Inflazione: temporanea o permanente? O, forse meglio: da offerta o da domanda?

Daniele Langiu,  daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it

22 02 09

Il titolo di questo articolo riflette i termini del dibattito che ha tenuto banco tra gli economisti macro accademici, commentatori e giornalisti per tutto il 2021 e in questo inizio del 2022. Il punto più alto di questo dibattito è il secondo confronto sulle origini dell’inflazione Usa tra Paul Krugman e Lawrence Summers, tenutosi il 21 gennaio scorso. Il confronto va seguito perché, oltre ad essere ovviamente interessante, ha dato forte rilevanza alla modellazione teorica delle cause l’inflazione come condizione necessaria per la formulazione di politiche economiche adeguate. La registrazione dell’incontro è a questo link

La genesi di tale dibattito, incluso il confronto tra Krugman e Summers  è, ovviamente, la feroce, per quanto tutto sommato breve, recessione[1] indotta dallo shock sanitario che a partire dalla fine del 2019-inizio 2020 ha colpito le economie di tutto il mondo. La caratteristica principale dello shock sanitario fu l’aver colpito l’economia più o meno simultaneamente dal lato dell’offerta e da quello della domanda: dal lato dell’offerta perché, pur non avendo distrutto capacità produttiva come avviene in caso di guerra, ha reso inutilizzabili impianti produttivi a causa della necessità di isolamento dei lavoratori; e dal lato della domanda, perché quei lavoratori si sono trovati per periodi prolungati con redditi ridotti e, inoltre, aumentarono la propria propensione a risparmiare in vista di una durata incerta del periodo di inattività.[2]

La ragione per cui qualunque ragionamento sugli effetti della pandemia, inclusi quelli sull’inflazione che ne è derivata, deve partire da questa considerazione, cioè dal fatto che lo shock sanitario ha colpito, e continua a colpire, la capacità produttiva, e ha modificato il profilo temporale e la composizione merceologica della spesa per consumi, sta nel fatto che i due impatti negativi si sono auto-rafforzati, intrecciati, alimentati a vicenda in maniera asincrona, ripercuotendosi l’uno sull’altro nel tempo e nello spazio della globalizzazione delle catene di produzione e della logistica.[3]

L’enfasi che stiamo mettendo sul concatenarsi delle difficoltà dell’offerta e della domanda aiuta a capire che la ripresa non può che essere difficile, ostacolata ora da un lato e ora dall’altro, con caratteri caotici che non possono essere sottovalutati: si pensi, a scopo illustrativo, alla successione assenteismo in aumento nelle imprese a causa degli isolamenti-difficoltà a produrre-dipendenti in cassa integrazione-imprese a valle in carenza di prodotti intermedi e conseguente loro difficoltà a rifornire clienti-imprese e clienti finali. In questo modello, il controllo dei contagi è la variabile cruciale per la stabilizzazione della ripresa, ma questo non sta avvenendo. Ne consegue che le difficoltà delle imprese permangono, quelle dei piccoli distributori crescono, quelle delle imprese della logistica si moltiplicano. 

Ma le difficoltà dal lato delle quantità possono generare mostri sul fronte dei prezzi.  Sinteticamente, per vedere come le difficoltà produttive e distributive si possono tradurre in spinte inflazionistiche, sono concepibili due scenari, uno in cui le imprese posseggono potere di mercato, ed uno in cui le condizioni della concorrenza prevalgono in tutti i mercati. Nel primo caso, le imprese che si trovano di fronte ad aumenti dei costi degli input possono aumentare i prezzi dei propri prodotti senza eccessive preoccupazioni per gli effetti sul fatturato, anzi: se l’elasticità della domanda di quei prodotti è inferiore ad uno, il fatturato aumenterà all’aumentare del prezzo. Se, invece, l’impresa opera in un mercato in cui l’elasticità della domanda è superiore ad uno, e non esistono barriere all’ingresso di nuove imprese su quel mercato o impedimenti normativi, allora aumenti dei prezzi verranno adottati con assai maggior cautela ma, alla fine, verranno comunque adottati in un processo in cui il comportamento rialzista di un’impresa apre la strada a comportamenti rialzisti di tutte le altre. In breve, il potere di mercato delle imprese determina la velocità della crescita dei prezzi, ma il processo inflazionistico c’è: e in assenza di spinte salariali, che in Unione Economica e Monetaria non si stanno ancora realizzando, l’aumento dei prezzi va tutto a favore dei profitti aziendali. 

