiano del Make America Great Again, caratterizzato da politiche protezionistiche e dal crescente desiderio Usa di separare la parte ‘cinese’ delle proprie catene globali di produzione dalle parti più prossime, politicamente se non geograficamente. Già in un articolo del 2018, scrivevamo che il progetto dell’amministrazione Trump mostrava un cambio di strategia con il passaggio dalla logica “solo gli Stati Uniti contano” a “il Nord America conta, fino a che gli Stati Uniti dettano le regole”; in aggiunta, suggerivamo che questo si sarebbe tradotto in una crescente regionalizzazione del traffico commerciale oltre che delle catene di produzione. Ad inizio 2020 avevamo poi avanzato l’ipotesi che le caratteristiche merceologiche del commercio bilaterale mondiale mostravano già come la globalizzazione avesse imboccato in via definitiva la strade della regionalizzazione o, meglio, della ‘aggregazione’ attorno a due poli, Cina e Stati uniti.

È noto che la volontà trumpiana di separare la parte ‘cinese’ delle proprie catene globali di produzione dalle parti più prossime è rimasta la linea politica dell’amministrazione Biden, per la quale Janet Yellen, ministro del Tesoro Usa, ha elaborato la dottrina del friend-shoring. La nostra ipotesi di ricerca è che la diffusione della pandemia prima e la guerra poi, generando inattese e gravi conseguenze e difficoltà per le catene globali di produzione abbiano giocato a favore del processo di disaccoppiamento: è qui che riportiamo evidenza empirica del fatto che, progressivamente a partire dal 2020, i flussi di scambio internazionale hanno cominciato a mostrare che le ‘aree di influenza’ dei due poli si stavano diversificando in termini geografici e merceologici, un processo che da tempo abbiamo chiamato ‘regionalizzazione del commercio internazionale, delle catene di approvvigionamento e di destinazione delle esportazioni’.

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Il disaccoppiamento è arrivato a compimento: la Cina formalizza la sua reazione alle politiche protezionistiche Usa

20 11 07

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it

Sommario

Nel ‘vecchio’ modello di divisione internazionale del lavoro Usa-Cina, la domanda Usa di prodotti cinesi generava un saldo di bilancia commerciale cinese positivo e crescente, i cui proventi andavano a finanziare il debito Usa. Un modello chiaramente cooperativo. Nel 2016, in vista delle elezioni Usa, il lancio del programma Make America Great Again intendeva ribaltare questa situazione: certamente con il MAGA si voleva ribaltare il segno del deficit commerciale Usa verso la Cina, e si chiarì progressivamente che questo andava fatto ‘riportando a casa American jobs’. Nulla si diceva di come si sarebbe finanziato il debito pubblico, ma questo doveva essere, e in effetti vediamo oggi che lo è diventato, il problema della banca centrale Usa. Ciò che non si è avverato è la tendenza all’azzeramento del deficit commerciale. Che questo non sarebbe avvenuto lo avevamo previsto, insieme a Francesco Morello, in una serie di articoli.

           Ciò cui non avevamo prestato attenzione era la possibile reazione cinese. Abbiamo sì documentato il ricorso crescente degli importatori Usa a mercati di approvvigionamento alternativi a quello cinese, e abbiamo parlato anche esplicitamente di disaccoppiamento, ma lo abbiamo fatto pensato ad una Cina che avrebbe reagito lentamente, quasi ferma sul piano della reazione politica; e abbiamo prestato anche attenzione al dibattito sulla Belt and Road (nota come ‘via della seta’ in Italia). Ma alla fine di ottobre 2020 la reazione è arrivata: annunciata certo nei mesi scorsi, discussa sempre in quel modo un po’ misterioso che i giornalisti e i commentatori usano quando parlano di cose cinesi, oggi essa è annunciata in occasione del XIX Comitato Centrale del Partito, il quale la sostanzierà nel XIV Piano quinquennale per il periodo 2021-2025.

Con questo articolo vogliamo illustrare le caratteristiche della reazione cinese; quindi, quello che abbiamo definito ‘disaccoppiamento completato’. Per quanto se ne sa, ovviamente, perché il Comitato Centrale si è appena concluso, perché il XIV Piano quinquennale non è ancora consolidato in un documento finale (neanche in mandarino), perché le fonti sono ancora poche e tutte giornalistiche. Il primo paragrafo illustra rapidamente l’essenza cooperativa del modello 1990-2016; il secondo ricostruisce il pensiero dominante sul futuro del capitalismo e delle relazioni internazionali all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica nel 1991; lo scopo di questo paragrafo è fornire il modello di riferimento per evidenziare poi l’assetto ideologico e geopolitico emerso a partire dal 2013 con l’annuncio della strategia Belt and Road, passando attraverso il programma MAGA di parte statunitense. Il terzo paragrafo delinea le caratteristiche salienti della nuova strategia cinese nel gioco in cui sono impegnati i due giocatori.

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Un mondo tripolare: Unione europea tra Usa e Cina nel quadro del rallentamento del commercio internazionale. La pandemia sta introducendo nuovi scenari?

20 07 04

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it

Premessa

Da alcuni mesi ed in una serie di articoli, ci stiamo occupando di commercio internazionale e del processo di disaccoppiamento commerciale tra Usa e Cina. Nella maggior parte di questi articoli, abbiamo posto l’attenzione su Usa e Cina, attori principali della guerra commerciale in corso. In due soli articoli durante maggio scorso, abbiamo provato a delineare il ruolo dell’Unione europea nel commercio internazionale post-Grande Recessione e gli effetti della guerra commerciale sugli scambi dell’Ue con Usa e Cina.

In particolare, nell’articolo del 3 maggio “Commercio estero in un mondo tripolare”, abbiamo provato ad analizzare il ruolo dell’Ue nel commercio internazionale, quando le due più importanti economie mondiali stanno adottando strategie commerciali contrapposte. I risultati a cui siamo arrivati sono:

  1. l’Unione europea è esportatrice netta verso gli Stati uniti e importatrice netta dalla Cina;
  2. negli ultimi tre anni non si notano variazioni importanti da questo modello addebitabili alle strategie commerciali adottate da Cina e Usa;
  3. le imprese dell’Unione europea potrebbero essere più attratte, a parità di altre condizioni, da una strategia commerciale tesa a rafforzare i processi di globalizzazione e attenta alla cooperazione internazionale quandoshock simmetrici, globali e di molteplice natura, colpiscono più paesi contemporaneamente.

Il presente articolo costruisce su quanto abbiamo presentato nei precedenti, con l’obiettivo di verificare se e come stiano cambiando le direzioni e le consistenze dei flussi commerciali dell’Ue verso, e da, Usa e Cina. Nel fare questo presteremo attenzione alla direzione dei flussi commerciali aggregati nei primi quattro mesi del 2020, per verificare se esista evidenza che la pandemia corrente li stia influenzando.

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