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Pandemie, epidemie, tramezzini e ricerca scientifica

2022 01 12

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it

La diffusione violenta del Sars-CoV-2 ha prodotto una serie di problemi economici la cui portata, estensione e combinazione sono, dopo due anni dall’inizio della pandemia, ancora in gran parte sul tappeto. Il più grave tra questi problemi economici è sicuramente la perdita di produzione e occupazione attraverso cui sono passati tutti i paesi ad alto reddito pro capite e molti di quelli a reddito pro capite medio e basso, con l’eccezione di poche economie asiatiche. In un articolo del 28 marzo 2020 argomentavamo che all’impatto immediato della recessione, uno shock dal lato dell’offerta, sarebbe seguito uno shock da domanda dovuto alla caduta dei redditi dei fattori della produzione conseguente allo shock sanitario e alla necessaria riduzione del livello dell’attività produttiva, riduzione che si sarebbe trasmessa da economia a economia proprio come avrebbe continuato a trasmettersi il contagio. Ricordiamo questo piccolo contributo per sottolineare che già a marzo 2020 gli effetti dello shock sanitario apparivano gravi e persistenti, e che dunque le autorità di politica economica dovevano prepararsi ad interventi tanto di politica fiscale che di politica monetaria mirati al sostegno della domanda e delle attività produttive.

Oggi, a due anni dall’inizio della crisi, possiamo notare due fatti importanti:

  1. Il primo è che, con la drammatica eccezione dei paesi a reddito pro capite basso e bassissimo, gran parte delle economie nazionali si sta riprendendo più rapidamente del previsto. Noi crediamo che ciò sia dovuto ai programmi di politica fiscale e monetaria adottati e/o appena avviati a livello nazionale e sovranazionale (vedi NextGeneration EU);
  2. Il secondo è che di fronte all’accertata difficoltà a continuare a produrre nel modo tradizionale, negli uffici e nelle fabbriche, si è stabilito e diffuso un modo di produrre che è stato designato con molteplici espressioni più o meno in inglese, ma che noi chiamiamo Lavoro Remoto.

Qui ci occupiamo di questo secondo tema, e ci chiediamo se esso costituisca l’inizio di una tendenza destinata a modificare permanentemente l’organizzazione del lavoro. In questo breve scritto non è possibile discutere di tutte le implicazioni dell’adozione di questo modo di produrre: ad esempio, non si discute del contributo che esso può dare alla riduzione della velocità di diffusione del virus, né degli effetti della didattica a distanza sulla formazione dei giovani. Qui ci limitiamo piuttosto al seguente quesito:

chiarito che non è vero che siamo in una situazione ‘post-pandemica’, assumendo che la situazione sanitaria si vada avvicinando asintoticamente alla normalità (qualunque cosa essa sia) e/o all’epidemia, che probabilità esiste che il Lavoro Remoto resti pratica diffusa o, addirittura, crescentemente diffusa anche in futuro?

Il nostro filo logico è il seguente:

  1. Il lavoro remoto ha costituito, e costituisce, un fenomeno quantitativamente rilevante? In altri termini, vale la pena parlarne?
  2. Se lo è, cioè se le imprese vi hanno fatto ricorso come strumento di importanza strategica per il contenimento della compressione della produzione indotta dalla pandemia, allora sarà bene tenere presente che ciò avverrà ancora, quantomeno in situazioni comparabili a quelle che stiamo vivendo;
  3. Ammesso che il lavoro remoto sia uno strumento rilevante per le imprese, può diventare un fattore determinante per i lavoratori per scegliere la loro prossima occupazione?
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Prospettive della ripresa dell’economia italiana a quasi due anni da un evento sconvolgente

Daniele Langiu e Fabio Sdogati

daniele.langiu@gmail.com, fabio.sdogati@mip.polimi.it

21 12 31

Premessa

Ci sorprende la sorpresa di cui alcuni fanno mostra di fronte alle caratteristiche della ripresa economica che, pur con intensità e problematiche diverse, molte economie nazionali stanno sperimentando. Siamo sorpresi perché sembra quasi che il 2020 sia stato un anno ‘normale’, caratterizzato da una recessione ‘normale’, dalla quale ci si attende di rientrare in modo ‘normale’. E invece non è così: il 2020 è stato un anno straordinario, gli effetti della pandemia su domanda e offerta di beni di consumo e di investimento sono stati senza precedenti, e le difficoltà della logistica internazionale sono enormi a causa di ciò; le reazioni delle autorità di politica monetaria e fiscale sono state spesso, particolarmente nel caso dell’Ue, ortogonali a quelle che caratterizzarono il periodo della Grande Recessione 2007-2011; e ci sorprende la sorpresa davanti ai movimenti dei prezzi, un fatto che non vogliamo sminuire ma che a noi sembra fisiologico quando la struttura produttiva e distributiva mondiale subisce uno stravolgimento come quello che abbiamo vissuto nel 2020. Si tratta dunque anzitutto di valutare e ‘assorbire’ la dimensione dello sconvolgimento portato dalla pandemia, e quindi di valutare se e quanto le caratteristiche della ripresa in atto siano ‘coerenti’ con quello sconvolgimento.

Introduzione

Obiettivo di questo articolo è verificare quale sia lo stato della ripresa economica italiana e offrire uno sguardo sugli scenari evolutivi nei prossimi anni. Un compito oneroso per un articolo breve, il che richiede che gli indicatori utilizzati nell’analisi siano accuratamente specificati, pochi, e i relativi dati facilmente reperibili.

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Ancora su inflazione e offerta di lavoro (2/n)

21 11 24

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it

Riassunto della puntata precedente

Ha sostenuto recentemente uno di noi che quando si vuol parlare di inflazione, vera o presunta, che la si ipotizzi di breve o, ancor più, di lungo periodo, occorre chiedersi anche quale sia il comportamento presente e atteso dell’offerta di lavoro in questa fase storica. In particolare, ho cercato di attirare l’attenzione su di un fenomeno che in Italia è stato (vergognosamente) additato al pubblico ludibrio quale effetto del Reddito di Cittadinanza, ma che è in realtà diffuso nei paesi a reddito pro capite medio alto e, si diceva, diffuso trasversalmente tra coorti anagrafiche, qualifiche professionali, generi, classi di retribuzioni.

Nel primo paragrafo riprendiamo alcune considerazioni circa le caratteristiche specifiche della dinamica recente dei prezzi definita, per brevità, inflazione. Nel secondo paragrafo ritorniamo in maniera un poco più esaustiva sulla questione della Great Resignation, e cioè della contrazione dell’offerta di lavoro ad ogni livello del salario, e argomentiamo che si tratta di un fenomeno importante quantitativamente e probabilmente mostrerà di qui in avanti un qualche grado di permanenza. La tesi è che la dinamica al ribasso dei salari, nominali e reali, che ha caratterizzato questi ultimi tre decenni in tutti i paesi ad alto reddito pro capite e in Italia in particolare, ha indotto un grande, generalizzato ripensamento circa il rapporto desiderato tra, da un lato, tempo di lavoro e condizioni di lavoro in generale e, dall’altro, tempo libero o condizioni di vita in generale, il tutto ovviamente a retribuzione data. Il terzo paragrafo riporta evidenza preliminare del fenomeno: non la chiamiamo certamente ‘evidenza empirica’, ma i numeri sono rilevanti. Il quarto paragrafo conclude.

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Inflazione permanente in arrivo? Davvero? Dovremmo chiederci anche che cosa stia succedendo all’offerta di lavoro?

21 11 08

Fabio Sdogati

“Inflation will likely subside in 2022 but remain above the FED’s 2 percent target.

Supply disruptions, pent up demand, and higher household savings have pushed inflation to its highest rate since the early 1990s. But PIIE’s Karen Dynan argues inflation and wage growth data do not suggest the spike will endure, and high inflation will not persist beyond 2022.”

Fonte: Peterson Institute for International Economics 21 10 20

Lo stato del dibattito sull’inflazione

Chi ha poca familiarità con lo studio dell’economia, così come chi ne ha ma solo con l’economia neoclassica (o di piena occupazione, o ‘mainstream’ come dicono quelli che sanno le lingue) tende a ritenere che l’inflazione sia “sempre e dovunque un fenomeno monetario”, il quale è un modo roboante per dire che la causa dell’inflazione è da cercarsi “sempre e dovunque” nelle espansioni monetarie condotte dalle Banche centrali. Look no further. Come sa chi mi ha letto in passato, ritengo che questa sia una proposizione teoricamente molto debole, politicamente motivata: come si fa a sostenere una tesi simile oggi, dopo quattordici (14) anni di espansioni monetarie in Giappone, Europa e Stati uniti, le quali non hanno sortito l’effetto desiderato di produrre un tasso di inflazione annuo di un miserabile 2%?

Fortunatamente, proprio l’evidenza accumulata negli ultimi 14 anni, dalla grande Crisi Finanziaria in poi, ha prodotto linee di pensiero meno ideologiche e nuove generazioni di economisti meno succubi dei loro predecessori ai dictat della scuola del libero-mercato-aggiusta-tutto, contraria alla politica economica a scopi anticiclici per motivi squisitamente politici per quanto ben camuffati da principi economici. La citazione che ho posto all’inizio dell’articolo mostra bene che cosa io intenda: il Peterson Institute for International Economics (PIIE) include tra le cause potenziali di inflazione: 1. le oramai note ‘supply disruptions’, 2. l’aumento della domanda di beni di consumo seguito alla fase acuta della pandemia, 3. la disponibilità di risparmi privati più alta di quanto sia mai stata osservata, risparmi accumulati durante tutto il 2020; ma, sorpresa sorpresa, il PIIE non accenna alla politica monetaria come causa di inflazione in questa fase storica. Possiamo dire che l’enfasi del titolo dell’articolo è su ragioni ‘reali’ dell’eventuale inflazione, non su ragione monetarie. Il che è bene, se vogliamo provare a capire che cosa ci aspetta in termini di dinamica dei prezzi.

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I prezzi delle commodities sono prezzi di attività finanziarie? È per questa ragione che sono saliti tanto velocemente, mentre i prezzi al consumo sono ancora stabili?

21 06 19

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it

Premessa

Nel nostro pezzo del 25.05.21, che vorremmo essere il primo di una serie sulla tematica della dinamica dei prezzi, abbiamo cominciato a riflettere sulla questione del cosiddetto ritorno dell’inflazione o del suo spettro per usare i termini del New York Times. In un intervento pubblico recente, Joseph Stiglitz ha sostenuto con forza che

“dovremmo riconoscere il ‘dibattito sul ritorno dell’inflazione’ per quello che è: una falsa pista indicata da quelli che vorrebbero boicottare gli sforzi che l’amministrazione Biden sta facendo per affrontare alcuni dei problemi più profondi degli Stati uniti” @JosephStiglitz

Sarà questo il nuovo mantra, che l’inflazione è sempre e dovunque un fenomeno politico? Mentre almeno uno di noi due sospetta che la tesi di Stiglitz sia sostanzialmente corretta, riteniamo che mentre Stiglitz possa permettersi di avanzarla pubblicamente, noi faremmo bene a tenerci il sospetto ma procedere sul piano dell’analisi positiva. In questo articolo, quindi, discuteremo ancora del fenomeno dell’aumento del prezzo delle materie prime introducendo una dimensione di analisi che si affianca a quella del mercato delle merci, il mercato delle attività finanziarie. Precisiamo che in questo articolo non estendiamo l’analisi a tutte le materie prime, ma proviamo a porre l’attenzione su quelle per cui la contrattazione avviene attraverso contratti futures.

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Ma le disruption della supply chain!? E lo shortage?? Si, però le auto usate… C’è davvero il rischio di inflazione al consumo?

Avvertenza

Da qualche settimana stiamo provando a scrivere sulla situazione presente della dinamica dei prezzi e le aspettative sulla stessa, ma troviamo grande difficoltà a sintetizzare un dibattito che spazia dagli effetti di supposte strozzature nelle catene di fornitura, alle supposte implicazioni della politica fiscale del governo Biden, alla combinazione tra le due. Qui cerchiamo di iniziare a sistematizzare e semplificare le posizioni espresse sulla stampa periodica ma anche da professionisti ed economisti in versione accademica e non.

Premessa

Negli anni della Grande Recessione, convenzionalmente 2007-2009 negli Usa e 2008-2012 in Europa, una delle grandi preoccupazioni di una parte di economisti e di gran parte della stampa era che gli stimoli monetari e fiscali adottati, dove lo furono, per contrastare la recessione, avrebbero prodotto inflazione. Come si sa, non solo ciò non è avvenuto, ma mentre le banche centrali statunitense (dal 2008 al 2014) ed europea (dal 2012 al 2019) adottavano misure di espansione monetaria mai viste prima per intensità e durata, il tasso di inflazione continuava a cadere, e raggiungere (da sotto) il famoso 2% annuo è stato impossibile. Veniamo, dunque, da un periodo di oltre dieci anni ‘senza inflazione’. 

La crisi economica da pandemia da SARS-CoV-2 ha inizialmente determinato uno shock di offerta e, al contempo, di domanda. Noi abbiamo provato a stilizzare, forse ancor più che modellare, la probabile dinamica conseguente allo shock iniziale, concentrandoci in prima battuta sulla natura degli shocks e sui loro effetti sul prodotto interno lordo globale; in seguito abbiamo proposto alcune riflessioni sulle misure che sarebbe stato necessario adottare da parte delle Banche Centrali ma anche di alcuni Governi, misure che sarebbero state fortemente espansive; infine, e più recentemente, abbiamo prodotto alcune riflessioni circa la probabilità che le suddette politiche espansive possano attivare processi di crescita rilevante dei prezzi in Europa. Nel giro di un anno siamo dunque passati dalla preoccupazione profonda per la domanda e il livello dell’attività produttiva a quella, per noi meno impellente, per l’emergere di possibili spinte inflazionistiche. Il tutto, non dimentichiamolo, in un quadro che abbiamo fatto nostro e definito di stagnazione secolare.

Dal nostro ultimo intervento nel febbraio scorso, l’attenzione pubblica verso l’inflazione è diventata prima preoccupazione e poi parossismo. Mentre scriviamo, a maggio 2021, ci ritroviamo a doverci occupare di inflazione la quale, nel frattempo, è diventata un fenomeno dalle molteplici cause. Spingono l’immagine del rischio di processi inflazionistici devastanti e prossimi, se non impellenti, le case di investimento, le quali nello loro brochure e nei loro podcast identificano svariate cause concomitanti e almeno in parte ortogonali tra loro; ma altrettanto fanno, seppur con maggior cautela e minor grancassa, responsabili della produzione e degli approvvigionamenti, nonché qualche macroeconomista di gran livello. Queste ‘ragioni’ generalmente portate a sostegno della tesi inflazionistica possono essere significativamente suddivise in ‘politiche’ ed ‘economiche’. Definiamo ragioni politiche quelle additate da chi ritiene, essenzialmente, che l’inflazione sia, in base alla ben nota profezia, “sempre e comunque un fenomeno monetario”, anche nel caso in cui le espansioni monetarie siano adottate per ‘accomodare’ aumenti di debito pubblico. Quindi ricadono in questa categoria di cause dell’inflazione:

  1. I piani fiscali espansivi del Governo federale Usa, tanto quello già approvato dal Congresso quale il CARES Act che i piani di spesa attualmente allo studio ma mirati all’investimento pubblico più che al relief in senso stretto: American Rescue Plan (1.900 miliardi di $), diventato legge in marzo 2021, American Job Plan (2.250 miliardi di dollari) e American Families Plan (1.800 miliardi di dollari);
  2. Il Piano Next Generation EU, già deliberato in Europa e in via di progressiva adozione e annunciato in partenza già dal 2021; 
  3. Le espansioni monetarie adottate come scelta politica da tutte le maggiori banche centrali, in primo luogo quella Usa, per sostenere la ripresa economica.

Ricadono invece tra le cause economiche dell’inflazione quelle che venivano considerate tali prima della ossessione monetarista e che venivano definite cost-push e demand-pull. Nella discussione attuale sono cost-push avvenimenti quali:

  1. La regionalizzazione delle catene globali di produzione e, dunque, la rinuncia da parte delle imprese a trarre vantaggio, come han fatto per decenni, dall’appartenenza a catene globali di produzione
  2. L’interruzione di catene di approvvigionamento dovuta alla carenza di offerta di componenti, tra le quali è largamente noto il caso dei microchip
  3. Le difficoltà della rete logistica internazionale a tenere testa alla ripresa del traffico indotta dalla ripresa della domanda globale e quindi della produzione. 

Sono tutti fenomeni, questi, di cui soltanto i professionisti si occupavano fino a pochi mesi fa, ma che oggi sono diventati pan quotidiano dell’uomo della strada. Da notare che manca, tra le cause cost-push sopra riportate, il costo del lavoro, che pure nel dibattito storico sull’inflazione ha sempre avuto un’importanza primaria. Un fatto da non trascurare, questa assenza del costo del lavoro tra le cause dell’inflazione al consumo, che riprenderemo in seguito.

Infine, sono demand-pull quelle spinte all’aumento dei prezzi che derivano dal fatto che la domanda di merci e servizi cresce più rapidamente della loro offerta:

  1. Nella situazione presente, chi pensa a questo fattore inflazionistico ha in mente la ‘gran mole’ di risparmi accumulati dai consumatori benestanti durante la pandemia, risparmi che potrebbero, si dice, essere spesi in tempi rapidissimi quando la pandemia sarà ‘sotto controllo’. 

Ciò che rende la situazione presente difficile da analizzare è la molteplicità di ipotesi sul tappeto. Presa a valore facciale, già solo questa complessità induce gran parte degli osservatori a ritenere la spinta inflazionistica assai probabile: in fondo, se ci sono tante cause possibili, una se ne dovrà pur verificare, no?

Il nostro obiettivo è contribuire al dibattito sul rischio inflazione attraverso una serie di articoli da pubblicare in questa sede. Oggi, vorremmo avviare una discussione cominciando con l’esplicitare il quesito che preoccupa una parte importante di chi si occupa del tema, ed è questo: la crescita dei prezzi delle materie prime e delle commodities può innescare un fenomeno inflattivo dei prezzi al consumo?

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Inflazione risalirà solo gradualmente in Europa: il divario tra domanda aggregata e pil potenziale sarà ancora ampio

21 02 07

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it

Il Fondo Monetario Internazionale, all’interno del proprio aggiornamento sulle previsioni di crescita dell’economia, pone un’attenzione forte sul divario tra pil reale e pil potenziale per motivare che l’inflazione rimarrà stabile: per i paesi ad alto reddito pro-capite  non raggiungerà il 2% tra 2021 e 2022, per le economie emergenti e in via di sviluppo rimarrà sotto gli standard storici (Figura 1 e Figura 2): “Even with the anticipated recovery in 2021–22, output gaps are not expected to close until after 2022. Consistent with persistent negative output gaps, inflation is expected to remain subdued during 2021–22. In advanced economies it is projected to remain generally below central bank targets at 1.5 percent. Among emerging market and developing economies inflation is projected just over 4 percent, which is lower than the historical average of the group.” (Fondo Monetario Internazionale, World Economic Outlook, January 2021 Update).

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Prospettive sull’inflazione in uno scenario di politiche economiche senza precedenti

2021 01 23

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it

Premessa

Negli anni della Grande Recessione, convenzionalmente 2007-2009 negli Usa e 2008-2012 in Europa, una delle grandi preoccupazioni di una parte di economisti e di gran parte della stampa era che gli stimoli monetari e fiscali adottati, dove lo furono, per contrastare la recessione, avrebbero prodotto inflazione. Come si sa, non solo ciò non è avvenuto, ma mentre le banche centrali statunitense (dal 2008 al 2014) ed europea (dal 2012 al 2019) adottavano misure di espansione monetaria mai viste prima per intensità e durata, il tasso di inflazione continuava a cadere, e raggiungere il famoso 2% annuo è stato impossibile. 

Oggi ci ritroviamo nello stesso dibattito: da un lato sono coloro (tra cui chi scrive) che sostengono che per uscire da questa crisi in maniera sostenibile i governi debbano deliberare stimoli fiscali enormi, parte di emergenza e parte più strutturali quali quello previsto dal piano Next Generation Europe; dall’altro sono coloro che continuano a ritenere che ciò produrrà spinte inflazionistiche devastanti; e ritengono anche che l’iperinflazione sarà un modo per svalutare il debito accumulato dai governi.

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Dal progetto di capitalismo liberale universale ad un mondo tripolare?

21 01 01

Daniele Langiu, daniele.langiu@gmail.com

Fabio Sdogati, sdogati@mip.polimi.it

Introduzione

È dalle elezioni Usa del novembre 2016 che gli interventi di uno di noi, in aula come in altre occasioni pubbliche, riportano i risultati di riflessioni sull’andamento del commercio internazionale e, in particolare, sui rapporti economici tra Cina e Stati uniti. La prima parte di questo lavoro, condotto anche con i miei coautori, si è conclusa nell’ottobre 2020, in occasione del plenum del Comitato centrale del Partito comunista cinese e l’annuncio delle linee fondamentali del XIV piano quinquennale che, nella interpretazione di Langiu e Sdogati (novembre 2020), costituisce il compimento di quel percorso che avevamo definito, a inizio 2020, di disaccoppiamento tra Cina e Stati uniti.

Il disaccoppiamento a cui eravamo, e siamo ancora interessati, è quello che passa per la dinamica del saldo commerciale bilaterale tra le esportazioni dei due paesi di interesse. Con il progredire della nostra analisi, tuttavia, questa accezione di disaccoppiamento, seppur corretta, non ci è sembrata sufficiente a rappresentare la trasformazione delle economie statunitense, cinese ed europea avvenute tra la fine del XX secolo ed il primo decennio del XXI secolo. Quanto avvenuto negli anni Novanta del secolo scorso sembrava infatti aver rappresentato il punto di svolta per l’affermarsi del modello economico degli Stati uniti: il capitalismo liberale. Esistevano delle solide ragioni per ritenere che questo sarebbe avvenuto, e tra le tante pensiamo sia sufficiente citarne tre: il crollo dell’Unione sovietica, la crescente volontà della Cina di aderire all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) e la formazione dell’Unione economica e monetaria. La nostra tesi è che il primo ventennio del XXI secolo abbia disatteso le aspettative di un mondo unipolare e che lo scenario economico e geopolitico si stia sempre più configurando come un mondo tripolare.

Dal punto di vista economico, lo scoppio della bolla dot-com nel 2001, la crisi finanziaria del 2007 e la seguente Grande Recessione, la crisi del debito sovrano nell’Uem hanno mostrato che il capitalismo liberale emerso dopo la fine degli Accordi di Bretton Woods poteva essere soggetto a crisi endogene che hanno messo a rischio la sopravvivenza delle più importanti società, finanziarie e non, delle economie transatlantiche. Parallelamente, ad Oriente, l’adesione della Cina alle regole del commercio globale non ha portato gli effetti attesi dalle economie occidentali, in particolare dagli Stati uniti, di maggiore liberalismo economico. La Cina, inizialmente, ha seguito un percorso di crescita ‘tradizionale’ per le economie in via di sviluppo: attrazione di forti investimenti nel settore industriale e crescita guidata dalle esportazioni di merci. Tuttavia, il controllo del Governo sull’economia cinese è sempre stato forte e capillare anche nel settore finanziario. Lungi dall’essere un capitalismo liberale, la Cina ha sviluppato la propria forma di capitalismo, il capitalismo politico, che le ha consentito una crescita economica senza precedenti nella sua storia, di iniziare a competere con i settori statunitensi tecnologicamente avanzati, di rappresentare una delle ancore di salvezza dell’economia mondiale dopo il fallimento di Lehman Brothers nel 2008[1] e di avviare un percorso strategico di internazionalizzazione con la Belt & Road Initiative.

Rispetto allo scenario della Guerra fredda che vedeva Usa e Unione sovietica in competizione tra loro ma con due economie totalmente indipendenti, il mondo tripolare che analizziamo nell’articolo è interconnesso dalle catene globali di produzione e da un settore finanziario globale, un mondo articolato in almeno due modelli di capitalismo che, sotto aspetti differenti, hanno entrambi contribuito alla crescita economica di Usa, Europa e Cina.

Sosteniamo che il percorso verso un mondo tripolare è stato avviato e che esso è centrale per capire l’attuale contesto geopolitico che pone Usa, Cina ed Europa in un confronto che va oltre il commercio di merci e servizi, che noi abbiamo studiato in particolare, ma si estende alla tecnologia, alla proprietà intellettuale, ai dati e a temi di sicurezza nazionale.

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